Basilea 2: l'applicazione dell'accordo
Indice
Capitolo 2
(seconda parte)
Tendenze recenti nella regolamentazione prudenziale sull’adeguatezza del capitale
Il primo passo dell’aggiustamento, detto mapping, consiste nella suddivisione del portafoglio in sub-portafogli omogenei per qualità creditizia (rating), LGD e il medesimo comportamento in merito alle variabili fondamentali sottostanti.
Nel secondo passo si determina il granularity adjustment dei riskweighted assets. Per ciascuno dei sotto-portafogli si calcolano le seguenti grandezze:
- Si è il rapporto tra esposizione del sub-portafoglio ed esposizione complessiva;
- PDi è la probabilità di default a un anno;
- Fi è la sensibilità al rischio sistematico della performance del prenditore, funzione della probabilità di default e dell’asset value correlation fissata dalla normativa;
- LGDi è la media delle LGD individuali pesate per le esposizioni;
- Hi è l’indice di Herfindahl, misura di concentrazione delle esposizioni.
Si procede successivamente alla quantificazione delle medesime grandezze a livello aggregato di portafoglio totale della banca, definite rispettivamente PDAG , FAG e LGDAG, che corrisponderanno alla media ponderata dei valori ottenuti per i sub-portafogli. Disponendo di queste informazioni si procede al calcolo dell’indice di Herfindahl per l’intero portafoglio e al suo reciproco n*:
A questo punto sono disponibili tutti gli elementi necessari alla determinazione del Granularity Scale Factor(GSF), fattore espressivo del livello di frazionamento del portafoglio:
Il granularity adjustment è quindi calcolato come differenza tra:
- (GSF / n*) moltiplicata per il totale dell’attivo ponderato;
- un valore benchmark, fissato dalla normativa, pari a 0.04 moltiplicato per il medesimo valore di attivo ponderato precedente.
Il valore così ottenuto verrà aggiunto (o, se negativo, sottratto) al valore degli assets ponderati per il rischio. Quindi, indicando l’esposizione i-esima ponderata al rischio con:
e l’aggiustamento della granularità dell’esposizione i-esima con:
otteniamo la formula finale per il patrimonio di vigilanza:
Nel metodo IRB le banche stimano la probabilità d’insolvenza facendo uso della definizione di insolvenza a fini regolamentari; questo è un elemento fondamentale, che deve essere stimato per ogni classe di rating con un orizzonte temporale annuale, e deve essere rappresentativo di una valutazione di lungo periodo.
Sono previsti due scenari per la stima della probabilità d’insolvenza:
- prenditori non supportati da garanzie di terzi: la PD del credito sarà uguale alla PD su base annua associata alla classe del prenditore cui il credito si riferisce, se maggiore dello 0,03%; negli altri casi sarà pari allo 0,03%.
- prenditori supportati da garanzie personali: questo scenario prevede un trattamento diverso delle garanzie personali a seconda che si applichi l’approccio base o quello avanzato [26]; il risultato è che, nel metodo base, si fa riferimento a due differenti PD, una per la parte del credito non coperta dalla garanzia personale (la PD propria del debitore), e una “aggiustata” per la parte garantita del credito [27], mentre nel metodo avanzato è la banca stessa a valutare il grado di trasferimento del rischio conseguente all’introduzione della garanzia.
[26] Entrambe le metodologie necessitano, ai fini del riconoscimento della riduzione del capitale, del rispetto degli standard minimi e dei requisiti operativi delineati nel trattamento previsto per tali garanzie dall’approccio standardizzato. La trattazione delle garanzie personali e dei credit derivatives nel Nuovo Accordo è piuttosto articolata, così come il trattamento delle altre tecniche di mitigazione del rischio di credito.
[27] Per parte garantita del credito s’intende l’ammontare nominale della garanzia “aggiustato” per eventuali mismatch valutari.
L’insolvenza di una controparte si considera avvenuta nel caso in cui uno o più dei seguenti eventi si sia verificato:
- la controparte non è in grado di adempiere pienamente ai suoi obblighi di pagamento (capitale, interessi, o tasse);
- un evento di perdita sul credito associato ad una qualsiasi obbligazione della controparte, come una svalutazione, un accantonamento specifico, o una rinegoziazione del credito;
- la controparte risulta inadempiente da più di 90 giorni [28];
- la controparte sia coinvolta in una procedura fallimentare o in altro simile strumento di protezione dai creditori.
[28] Per il segmento retail il Nuovo Accordo stabilisce che l’Organo di Vigilanza può elevare il limite a 180 giorni di ritardato pagamento; in tal senso sembra essersi orientata anche la Banca d’Italia, ma ad oggi la materia non è ancora abbastanza chiara, cosa che può creare problemi, tra l’altro, per i dati consolidati a livello di gruppo.
