Rischio di credito
Indice
Capitolo 1
Dal merito di credito al rischio di credito: il ruolo della banca
1.1 La banca tra efficienza allocativa e affidabilità della clientela
Secondo la teoria economica la banca è una impresa che nella sua attività tipica sviluppa una esperienza specifica nella valutazione del merito di credito e nella gestione degli affidamenti, il che la mette in condizione di svolgere un ruolo quasi unico nella selezione e nella allocazione delle risorse nel mercato del credito. E’ ormai nota l’esistenza di asimmetrie informative che, secondo Akerlof [1], possono portare al fallimento del mercato per l’effetto di una selezione avversa (adverse selection) degli affidamenti, cioè l’impossibilità di valutare la qualità effettiva degli strumenti trattati [2], ma anche maggiori rischi derivanti da comportamenti opportunistici (moral hazard) da parte dell’affidato nel corso della vita del prestito stesso; fattispecie, queste, che sono viste come ostacoli al libero estrinsecarsi dei meccanismi di mercato, ma anche come giustificazioni dell’esistenza e dell’operare degli intermediari.
[1] Cfr. Akerlof G., The market for lemons: qualitative uncertainty and the market mechanism, in Quarterly Journal of Economics n.84, 1970. [2] In sostanza si accordano crediti a condizioni non proporzionate al rischio a cui ci si espone: in presenza di condizioni troppo restrittive rispetto a tassi di credito eccessivamente alti, la banca corre il serio pericolo di cedere i rischi più contenuti alla concorrenza più a buon mercato (perdita di clienti), innalzando automaticamente il peso dei gravi rischi insiti nel portafoglio crediti. Viceversa, se i tassi credito sono troppo modesti la banca appare appetibile agli occhi dei debitori della fascia di solvibilità più bassa (clienti in perdita), con l’effetto di deteriorare ulteriormente la struttura del portafoglio.
Tutto ciò espone la banca al rischio di credito, cioè al rischio che il finanziato sia inadempiente o addirittura insolvente [3], con conseguente necessità di misurare tale rischio con metodologie più o meno sofisticate che rientrano tra i criteri di valutazione dei fidi.
[3] Si ha inadempienza quando il debitore non realizza la prestazione al momento dovuto, nel luogo dovuto e secondo le modalità stabilite. L’insolvenza invece è una situazione di inadempienza definitiva, a fronte della quale il creditore può chiedere la risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1453 c.c.
L’analisi del merito di credito della clientela richiede però una notevole quantità di informazioni che di solito sono riservate, e solo l’instaurazione di un reciproco rapporto di fiducia tra impresa e banca può consentire a quest’ultima l’accesso a dati necessari alla valutazione, superando di fatto i problemi legati all’esistenza di asimmetrie informative.
I benefici derivanti da un siffatto rapporto si estendono a entrambi i contraenti: per l’impresa infatti c’è la possibilità di ottenere una stabilizzazione del costo del finanziamento, ovvero di godere di finanziamenti a tassi inferiori, mentre per la banca si intravede un migliore sfruttamento delle informazioni riservate.
Come rovescio della medaglia, le imprese si trovano ad affrontare però l’eterno dilemma tra la diffusione di informazioni necessarie alla loro valutazione e le esigenze di competitività aziendale, che invece suggeriscono di mantenere una certa riservatezza per evitare di favorire le aziende concorrenti.
Non c’è dubbio però che l’avvio di un rapporto privilegiato con la banca è particolarmente importante per le imprese di dimensioni minori, che solamente tramite l’intervento della stessa hanno accesso al mercato dei capitali, determinante per raccogliere finanziamenti a costi adeguati alle loro possibilità.
Se infatti le grandi imprese hanno la possibilità di agire autonomamente sui mercati finanziari, e accedere direttamente alle opportunità di finanziamento, le imprese più piccole, che non hanno tale capacità, devono necessariamente rivolgersi al mercato finanziario in forma mediata.
1.2 Alcune riflessioni sul concetto di rischio di credito
Prima di addentrarci nelle questioni relative al merito di credito, pare utile soffermarsi sul concetto di rischio di credito, termine che a prima vista potrebbe sembrare scontato, ma che in realtà racchiude in se diversi significati che devono essere analizzati e chiariti.
