Recenti statistiche accreditano all’Italia una popolazione di circa quattro milioni di imprese (il 97% del totale) con un fatturato inferiore ai cinque milioni di euro per le quali il nuovo trattato di Basilea produrrà concreti effetti positivi.
In effetti, se il risparmio derivante da accantonamenti di garanzia ottimizzati rispetto al passato dovesse, come in effetti si stima, liberare una ingente disponibilità di capitali, questi saranno reindirizzati verso investimenti nelle aziende “più virtuose”, ma nelle PMI in particolare.
Se le banche, senza discriminazione alcuna tra nome e dimensioni, sapranno utilizzare i risparmi di capitale per sviluppare in modo determinante le loro attività di impiego, allora i benefici derivanti dall’applicazione del nuovo trattato di Basilea potranno essere stimati nell’ordine di circa 50 milioni di euro.
Sicuramente, però, i benefici potranno essere sfruttati al meglio solo con una solida alleanza tra banche ed imprese: questa alleanza dovrà comportare una nuova mentalità nel “fare banca” ma anche nel “fare impresa”. Le banche dovranno necessariamente innovare le competenze e la sensibilità per la valutazione del rischio d’impresa (al momento delegata quasi in toto al singolo gestore corporate); in sostanza tutto il sistema creditizio dovrà accompagnare le imprese non solo nella fase di lancio di una azienda ma anche e soprattutto durante lo svolgimento delle attività e mantenendo il proprio supporto in tutte le fasi della ciclicità aziendale.
Ma anche le aziende dovranno avviare seri e concreti miglioramenti nei processi amministrativi e finanziari. La tradizione imprenditoriale italiana, soprattutto per i medio – piccoli imprenditori, si caratterizza per bassa capitalizzazione, prevalenza dell’indebitamento a breve termine e del pluriaffidamento; a partire dalla fine del 2006 (da quando, cioè, il nuovo trattato di Basilea entrerà ufficialmente in vigore) sarà sempre più difficile avere aziende povere e famiglie ricche: l’intero sistema economico dovrà lavorare per migliorare la situazione finanziaria e debitoria.
Ci si chiede, in sostanza, con quale approccio tutto il sistema economico nel suo complesso (non solo le imprese o non solo le banche) dovrà affrontare le nuove regole imposte dal trattato: le imprese, è noto, dovranno eliminare la cronica fragilità della propria struttura patrimoniale e finanziaria (alzando il livello di capitalizzazione e dell’indebitamento a medio e lungo termine a scapito dell’indebitamento a breve termine) e dovranno essere più “investment grade”, puntando su una maggiore capacità innovativa non solo tecnologica ma anche intellettuale e professionale.
Ma anche le banche dovranno cambiare il proprio atteggiamento, con particolare riferimento alla capacità di valutazione e alle tecniche di rating adottate. Indipendentemente dal tipo di rating adottato (base, IRB foundation o IRB advanced) il cliente dovrà averne puntuale conoscenza. Un tale comportamento incide fondamentalmente per una concreta e positiva evoluzione in termini di correttezza del rapporto banca – impresa (sulla scia dei principi di “patti chiari”). In questo senso, non è possibile pensare che le banche procedano ad una simile valutazione mantenendo riservate le componenti rilevate.
È essenziale introdurre tra i vari attori una comunicazione chiara e concreta per consentire di capire le situazioni aziendali, di correggere o migliorare (per quanto possibile) o enfatizzare ciò che è necessario o appianare i possibili equivoci. Ciò consentirà di pervenire ad un rating che coniughi sinteticità, coerenza ed aderenza con la reale situazione dell’affidato (scopo ultimo, d’altronde, in estrema sintesi, di Basilea 2).
D’altra parte occorrerà evitare che la valutazione dell’impresa passi per rigidi modelli statistici e matematici: l’assenza di valutazioni qualitative e di mercato rischierebbe di creare scompensi nelle operazioni di concessione del credito spingendo ulteriormente il processo di spersonalizzazione delle relazioni tra istituti di credito ed aziende già in corso nel nostro Paese con i processi di concentrazione di piccoli e medio piccoli istituti di credito sotto insegne comuni con i grandi istituti.
Solo riequilibrando i valori quantitativi con elementi qualitativi che li depurino da eventuali distorsioni della reale situazione aziendale apportate da fattori e condizioni contingenti (come ad esempio disponibilità di liquidità e di cassa, tipiche per alcuni settori economici e assolutamente straordinari per altri), il rating potrà rappresentare un indicatore immediato dello “stato di salute” dell’impresa e dare uno stimolo alla capitalizzazione delle imprese ed alle condizioni di bilancio, permettendo valutazioni di solvibilità e condizioni di accesso al credito coerenti con la situazione contingente dell’azienda, con la realtà in cui l’azienda opera ed in linea con la sua tradizione ed i suoi progetti.
Occorre, però chiedersi quale possa essere l’alternativa a questo scenario “ideale”.
Bisognerà essere coscienti che il rischio concreto che si correrà sarà di possibili (anzi, probabili) riduzioni del credito a disposizione delle imprese e costi più alti per i finanziamenti, creando un mercato del credito asfittico che toglierà ossigeno alle imprese che tanti (troppi) definiscono “poco virtuose” che, in un’ottica di lungo periodo, non potrà che ricadere con tutte le conseguenze del caso, su tutto il sistema bancario.
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