Valutazione delle imprese e merito creditizio
Una tesi di laurea sulla valutazione delle imprese e merito creditizio alla luce del nuovo accordo di Basilea

da | 17 Ott 2006 | Banca e bancari | 0 commenti

Rating

Capitolo 3
Il Rating e le banche

3.1 Il rating come fattore di efficienza del mercato finanziario: alcune considerazioni preliminari

La valutazione del merito creditizio costituisce da sempre un punto centrale della gestione bancaria; attraverso il continuo processo di selezione delle aziende da affidare e di assunzione dei rischi si forma il portafoglio crediti di una banca, il quale influisce fortemente sulla sua capacità di creare valore, in termini di economicità, di equilibrio dei flussi finanziari e di di mensione e qualità del patrimonio.

Tale valutazione è sinonimo di rating, termine spesso suscettibile di diverse definizioni, che per lo più fanno riferimento all’apprezzamento espresso da una entità esterna ed indipendente (agenzia) sulla capacità di un emittente (Stato sovrano, impresa, banca o collettività locale) di fare fronte al pagamento del capitale e degli interessi relativi alla emissione di titoli di credito durante tutta la vita del prestito.

Ma con specifico riguardo al mondo bancario, con il termine rating s’intende generalmente la valutazione del merito creditizio, ovvero della solvibilità di una controparte, basata su un giudizio globale derivante da una serie di informazioni, qualitative o quantitative, omogenee e confrontabili, utili per quantificare il suo grado di rischio. In sostanza, esso si basa su una classificazione di un prenditore di fondi, o di una specifica operazione, in una tra tante classi di rischio predefinite, in modo contiguo ed ordinale (di norma indicate da lettere e/o numeri) e a cui sono vengono associati tassi attesi di insolvenza o di perdite diversi. Questo vuol dire, in definitiva, che i rating sono indicatori di misura “discreti” della probabilità di default, rappresentata empiricamente attraverso la frequenza del fenomeno osservata in ciascuna classe di rischio. In sostanza, il rating indica in modo deciso, completo ed univoco il grado di rischio attribuibile all’impresa (rating di controparte), anche in ottica di gruppo, e alle singole facilitazioni richieste (rating di facilitazione) espresso in termini di probabilità di default ad un anno.

 

Oggi il rating non viene più percepito, come finora è stato, un elemento di valutazione “accessorio” in funzione di preselezione della clientela, ma come parte integrante di un sistema di CRM, che comporta il superamento dell’attuale impostazione. Quest’ultima, in particolare, portava alla conseguenza che se la controparte era considerata affidabile, l’insolvenza non era neppure presa in considerazione tra il novero dei possibili eventi e che tutte le imprese affidabili erano tutte ritenute uguali fra loro e considerate “non fallibili” nel periodo di tempo che intercorreva fino alla scadenza dell’affidamento.

L’informazione sul merito creditizio può essere disponibile a tutti i soggetti interessati, come avviene per i rating emessi dalle agenzie specializzate, oppure riservata, quando uno stakeholder (azionista, cliente, finanziatore, ecc.) esprime un giudizio qualitativo, sintetico e riservato sul grado di rischiosità di una propria posizione di investimento in relazione al portafoglio complessivo. Il giudizio di merito creditizio disponibile è quello emesso tipicamente dalle agenzie di rating [49]; il rating, in questo caso, è uno strumento sintetico informativo e rappresenta un efficiente mezzo segnaletico che comunica al mercato i risultati da un’accurata indagine condotta da un qualificato staff di analisti finanziari autorevoli ed indipendenti.

[49] Quando il rating è disponibile al pubblico deve essere rilasciato utilizzando metodologie di analisi e scale di giudizio conosciute e trasparenti, in modo che i destinatari del giudizio stesso ne acquisiscano immediatamente la portata e lo collochino all’interno di un intervallo noto ed inequivocabile.

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In generale esistono tre metodi per la stima dei rating: il metodo contabile, i metodi statistici e il metodo basato sulla teoria delle opzioni.