Secondo una definizione ormai condivisa nel mondo accademico, per rischio di credito s’intende “la possibilità che una variazione inattesa del merito creditizio di una controparte, nei confronti della quale esiste un’esposizione, generi una corrispondente variazione inattesa del valore di mercato della posizione creditoria”. [4]
[4] Cfr. A. Sironi, I rating interni e i modelli per la gestione del rischio di credito, Tematiche istituzionali – Banca d’Italia, aprile 2000.
Questo porta ad alcune riflessioni importanti: innanzitutto rischio di credito non significa solo possibilità di insolvenza di una controparte (credit default risk), in quanto anche il semplice deterioramento del merito creditizio di questa, che determina una riduzione del valore di mercato della posizione creditoria detenuta, deve già considerarsi una manifestazione del rischio predetto (credit spread risk).
A sua volta le componenti del rischio di credito sono essenzialmente due: la perdita attesa (o Expected loss, EL) e la perdita inattesa (o Unexpected loss, UL). Evidentemente assume rilevanza solo la componente inattesa del rischio di credito, ossia deve verificarsi un deterioramento della qualità del credito che non era stato previsto; questo perché le perdite attese sono già comprese negli accantonamenti prudenziali e nella determinazione del tasso d’interesse per i titoli di debito o per i prestiti, nell’ambito di quell’attività di pricing che deve riflettere in modo adeguato il profilo di rischio di un impiego. Proprio in quanto stimata a priori quindi, la perdita attesa non costituisce il vero rischio di un’esposizione creditizia, ma si configura piuttosto come un elemento di costo per così dire “fisiologico”, incorporato già nelle aspettative dell’investitore. In altri termini, essa consente di tener conto del rischio medio di insolvenza della controparte, che viene quantificato, nella determinazione del pricing, da uno spread che misura il premio rispetto ad un investimento privo di rischio.
Analiticamente per perdita attesa s’intende il valor medio della perdita che una banca si attende di subire con riferimento ad un credito o portafoglio di crediti, in un certo arco temporale; mentre la perdita inattesa non è altro che il grado di variabilità del tasso di perdita intorno al proprio valore atteso. [5]
[5] Cfr. A. Sironi, Le componenti del rischio di credito §1.3, in A. Resti, “Misurare e gestire il rischio di credito nelle banche: una guida metodologica”, 2001.
Quest’ultima, quindi, equivale alla possibilità che la perdita effettiva risulti, ex post, superiore alla perdita attesa stimata ex ante.
Normalmente la perdita attesa è espressa come funzione di tre elementi:
- la probabilità di insolvenza del debitore (Probability of Default, PD),
- la perdita in caso di insolvenza (Loss Given Default, LGD),
- l’esposizione al momento dell’insolvenza (Exposure at Default, EAD). Ovvero si ha:
Equazione 1 – La perdita attesa
EL = EAD x PD x LGD
La probabilità di insolvenza (PD) discende a sua volta dal merito creditizio del debitore, cioè dalla sua capacità di reddito e quindi da fattori relativi alle condizioni economico-finanziarie, attuali e prospettiche, dell’impresa affidata, nonché dalla qualità del management, dalle prospettive di sviluppo del settore produttivo, ecc.
Invece, la percentuale di perdita in caso di insolvenza (LGD) dipende, in genere, dalla stima dei “valori di liquidazione” del patrimonio dell’impresa affidata, ma anche dalla natura del finanziamento e dalle eventuali garanzie che lo assistono, da cui discende una metodologia di analisi dei due profili notevolmente diversa.
Il calcolo di EAD richiede di conoscere sia la quota di fido utilizzata (Drown Portion, DP), sia la quota non utilizzata (Undrown Portion, UP); quest’ultima assume importanza in quanto il debitore ha praticamente la facoltà di aumentare la sua esposizione in corrispondenza dell’insolvenza.
Si inserisce quindi una terza variabile che prende il nome di Usage Given Default, UGD, che rappresenta la percentuale della quota inutilizzata che si ritiene venga utilizzata dal debitore in corrispondenza dell’insolvenza. Analiticamente avremo:
Equazione 2 – L’ Exposure At Default
EAD = DP + UP x UGD
Le due componenti del rischio di credito quindi, non solo rappresentano aspetti diversi della manifestazione delle perdite, ma hanno anche implicazioni diverse sulle politiche di bilancio della banca: infatti, come abbiamo visto, la perdita attesa serve a determinare il livello adeguato degli accantonamenti in conto economico, mentre la componente inattesa ha il compito principale di garantire un adeguato livello di patrimoni alizzazione dell’istituzione creditizia.