Le banche potranno quindi far ricorso ad una propria definizione di insolvenza, ma dovranno renderla pubblica e dimostrarne la coerenza con la definizione regolamentare suddetta. Dovranno altresì fornire una stima della perdita in caso d’insolvenza per ogni credito del portafoglio imprese; in tal caso vi sono due metodi di stima diversi:
- nel metodo base non si richiede alle banche di stimare la LGD, ma di seguire dei criteri standard per il suo calcolo: i crediti privilegiati non accompagnati da specifiche garanzie collaterali riconosciute avranno una LGD pari al 50%; i crediti subordinati senza garanzie una LGD pari al 75%; nel caso in cui i crediti siano assistiti da garanzie collaterali sono previsti degli aggiustamenti nel calcolo della LGD.
- nel metodo avanzato la LGD del credito è uguale alla stima interna, realizzata dalla banca stessa, della LGD associata a ciascun livello di perdita cui quel credito si riferisce.
Nell’approccio avanzato, e in quello base ove sia espressamente indicato, le banche devono fare riferimento anche all’orizzonte temporale di riferimento del credito; a tale scopo viene data una definizione di maturità intesa come il tempo massimo, espresso in anni, che rimane al prenditore per assolvere completamente alle proprie obbligazioni contrattuali (capitale, interessi e commissioni) nei termini dell’accordo di prestito. Normalmente questa misura corrisponderà alla maturità nominale dello strumento [29].
[29] Se tale misura risulta essere inferiore all’anno, si considera comunque una maturità di un anno; si stabilisce inoltre che la maturità effettiva non debba mai essere superiore a 7 anni.
Entrando quindi nel vivo dell’approccio Foundation, il coefficiente di ponderazione (RW) si ottiene moltiplicando un benchmark risk weight (BRW) per il rapporto (LGD/50); tuttavia il RW non può superare una soglia di 12.5 volte la LGD.
Il BRW dipende dalla PD a un anno, stimata internamente per una data classe di rating interno del debitore:
dove N(x) è la funzione di distribuzione cumulata di una variabile normale standard e G(x) è l’inversa di tale funzione.
Il coefficiente di ponderazione RW può essere modificato correggendo le variabili che intervengono nella formula, attraverso l’introduzione di fattori di mitigazione.
I fattori di mitigazione del rischio, relativi alla presenza di garanzie personali e credit derivatives, intervengono nella stima della probabilità di default corretta (PD*), ottenuta come media ponderata della PD del debitore e del garante:
dove:
PDB = è la probabilità di insolvenza del debitore principale (borrower);
PDG = è la probabilità di insolvenza del garante, derivante dal rating ottenuto;
w = è un coefficiente residuale applicato all’esposizione sottostante che può assumere due valori (0.15 in generale per tutte le garanzie o 0 nel caso in cui il garante sia un ente sovrano, una banca centrale o una banca).
Invece, per quanto concerne i fattori di mitigazione del rischio legati alla stima della LGD, si prevede:
- una LGD standard del 50% per i crediti senior unsecured
- una LGD standard del 75% per i crediti subordinati.
Le garanzie su cespiti finanziari sono definite in modo analogo a quanto previsto per l’approccio standardized globale, salvo che l’indice da correggere non è r ma LGD, per ottenere un LGD* da inserire nella formula del coefficiente di ponderazione.
Ed infine:
PV = RWAx8%
Per quanto riguarda la metodologia avanzata, la novità principale è rappresentata dalla possibilità di stimare internamente la LGD invece di utilizzare i parametri fissi del 50% o del 75%, come avviene nel metodo base. Inoltre viene esplicitamente considerata la vita residua dell’esposizione; entra così in gioco un fattore correttivo che può assumere segno positivo o negativo in funzione di:
- M: vita residua dell’esposizione (maturity), rispetto alla vita standard di 3 anni;
- PD;
- b: coefficiente di sensibilità
In questo caso il coefficiente di ponderazione è definito come:
In presenza di garanzie personali e credit derivatives, sono le stime interne alla banca a determinare la misura del trasferimento del rischio; inoltre, cadono i limiti al tipo di garanti ammessi e ai fattori w da applicare.
Per poter applicare il metodo IRB al loro portafoglio imprese, le banche devono inoltre rispettare dei requisiti minimi di natura qualitativa, tra i quali citiamo:
- Significativa differenziazione dei sistemi di rating;
- Completezza e integrità per l’attribuzione dei rating;
- Sorveglianza sui sistemi e processi di rating;
- Intervento sulle procedure organizzative ed informatiche;
- Validazione interna;
- Trasparenza e pubblicità.