Il metodo contabile.
E’ il più utilizzato dalle agenzie internazionali di rating, e si basa sull’analisi dei ratios finanziari, calibrati in base all’esperienza e ai giudizi degli analisti di settore; si tratta in particolare di un approccio seguito dalle aziende che definiscono sistemi di rating interni, attraverso un mix di giudizi quali-quantitativi (quelli quantitativi sono resi pubblici da alcuni anni dalle stesse agenzie) che richiedono la definizione delle probabilità di insolvenza.

I metodi statistici.
I metodi di derivazione statistica (come ad esempio la regressione logistica, le reti neurali, lo Z-score di Altman, ecc.) attuano invece una aggregazione per analogia delle aziende in default rispetto a quelle non in default, pur con le rispettive differenze.

Il metodo basato sulla teoria delle opzioni.
Tale approccio si richiama alla teoria di Black, Sholes e Merton, e si basa sulla semplice idea che un’azienda sperimenta un evento di default quando il valore di mercato delle sue attività è inferiore al valore di mercato delle passività. E’ questo l’approccio che appartiene al filone dei cosiddetti risk of ruin models, che è stato implementato e sviluppato operativamente soprattutto dalla società di consulenza KMV.

Negli ultimi venti anni le procedure di affidamento delle aziende di credito italiane si sono evolute notevolmente, in termini di: strutturazione della pratica di fido, puntualità nella revisione delle posizioni, utilizzo delle tecniche di analisi di bilancio, flussi informativi sull’andamento delle relazioni affidate.

Restano comunque aperti rilevanti problemi, legati alla diffusa prassi degli affidamenti multipli, alle compatibilità organizzative nei processi di concentrazione del settore, all’affievolimento del legame territoriale che storicamente ha costituito un canale privilegiato di informazione, all’eccessivo peso delle garanzie nella valutazione.

In questa prospettiva si colloca lo sforzo di adeguamento alle prescrizioni di Basilea 2 per l’assegnazione di un rating interno all’impresa da affidare, espressione di sintesi della sua rischiosità attraverso l’attribuzione ad una classe di merito; le molte banche che hanno deciso di percorrere questa strada stanno sottoponendo a profonda revisione il loro modo di operare e stanno predisponendo procedure integrate, con le quali aggregare informazioni di provenienza e contenuto eterogenei. Le singole metodologie di analisi del rischio individuale presentano, a loro volta, confini molto sfumati: si pensi ad esempio alla prassi, diffusa negli anni recenti soprattutto in Italia, di considerare come sinonimi i rating e i processi di scoring, ovvero sistemi automatici fondati su dati quantitativi/oggettivi che, se utilizzati in maniera troppo rigida, possono diventare eccessivamente semplicistici e quindi inefficaci.

Lo scoring, che è solo una parte del processo che porta al rating, offre un giudizio sullo stato di salute “buono” o “cattivo” del cliente secondo un procedimento esclusivamente statistico, e si applica generalmente per la clientela di ridotte dimensioni; in questo senso esso può essere utilizzato come strumento di assunzione automatica delle decisioni.

L’applicazione di un’analisi di tipo automatico dovrebbe permettere di giungere all’attribuzione di uno score (o punteggio) tale da esprimere lo stato futuro del credito da concedere e da erogare al cliente. La maggiore difficoltà starebbe proprio nell’assegnare delle giuste ponderazioni alle esposizioni dei singoli clienti al fine di determinare l’ammontare di credito da concedere, nonché nel giungere ad una definizione delle informazioni che caratterizzano il comportamento del potenziale soggetto da affidare, ovvero le condizioni che esprimono al meglio le determinanti dei possibili problemi di insolvenza.

Ad ogni modo, qualunque sia la metodologia impiegata, l’obiettivo resta pur sempre quello di esprimere una misura del rischio di credito che sia confrontabile e collegata ad un valore atteso di default o di perdita.

Si è già detto che parte del grado di efficienza del mercato finanziario è legato alla sua capacità di informare in modo adeguato gli operatori, che in questo modo possono valutare i rischi ed assumere decisioni razionali e corrette; si può affermare senza ombra di dubbio, che il rating rappresenta lo strumento più semplice, fra quelli utilizzabili, per ridurre gli effetti negativi derivanti dalla presenza di asimmetrie informative nel processo di allocazione delle risorse finanziarie. Il rater, infatti, gestisce un processo produttivo fondato sull’acquisizione, selezione ed elaborazione delle informazioni al fine di colmare i divari esistenti in mercati tendenzialmente imperfetti.