Oltre alla suddivisione tra perdita attesa e inattesa, è interessante notare l’esistenza di svariate determinanti del rischio di credito, che può assumere la forma di:
- Rischio di insolvenza (o di default), che si manifesta come probabilità che il debitore si renda incapace o indisponibile ad onorare i propri impegni. Tale probabilità viene misurata attraverso un giudizio sintetico (il cosiddetto rating) emesso da apposite agenzie specializzate, o dalle banche stesse;
- Rischio di esposizione, che fa riferimento all’ammontare del debito che risulta a rischio nel momento in cui si manifesta l’insolvenza;
- Rischio di recupero, che riguarda l’ammontare di prestito in sofferenza che potrà essere effettivamente recuperato dalla banca attraverso le varie procedure di recupero crediti. E’ in tale ambito che si inquadra il concetto di loss given default, cioè la perdita in caso di insolvenza;
- Rischio di concentrazione, ossia il rischio che un portafoglio di crediti eccessivamente orientato verso pochi grandi prestiti, o verso determinati settori industriali, risulti esposto a grandi oscillazioni di valore rispetto a quello atteso;
- Rischio di migrazione, che consiste nella probabilità di un deterioramento del merito creditizio di un debitore, e che trova riscontro in un declassamento del rating da parte delle varie agenzie internazionali o da parte della banca stessa.
La misurazione e la gestione del rischio di credito non sono purtroppo operazioni agevoli né tantomeno intuitive, ed è ben nota la scarsità di serie storiche a cui le istituzioni creditizie italiane dovrebbero far riferimento per costruire modelli previsivi attendibili.
Tra i vari motivi, bisogna ricordare in particolare la difficoltà di stimare le correlazioni esistenti all’interno di un portafoglio di crediti perché, a differenza delle correlazioni tra i vari strumenti finanziari (generalmente liquidi), i crediti sono tendenzialmente illiquidi e caratterizzati da frammentarie serie storiche.
1.3 La gestione strategica del rischio di credito: il Credit Risk Management (CRM)
Nel corso degli ultimi anni lo scenario competitivo delle banche internazionali è stato caratterizzato da una evoluzione e da un dinamismo sempre crescenti, che di fatto hanno spinto le istituzioni creditizie ad assumere rischi più elevati, accrescendo al contempo l’esigenza di affinare le tecniche di mitigazione dei rischi stessi.
Tali mutamenti hanno determinato, con particolare riferimento al rischio di credito, il superamento della prassi tradizionale basata sulla limitazione del rischio attraverso le garanzie, e l’affermazione di nuove metodologie sviluppate secondo un’ottica di portafoglio, capaci di contribuire in maniera determinante alla formazione del risultato complessivo di gestione.
La maggiore attenzione riservata alle problematiche del rischio di credito, più che ad altre tipologie di rischio, nel contesto del sistema bancario italiano, è da ricondurre a motivazioni ormai note in ambito accademico:
- al peso che l’attività di erogazione del credito assume rispetto al totale delle attività detenute in portafoglio;
- alla rilevanza delle perdite su crediti, quale elemento che ha contribuito a peggiorare sensibilmente i già poco esaltanti risultati economici degli intermediari creditizi che operano nel nostro Paese;
- alla classica attenzione che la nostra autorità di vigilanza ha da sempre riservato al controllo del rischio di credito, in particolar modo negli ultimi tempi in seguito alle proposte di modifica dell’Accordo di Basilea sui requisiti patrimoniali;
- al crescente interesse degli investitori all’andamento economico e alle performance delle istituzioni creditizie, ecc.
1.3.1 I concetti chiave di un sistema di Credit Risk Management (CRM)
Quando si parla di Credit Risk Management ci si riferisce in genere ad un “sistema integrato di modelli e di strumenti di misurazione che consente, unitamente all’esistenza di idonee strutture organizzative, una gestione finalizzata e ottimale del rischio di credito.” [6]
[6] Cfr. Pogliaghi P., Gaetano A., Vandali W., Rischio di credito e rischi operativi in banca – Un’applicazione nel Credito Cooperativo, 2001
Per cui un adeguato sistema di CRM deve fondarsi innanzitutto sulla chiara individuazione degli obiettivi da perseguire, unitamente alla scelta dei modelli, degli indicatori e degli strumenti per la misurazione del rischio; di fondamentale importanza risulta poi essere la predisposizione degli elementi di carattere organizzativo, che consentono di rendere operativo il modello di misurazione adottato.