Va da sé che la validità di un sistema di rating interni è pari a quella degli input impiegati per costruirlo. Di conseguenza, le banche che si avvalgono dei metodi IRB dovranno essere in grado di misurare le determinanti statistiche centrali della propria esposizione al rischio di credito. I requisiti minimi fissati nel Basilea 2 conferiscono alle banche flessibilità nell’utilizzo sia dei dati tratti dalla loro stessa esperienza, sia di quelli provenienti da fonte esterna, nella misura in cui esse potranno dimostrare la significatività di tali informazioni per i portafogli in loro possesso. In estrema sintesi l’obiettivo chiave da cui scaturiscono i requisiti minimi per l’approccio IRB, è quello di garantire che i sistemi e i processi interni forniscano una attendibile valutazione del debitore e delle caratteristiche della transazione, una significativa differenziazione del rischio ed una stima quantitativa dello stesso ragionevolmente accurata e coerente.
Oltre alla rischiosità, anche le dimensioni dell’azienda diventano fattore positivo nella assegnazione di una classe di merito poiché si parte dall’assunto “too big to fail” (ovvero troppo grande per fallire), assunto decisamente smentito dagli ultimi casi di cronaca finanziaria quali: Enron, World Com., Parmal at ecc., solo per citare i più eclatanti. Se è vero che una grande azienda ha meno probabilità di andare in default, è altrettanto vero che quando tale circostanza si verifica ne risente in modo consistente l’equilibrio della banca.
Come emerge dalle istruzioni per la compilazione della simulazione d’impatto BIS II (denominata QIS3) del dicembre 2002, a parità di condizioni di rischio, un prestito di 100 euro a una controparte corporate con probabilità di default pari a 0.75% e fatturato di 50 milioni di euro, comporta un assorbimento di capitale superiore a quello richiesto dal medesimo prestito fatto a un’impresa di piccole dimensioni, seppur dotata di una probabilità di default maggiore (1.0%).
L’ampiezza degli adattamenti, degli adempimenti e della fase, prevedibilmente lunga, di validazione e controllo dei modelli da parte di nuclei tecnici della vigilanza, richiede uno sforzo di rilevante portata da parte di molte funzioni, divisioni e società dei gruppi bancari internazionali che intendono accedere a tali riconoscimenti. Gli investimenti appaiono altrettanto cospicui: gli adattamenti software, organizzativi, legali e procedurali avranno costi particolarmente rilevanti, soprattutto con riferimento all’approccio Advanced, per il quale essi saranno tali da escludere la possibilità-convenienza per le banche più piccole di adottarlo.
La scelta del metodo da utilizzare sarà differenziata a seconda del segmento di mercato da valutare (piccole e medie imprese, società quotate ecc.). In un portafoglio composto esclusivamente di piccole e medie imprese, statisticamente, può essere misurata in maniera precisa la perdita attesa, mentre sarà irrilevante la perdita inattesa.
Al contrario, in un portafoglio fatto di grandi imprese, la perdita inattesa assume rilevanza e dovrà essere quantificata attraverso l’utilizzo di indici di concentrazione.
Per quanto riguarda poi la stima della LGD, l’IRB Advanced sarà più vantaggioso per le banche che hanno una buona “storia” di recupero crediti alle spalle; siccome il calcolo della LGD incide in maniera direttamente proporzionale nella determinazione della perdita attesa, se il calcolo della PD è preciso ma la LGD è solo approssimata, i risultati saranno di minore qualità. Gli istituti che prenderanno in considerazione questo aspetto potranno ulteriormente “personalizzare” il loro capitale.
La scelta del metodo da utilizzare dipenderà inoltre dai costi che dovranno essere sostenuti per ottenere in cambio una riduzione del capitale di vigilanza; ciascun istituto di credito potrà quindi impostare abbastanza liberamente la propria politica industriale, pur rispettando la logica di “Basilea 2”. E’ probabile che costi elevati saranno compensati solo nel lungo termine dai benefici patrimoniali che deriveranno dagli incentivi regolamentari ventilati dagli estensori dell’Accordo.
La sfida è quella di abbandonare fin d’ora un approccio che guardi solo all’Accordo in quanto adempimento normativo e tragga invece dagli strumenti adottati tutte le opportunità che possono dare sul piano degli affari, della diversa proposta al cliente, della potenzialità di marketing e di erogazione di sevizi professionali più elevati, con maggior valore, con contenuti di prestazione adeguati.