Con riferimento a quest’ultimo, bisogna denotare una scarsa chiarezza sui concetti di fondo nei diversi contributi presenti in dottrina in quanto ,ad esempio, si fa spesso confusione tra le definizioni di scoring e rating. In alcuni casi si ritiene che il passaggio dalla fase di scoring a quella di attribuzione del rating si sostanzi nella mera considerazione di elementi soggettivi che vengo no aggiunti alla valutazione automatica del sistema, con il rischio però di non cogliere adeguatamente l’evoluzione dinamica del rischio di credito nel contesto operativo della banca.
Un sistema di CRM deve poi fornire, nella fase di misurazione, una quantificazione della perdita attesa sulle singole posizioni, connessa alla probabilità di default del debitore, considerato nella sua individualità o come appartenente ad una classe omogenea. Questo richiede ovviamente che i modelli di analisi della rischiosità relative alle varie fasi di gestione dei crediti (istruttoria, monitoraggio e revisione), debbano essere integrati tra loro, fino ad apparire come un unico modello complesso.
L’adozione dei modelli suddetti, ai fini dell’affidamento, presuppone che si ponga attenzione alle componenti fondamentali del rischio di credito, ossia la perdita attesa e inattesa, ma anche al grado di correlazione fra le perdite inattese delle varie categorie di impieghi. E’ ben noto che la variabilità della perdita attesa (cioè la perdita inattesa) risulta tanto minore quanto minore è il grado di correlazione fra i singoli impieghi; per cui è evidente che essa può essere ridotta efficacemente mediante una adeguata politica di diversificazione per aree geografiche, settori produttivi e classi dimensionali.
Al contrario la perdita attesa non può essere eliminata diversificando il portafoglio in base alle modalità suddette, ma può essere semplicemente “stabilizzata” e quindi livellata mediante l’ampliamento del portafoglio stesso, ossia introducendo un gran numero di impieghi della stessa natura in modo tale da far si che il livello di perdita media sia effettivamente quello conseguito dal portafoglio impieghi della banca. Per quanto riguarda infine il terzo elemento, cioè il grado di correlazione tra le perdite inattese delle varie categorie di impieghi, che rappresenta il contributo del singolo prestito al rischio complessivo del portafoglio, si è potuto rilevare in base a studi empirici che le divergenze in termini di rapporti sofferenze/impieghi fra settori produttivi e aree geografiche, siano particolarmente forti, denotando una correlazione imperfetta, e si accentuino in corrispondenza delle fasi di crisi. Ne consegue che un’efficace politica di diversificazione del portafoglio impieghi consentirebbe di ridurre in maniera significativa, a parità di rendimento atteso, il grado di rischio complessivo del portafoglio stesso.
La riduzione della variabilità, tuttavia, pur combinando il maggior numero di attività consentito dal mercato, non scende al di sotto di una soglia, tale per cui i fattori di rischio comunque presenti nell’economia determinano una comune variabilità “di fondo” dei rendimenti attesi. Tale rischio non eliminabile attraverso il gioco delle compensazioni tra attività viene detto “rischio sistematico” o di mercato, proprio perché inevitabile e insopprimibile nel tempo.
Nella prassi operativa, la misurazione e il monitoraggio del rischio di credito non possono prescindere dalla stima delle probabilità di insolvenza delle controparti affidate. Sul concetto di insolvenza si può spaziare tra chi ritiene che un soggetto si possa considerare insolvente quando ne venga dichiarato il fallimento, e chi invece sostiene che sia sufficiente l’esistenza di indizi precisi sulla sua incapacità di onorare i suoi debiti. Se ci si riferisce alla seconda definizione, è necessario chiarire quale possa essere l’evento pregiudizievole suscettibile di dar luogo a insolvenza: ad esempio il mancato pagamento di una rata, anche se in questo caso occorre poi scoprire se si tratta di un momentaneo problema di liquidità che può non aver nulla a che vedere con l’equilibrio finanziario di lungo periodo e con la solidità dell’azienda.