Inoltre, come si è visto, le ponderazioni per l’approccio IRB sono più sensibili al rischio rispetto a quelle dell’approccio standardizzato, e ciò può dar luogo sia a risparmi che ad aggravi di capitale notevoli a seconda della rischiosità del portafoglio.
Come si vede, per portafogli meno rischiosi (fino alla classe di rating BB), l’approccio IRB risulta più conveniente in termini di capitale assorbito, mentre per portafogli ad alto rischio (oltre BB) esso risulta penalizzante. In generale si può affermare che l’assorbimento di capitale aumenta al diminuire della sofisticazione dell’approccio adottato, per cui l’IRB Advanced conduce sicuramente a risultati migliori sia rispetto all’approccio Standard che rispetto al vecchio Accordo. Il primo inoltre, come già detto in precedenza, consente una qualificazione delle esposizioni creditizie secondo una modalità continua e puntuale rispetto al portafoglio clienti, mentre il metodo standard fornisce una qualificazione discreta per classi di esposizione. In ogni caso, la possibilità di “risparmiare capitale” utilizzando le differenti metodologie proposte dal Nuovo Accordo dovrà essere attentamente verificata tramite simulazioni comparative.
Ad esempio, tenendo conto che nell’approccio IRB Foundation la funzione regolamentare prevede una ponderazione per il rischio del 100% per i prestiti:
- nei confronti di controparti con PD pari allo 0.7%;
- con un tasso di perdita in caso di insolvenza (LGD) pari al 50%;
- con vita residua (M) pari a tre anni.
ossia c’è una convenienza ad adottare questo metodo solo in presenza di probabilità di insolvenza uguali o inferiori allo 0.7% [30] (si tratterebbe di una controparte BB o BB+ secondo le usuali classificazioni internazionali), considerando che il tasso medio di insolvenza registrato recentemente in Italia non scende mai al di sotto dello 0.7% (oscillando addirittura su una media del 4%), risulta evidente che, tranne poche eccezioni, alle banche convenga adottare il metodo IRB Advanced cercando di evitare, se possibile, il passaggio per il metodo di base. Tutto ciò però richiede il rispetto di requisiti particolarmente stringenti tra i quali citiamo:
- la disponibilità di serie storiche di informazioni pari ad almeno 7 anni per le perdite attese;
- la separazione della struttura preposta alla concessione dei prestiti da quella addetta all’assegnazione del rating;
- robustezza del sistema sul piano statistico;
- controllo del sistema da parte di una unità operativa indipendente.
[30] Se una banca sarà in grado di stimare internamente anche uno solo di questi tre elementi, potrà accedere comunque all’advanced approach, pur continuando ad utilizzare le regole stabilite dai supervisori per la stima delle altre componenti del rischio creditizio. Tuttavia per poter far questo, la banca dovrà concordare con gli stessi un piano di implementazione volto ad estendere l’utilizzo di stime interne anche agli altri fattori di rischio entro un tempo “ragionevolmente breve”.
Tuttavia, andando oltre la considerazione del risparmio di capitale, l’utilizzo di un sistema interno di rating per fini gestionali costituisce comunque un obiettivo da perseguire, dato che consente una gestione avanzata del rischio di credito in linea con le richieste dell’Autorità di Vigilanza e le best practices internazionali; inoltre, se da un lato il metodo IRB richiede notevoli sforzi ed investimenti soprattutto nel processo di gestione dei dati, dall’altro consente di disporre di un notevole vantaggio competitivo per la banca che voglia differenziarsi all’interno dello scenario di mercato tramite migliori condizioni sui prodotti di credito offerti. A tal proposito, si può evidenziare come un istituto di credito che utilizzi la metodologia IRB Advanced dovrebbe essere in grado di attrarre maggiormente i clienti con “buoni” rating e respingere quelli con “cattivi” rating, rispetto ad uno che utilizzi la metodologia Standard, grazie alla maggiore correlazione tra esposizione creditizia, ponderazioni di rischio e tassi d’interesse applicabili.
Nel 2001 la Banca d’Italia ha condotto una indagine [31] su un campione di 248 banche e 62 gruppi creditizi italiani, dal quale è emerso che circa i due terzi del campione intende adottare, a partire dal 2007, l’approccio dei rating interni previsto dal Nuovo Accordo (nella sua versione di base o avanzata), con particolare preferenza per quella avanzata per i primi 20 gruppi, come si vede dalla figura:
[31] P. Grippa, “Stato di avanzamento dei progetti “rating interni” nei maggiori gruppi bancari” – Atti del convegno AIFIRM – 2002.