E’ indubbio però che la definizione di insolvenza faccia riferimento ad una crisi pressoché irreversibile dell’azienda affidata, l’ultimo stadio cioè di un lungo processo di degenerazione dei suoi equilibri finanziari, tale da rendere necessaria l’escussione delle garanzie prestate per far fronte alla perdita di una quota significativa del capitale impegnato.
Naturalmente ogni banca può godere di una certa libertà nel decidere come debba intendersi il concetto di default, e forse questo può essere uno dei motivi del ritardo del nostro sistema bancario nell’implementazione di moderne metodologie di risk management.
Per venire incontro a queste difficoltà, peraltro, la nostra Banca Centrale diffonde da tempo una serie di informazioni statistiche (il cosiddetto “bollettino statistico”) concernenti il rischio di credito, basate sul concetto di “sofferenza rettificata”, proprio per tener conto di eventuali difformità di giudizio da parte della banche segnalanti.
Nella terminologia adottata dall’autorità di vigilanza, le sofferenze fanno riferimento alla “totalità dei rapporti per cassa in essere con soggetti in stato di insolvenza o in situazioni sostanzialmente equiparabili, a prescindere dalle garanzie che li assistono, al lordo delle svalutazioni operate per previsioni di perdita”.
Le sofferenze rettificate vengono determinate in base al confronto della valutazione (sofferenza o impiego vivo) che ogni cliente riceve dagli intermediari che lo affidano [7]; in particolare, il cliente segnalato in sofferenza da almeno un intermediario viene considerato anche in sofferenza rettificata:
- qualora l’unico intermediario che ha erogato credito lo segnali in sofferenza (cliente monoaffidato);
- qualora sia segnalato in sofferenza da un intermediario e tra gli sconfinamenti dell’unico altro intermediario esposto (cliente biaffidato);
- qualora l’unico intermediario che segnala il cliente in sofferenza si esposto per almeno il 70% dell’indebitamento complessivo del cliente stesso o, se non si raggiunge questa percentuale, vi siano sconfinamenti per almeno il 10% dell’indebitamento complessivo;
- qualora vi siano almeno due intermediari che segnalano il cliente in sofferenza per importi pari o superiori al 10% dell’indebitamento complessivo.
[7] Cfr. Ascenzo M.P. e Viviani U., Nuove basi informative realizzate dalla Banca d’Italia, 2000
In generale si può affermare che la sottostima del rischio di portafoglio è tanto maggiore quanto maggiore è la differenza tra le sofferenze rettificate e quelle segnalate.
Un altro concetto di fondamentale importanza nella misurazione e gestione del rischio di credito è rappresentato dall’orizzonte temporale di riferimento, che rappresenta il periodo durante il quale viene valutata la probabilità di deterioramento del merito creditizio, o il passaggio ad una situazione di insolvenza del prenditore di fondi. E’ chiaro che la probabilità che un soggetto risulti insolvente in un dato momento futuro, aumenta all’aumentare dell’orizzonte di tempo considerato; in genere fra le banche risulta prevalente l’adozione di un orizzonte temporale di un anno, e questo per motivi attinenti a fattori di natura gestionale ed operativa, come ad esempio la necessità di uniformare ad un’unica data la valutazione della rischiosità complessiva delle esposizioni creditizie detenute, nonché coerentemente con la frequenza di rilevazione dei risultati economici ufficiali, riferiti alla durata dell’esercizio contabile, anch’esso pari ad un anno.
Infine non si può non tener conto dell’ intervallo di confidenza, che rappresenta il grado di probabilità associato alla stima dei tassi di perdita; quindi adottare ad esempio un intervallo di confidenza pari al 99%, equivale a stimare in via prudenziale una misura di perdita potenziale tale da consentire, attraverso adeguati accantonamenti patrimoniali, una copertura delle perdite effettive che dovrebbero risultare, in 99 casi su 100, inferiori alla perdita stimata.
La scelta dell’intervallo di confidenza è inoltre funzione inversa del grado di propensione al rischio della banca: un basso grado di propensione al rischio, ad esempio, determinerà l’adozione di un elevato intervallo di confidenza, che potrà così assicurare un adeguato livello di copertura contro gli eventi sfavorevoli, e viceversa.
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