Naturalmente questo non vuol dire che tutte le banche interpellate riceveranno dall’Autorità di Vigilanza la certificazione dei propri sistemi di rating, necessaria per poterli utilizzare ai fini del calcolo del capitale regolamentare; in ogni caso le percentuali riscontrate sono molto elevate e perciò significative di un interesse generalizzato verso la tematica dei rating interni.
Basilea 2 consente agli istituti di credito di sfruttare appieno l’enorme mole di informazioni dispo nibili sui propri clienti per elaborare delle valutazioni, che proprio perché interne alla banca e specificamente relative ad un determinato affidato e/o transazione, consentono un’effettiva differenziazione del rischio di credito, tramite una maggiore correlazione tra rischio e patrimonio di vigilanza che, bisogna ricordare, è a tutti gli effetti una voce di costo per la banca.
Ad esempio, utilizzando le informazioni sulla profittabilità dei clienti, prodotti e canali in congiunzione con le elaborazioni richieste dalle metodologie IRB, sarà possibile supportare analisi della predetta profittabilità aggiustate per il rischio (RAPM), ridefinire le politiche di pricing (Risk Adjusted Pricing) ed infine effettuare analisi RAROC.
L’Accordo non prefigura soltanto uno sforzo attuativo, richiede anche una notevole dose di creatività imprenditoriale, gestionale, organizzativa e progettuale.
2.3.2 Alcuni aspetti problematici e le criticità di Basilea 2
Si è discusso sugli innegabili vantaggi che Basilea 2 apporterà allo sviluppo dell’industria finanziaria del prossimo futuro, ma la proposta di revisione dei requisiti patrimoniali ha suscitato anche molte reazioni, spesso assai critiche. Dapprima, le preoccupazioni sono arrivate dal settore bancario (che per la verità è stato sollecitato dallo stesso Comitato di Basilea a esprimersi, nella fase di consultazione), poi dal mondo delle imprese, soprattutto quelle di minore dimensione; infine, la polemica ha investito il dibattito politico. Per capire se le critiche siano giustificate o no, occorre tenere presenti le finalità di Basilea 2, che sono essenzialmente due: 1) rendere la dotazione patrimoniale di ciascuna banca più rispondente al rischio effettivamente sostenuto nell’attività di prestito; 2) incentivare (non obbligare) le banche ad adottare metodi più moderni e oggettivi nella misurazione e gestione del rischio di credito.
Dal punto di vista degli obiettivi si può certamente valutare in modo positivo il Nuovo Accordo, ma accanto agli effetti positivi vi possono essere alcuni effetti collaterali che devono essere considerati con attenzione.
La difficoltà di raccogliere informazioni.
Il problema principale attiene alla difficoltà per le banche di raccogliere le informazioni e i dati necessari per poter realizzare le metodologie più avanzate per la misurazione del rischio. Le piccole banche, che non dispongono in genere di forme evolute di risk management, potrebbero essere soggette a requisiti patrimoniali più stringenti; questo rischio deriva dal fatto di aver introdotto un preciso requisito patrimoniale anche per il rischio operativo, imponendo un vincolo patrimoniale (pari al 20%) eccessivamente oneroso soprattutto per banche medio-piccole [32]. In particolare esse temono di essere penalizzate, per il fatto che presumibilmente adotteranno il metodo dei ratings esterni (più semplice), e quindi non potranno usufruire dello “sconto” previsto per il metodo dei ratings interni (che verrà invece utilizzato dalle grandi banche). A smentire questa preoccupazione ci sono però i risultati di una simulazione condotta dal Comitato di Basilea in collaborazione con il sistema bancario (su un campione di 188 banche dei Paesi del G-10 e di 177 banche di altri 30 Paesi, il già ricordato QIS 3).
[32] Queste ultime si troveranno nella situazione o di dover aumentare il costo del credito, rischiando di perdere quote di mercato, o di “prezzare” i propri strumenti in modo inadeguato, peggiorando in questo modo la propria situazione finanziaria e patrimoniale.
Per le banche medio-piccole che utilizzeranno i ratings esterni, l’incremento di requisito patrimoniale sarà esiguo: infatti usufruiranno maggiormente dello “sconto” previsto per la clientela retail, dato che la composizione del loro portafoglio prestiti è più sbilanciata verso i piccoli clienti. Qualora poi una banca medio-piccola utilizzasse i ratings interni, otterrebbe un significativo allentamento del requisito patrimoniale, ben maggiore di quello ottenuto dalle grandi banche.
I rating interni.
Vi è il timore che il metodo dei rating interni penalizzi il finanziamento delle PMI, inducendo le banche a ridurre il credito ad esse destinato e ad aumentare al contempo i tassi di interesse. Da un punto di vista teorico l’effetto di una più accurata valutazione del rischio da parte delle banche dovr ebbe essere quello di ridurre il costo del credito per le imprese meno rischiose e di promuovere un rapporto fondato sulla conoscenza e sulla fiducia reciproca. In pratica, però, vi è il rischio che i crediti concessi alle PMI siano, o continuino ad essere, considerati più rischiosi: la metodologia di determinazione dei rating interni, basata su procedure automatizzate (scoring), potrebbe rivelarsi poco adatta a cogliere le peculiarità delle PMI, a valutarne cioè adeguatamente il merito di credito [33]. Non si tiene inoltre conto che un portafoglio di crediti alle PMI, a parità di perdita attesa, presenta perdite inattese inferiori a quelle di un portafoglio di prestiti alle grandi imprese, in ragione della maggiore importanza relativa che l’andamento ciclico dell’economia ha nel determinare le condizioni di queste ultime.
[33] In ultima analisi tale metodo poco si presterebbe a preservare quel patrimonio informativo del banchiere locale legato alla lunga consuetudine del rapporto con la piccola impresa e consolidato nel tempo.
In particolare si è dimostrato come la maggiore rischiosità media delle PMI sia compensata dalla loro più tenue correlazione con le insolvenze complessive. Infatti le insolvenze delle PMI sono sovente guidate da fattori microeconomici peculiari (successione tra padre e figlio, dissidi tra soci, cattiva gestione) che nulla hanno a che vedere con le fasi del ciclo economico. Quindi le PMI pur essendo individualmente più rischiose delle aziende più grandi, offrono alla banca il grande vantaggio di consentire una più efficace diversificazione dei rischi perché i loro dissesti sono scarsamente correlati tra loro.
Vi è dunque effettivamente il timore che il passaggio a sistemi automatici di valutazione delle controparti possa penalizzare le imprese italiane nell’accesso al credito; a tal fine sono stati effettuati dei sondaggi verso la fine dello scorso anno per capire come le nostre PMI valutino l’introduzione dei nuovi sistemi di rating. La maggior parte delle imprese intervistate teme un peggioramento delle possibilità di accesso al credito (oltre il 60%); un buon 50% teme un peggioramento dei tassi di interesse. Circa il 70% delle imprese riconosce tuttavia che Basilea 2 può portare a metodi più trasparenti nella valutazione del merito creditizio. Questi risultati sono uniformi in ogni parte d’Italia e Confindustria sta svolgendo su questi temi una vasta opera di informazione tesa a sottolineare gli aspetti positivi del processo di riforma in corso.
Per venire incontro a queste considerazioni, il Comitato di Basilea ha formulato nuove modalità di calcolo dei requisiti per il rischio di credito nel metodo dei rating interni.
In particolare i coefficienti di ponderazione sono stati ridotti, attenuando così la correlazione tra dotazione patrimoniale e rischiosità dei prestiti. Le ponderazioni sono state ridotte in corrispondenza di pressoché tutti i livelli di rischio, ma in misura proporzionalmente maggiore per i valori di probabilità d’insolvenza più elevati. La revisione consente di contenere gli effetti prociclici della nuova regolamentazione e di ottenere, indirettamente, un trattamento più appropriato dei crediti alle piccole e medie imprese. Con la nuova curva di pesi, in particolare, il requisito patrimoniale complessivo delle piccole imprese (quelle con fatturato inferiore ai 5 milioni di euro) si riduce del 27%, mentre l’onere delle grandi imprese (quelle con volume d’affari superiore ai 50 milioni di euro) diminuisce del 12%; per le imprese di dimensione intermedia il coefficiente diminuisce invece del 19%.
Inoltre, al fine di contenere i rischi per le imprese, il Comitato ha approvato l’introduzione di appropriati elementi di valutazione del rischio per le PMI volti ad assicurare loro un trattamento più appropriato nell’ambito dei metodi IRB corporate e retail e del metodo standardizzato. L’esposizione delle banche verso le piccole e medie imprese (imprese con un fatturato inferiore ai 50 milioni di euro) sarà soggetta a requisiti di capitale inferiori, fino al 20% a seconda delle dimensioni, rispetto alle grandi imprese. Questa misura dovrebbe portare a una riduzione media del 10% circa dei requisiti relativi alle PMI; la modifica sarebbe giustificata dal fatto che un’eventuale insolvenza di una impresa di piccole dimensioni ha scarso impatto sul sistema bancario.
A ciò si aggiunge la possibilità di considerare i prestiti bancari inferiori a un milione di euro come finanziamento “retail”, che hanno coefficienti di assorbimento di capitale ridotti.
Mancata distinzione fra perdita attesa e inattesa.
Un altro importante limite delle proposte avanzate dal Comitato Basilea è legato al fatto che il requisito patrimoniale è calibrato in modo tale da fornire copertura sia per la componente di perdita attesa di un’esposizione creditizia sia quella di perdita inattesa. Da questo punto di vista emerge dunque un’importante divergenza rispetto alle logiche seguite dai modelli interni delle banche. Questi ultimi si basano infatti sulla stima disgiunta di una perdita attesa, la quale deve trovare copertura in un apposito accantonamento o in una rettifica della relativa posta attiva, e di una perdita inattesa, la quale deve invece trovare copertura in capitale economico, ossia in patrimonio [34].
[34] Questa distinzione risponde peraltro a logica: la perdita attesa, in quanto tale, non rappresenta la reale componente di rischio e deve essere tenuta esplicitamente in considerazione sia in sede di determinazione del tasso attivo sia in sede di conto economico.
Eventuali perdite superiori a quelle originariamente attese devono invece essere sostenute dal capitale azionario così come eventuali perdite inferiori rappresentano un beneficio per gli azionisti della banca. Secondo alcuni esponenti degli organi di vigilanza, il fatto di estendere la copertura patrimoniale anche alla componente di perdita attesa rappresenta una forma di compensazione per il fatto che l’aggregato patrimoniale di riferimento è più esteso dell’effettivo capitale di rischio e include forme di capitale di debito così come una parte delle stesse riserve per il rischio di credito.
È evidente che questa interpretazione approssimativa, oltre a considerare un secondo errore come soluzione di un precedente errore, mal si concilia con il grado di sofisticazione e di precisione con il quale vengono determinate le ponderazioni per il rischio nell’approccio dei rating interni.
Dipendenza dai rating esterni nell’approccio standard.
Un recente articolo dell’Economist ha fortemente criticato l’utilizzo dei giudizi formulati da istituzioni private, quali le agenzie di rating, operanti in un mercato di natura oligopolistica, a fini di regolamentazione. La critica riguarda non solo l’impiego a fini di requisiti patrimoniali ma anche quello relativo alle politiche di impiego di fondi di investimento e altri investitori istituzionali. La logica sottostante tale posizione si fonda sia sulla presenza di conflitti di interesse (le agenzie di rating offrono anche advisory services ai clienti cui offrono il servizio di rating), sia sulla natura quasi monopolistica del relativo mercato, sia infine sulla “legge di Goodhart”, secondo la quale nel momento in cui una variabile viene adottata quale obiettivo di politica monetaria comincia a comportarsi diversamente.
Pro-ciclicità finanziaria.
Questo problema, già presente nell’originario Accordo del 1988, rappresenta una fonte di preoccupazione ai fini della stabilità finanziaria e macroeconomica, perché con Basilea 2 il requisito patrimoniale a cui una banca è soggetta diventerà più “volatile”, cioè potrà variare sensibilmente a seconda delle fasi del ciclo economico. In sostanza, quando il capitale o le riserve accumulati durante i periodi di espansione non sono sufficienti a coprire i rischi associati alle fasi di rallentamento congiunturale, le banche sono costrette a ridurre gli impieghi per assolvere ai requisiti patrimoniali.
La regolamentazione patrimoniale può influire sulla prociclicità finanziaria in due modi: ad esempio nei periodi di rallentamento economico, in cui cresce la rischiosità dell’attivo, le banche possono essere indotte ad aumentare il costo del credito o ad accantonare maggiore capitale. Per una banca il cui grado di copertura sia al limite dell’8%, questo deve necessariamente avvenire a scapito di nuovi prestiti o del rinnovo di prestiti già esistenti. Ma abbiamo visto però che, generalmente, le banche tendono a detenere capitale in eccesso rispetto al requisito minimo (il cosiddetto buffer capital), proprio per evitare di trovarsi in una situazione vincolata; proprio per questo sembra poco plausibile che si verificheranno effetti di “credit crunch”, cioè di restrizione dell’offerta di credito.
Per ridurre l’impatto prociclico il Comitato propone che le banche quantifichino le loro stime della probabilità di insolvenza in modo adeguatamente prudente e previdente, o sottopongano la propria adeguatezza patrimoniale a prove di stress. Un’altra soluzione del Comitato si basa sul processo di controllo prudenziale per quanto riguarda le prassi di accantonamento. Il fatto di valutare le perdite attese tenendo nella giusta considerazione l’evoluzione del profilo di rischio dei crediti nell’intero ciclo economico, e di accantonare riserve per coprire le perdite attese, consentirebbe alle banche di creare dei margini per assorbire le variazioni cicliche e il deterioramento patrimoniale [35].
[35] Il problema è molto sentito nel nostro Paese, dal momento che le imprese piccole e medie fanno affidamento, in misura ben maggiore rispetto alle imprese di altri paesi europei, sui prestiti bancari, soprattutto a breve termine (che per le nostre imprese rappresentano quasi l’80% del totale dei prestiti bancari contro il 20% degli altri principali paesi dell’area dell’euro).
Basilea 2, in particolare, può contribuire a limitare la pratica del multiaffidamento, che è una peculiarità tutta italiana del rapporto tra datore e prenditore di fondi, che vede le banche assumere un approccio “assicurativo” nella concessione del credito e le imprese contenere il flusso informativo verso chi le finanzia. Il nuovo schema di adeguatezza patrimoniale proposto dal Comitato di Basilea potrebbe spingere, realisticamente, se non verso il monoaffidamento, verso rapporti più duraturi tra banche e imprese [36].
In definitiva, si riscontra una scarsa conoscenza da parte delle imprese dei criteri di Basilea 2, e questa è una delle cause che alimentano i timori; evidentemente esse non vedono di buon occhio la standardizzazione dei processi. A tutto questo si deve però aggiungere un’altra preoccupazione: che possa verificarsi un fenomeno di selezione avversa, con una concentrazione di debitori rischiosi presso quelle banche che adotteranno il metodo dei ratings esterni [37].
[36] Questo potrebbe favorire il miglioramento della struttura finanziaria dell’impresa e aprire nuovi scenari nel rapporto dell’imprese con i mercati finanziari, di borsa in primo luogo.
[37] Cfr. Carosio G., “La proposta di modifica dell’Accordo sul capitale”, in Banca d’Italia, Tematiche istituzionali, aprile 2000.
Infatti, un’impresa a basso rischio sarà incentivata a indebitarsi presso una banca che adotti i ratings interni, sperando di ottenere una buona valutazione e di ricevere credito a minor costo. Al contrario, un soggetto ad alto rischio potrebbe essere indotto a indebitarsi presso una banca che utilizza i ratings esterni: nel peggiore dei casi, gli verrebbe assegnato un risk weight comunque inferiore a quello che riceverebbe da una banca che, basandosi sui suoi ratings interni , formulasse un giudizio negativo.
Ad ogni modo, la preoccupazione più fondata e condivisibile sembra proprio essere quella della prociclicità di Basilea 2. Da questo punto vista, è infatti indubbiamente vero che un sistema di requisiti patrimoniali bas ati sui rating interni tenda ad essere prociclico. E’ anche vero che qualunque sistema di adeguatezza patrimoniale, sia esso o meno fondato sui rating delle banche, è per sua natura prociclico.
Numerose evidenze empiriche internazionali suggeriscono inoltre che, a livello macroeconomico, le condizioni di accesso al credito riflettono l’andamento del ciclo economico. In particolare, nelle fasi espansive del ciclo le banche aumentano considerevolmente l’esposizione verso i prenditori più rischiosi, sebbene lo spread a questi applicato non remuneri adeguatamente il maggior rischio assunto; al contrario, nelle fasi di contrazione economica decresce la quota relativa di finanziamenti bancari erogati alle imprese di minori dimensioni o alle imprese più rischiose. Il problema della prociclicità è particolarmente sentito dagli organi di vigilanza, i quali stanno lavorando nel tentativo di introdurre meccanismi capaci di alleviarlo (come il già citato statistical dynamic provisioning). Così, per esempio, la variazione apportata nell’ultima versione di Basilea 2, che ha sensibilmente ridotto l’inclinazione della curva delle ponderazioni per il rischio per probabilità di insolvenza, di fatto riducendo la ponderazione per il rischio, e dunque il requisito patrimoniale corrispondente a ogni classe di rating, va in questa direzione.
Eventuali peggioramenti del rating connessi a deterioramenti del ciclo economico si traducono, infatti, nel caso di una curva meno inclinata, in minori aggravi di capitale per le banche.
Trovare regole internazionali comuni, in presenza di industrie bancarie nazionali ancora diverse e di intermediari sempre più mobili, sembra essere la vera sfida che il Comitato di Basilea sta tentando di vincere con il Nuovo accordo, attraverso un percorso a tappe, che non è certo terminato. Di sicuro, c’è la consapevolezza che tale “quadratura del cerchio” potrà essere coronata da successo solo se i due grandi protagonisti, da un lato le autorità di controllo, dall’altro gli intermediari, riusciranno a trovare il modo di remare nella stessa direzione, al di la delle possibili conseguenze negative di Basilea 2, che a ben vedere sembrano essere davvero poche.
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