La presenza di rater, inoltre, contribuisce ad abbassare la probabilità che si verifichino fenomeni di selezione avversa: infatti, proprio grazie alla valutazione fornita da tali operatori e alla successiva diffusione sul mercato dei risultati delle loro elaborazioni, le imprese migliori (più affidabili e con bassa rischiosità) avranno la possibilità di segnalare le caratteristiche più utili per consentire agli operatori interessati (che saranno messi al corrente di tutto ciò che riguarda la vita aziendale) di valutarle correttamente, ottenendo così finanziamenti a condizioni migliori. In sostanza, il rating può essere considerato come fattore di trasparenza, efficienza e liquidità del mercato, oltre che come meccanismo di diffusione del valore delle imprese, per cui la sua importanza è fondamentale in un sistema come quello italiano, ancora caratterizzato da una certa opacità circa la capacità di promozione delle imprese stesse.

3.2 Caratteristiche e finalità del rating esterno

Il servizio rating è nato e si è sviluppato, soprattutto sul mercato statunitense [50], grazie all’attività di agenzie specializzate dotate di una elevata capacità contrattuale, con particolare riferimento all’acquisizione e trattamento di informazioni, riferite in genere a imprese con elevati volumi di indebitamento.

[50] In questo, come in altri Paesi in cui il mercato dei capitali rappresenta un ampio canale di finanziamento delle imprese, il rating costituisce un importante strumento per gli investitori.

Negli ultimi anni, il progressivo sviluppo del mercato dei capitali dell’area dell’euro e il crescente affermarsi di tecniche sofisticate di misurazione e gestione del rischio di credito, hanno contribuito ad aumentare la popolarità di tali strumenti anche in mercati diversi da quello statunitense; e certamente, il loro ruolo sarà destinato ad accrescersi ulteriormente in seguito alla revisione in corso della regolamentazione bancaria in sede internazionale. L’affermazione e la diffusione dei coefficienti di rating si spiegano con l’insostituibile funzione di conciso ed efficace mezzo segnaletico per comunicare al mercato le risultanze di un’analisi condotta da soggetti autorevoli ed indipendenti sui prenditori di fondi, in via consuntiva ed in ottica prospettica.

Un fattore fondamentale per la diffusione dei coefficienti di affidabilità è sicuramente la grande semplicità di interpretazione anche da parte di persone estranee al mondo dell’economia.

Società come Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch, giocano oggi un ruolo chiave nel pricing del rischio di credito e nel delineare le strategie di investimento. In particolare Moody’s sostiene che “i rating sono intesi per servire come indicatori o previsioni del potenziale di perdite dovute ai mancati, ritardati o parziali pagamenti”. S&P sostiene invece che i rating sono “un’opinione sul generale merito creditizio di un obbligato o di un obbligato rispetto ad una particolare obbligazione, basata su rilevanti fattori di rischio”.

La metodologia di analisi che le società specializzate seguono nell’attribuzione dei giudizi, viene presentata come una combinazione di valutazioni quantitative e qualitative; esse operano in particolare seguendo le seguenti fasi:

  1. incontro preliminare con l’impresa emittente;
  2. presentazione a un rating committee, da parte dell’analytical team, dell’istruttoria sviluppata, con eventuali supplementi di istruttoria;
  3. valutazione del merito creditizio discusso con l’impresa;
  4. assegnazione e pubblicazione del rating;
  5. monitoraggio.

Occorre precisare che le valutazioni delle società di rating non rappresentano certo delle attività una tantum, anzi la pratica dei mercati impone che esse provvedano a monitorare permanentemente il rating stesso, al fine di comunicare tempestivamente l’eventuale miglioramento (upgrade) o peggioramento (downgrade) del merito creditizio. Data la valenza economico-finanziaria di un’eventuale revisione della valutazione, le società di rating, di regola avvertono il mercato di aver posto sotto osservazione un determinato rating (credit watch) specificando, per quanto possibile, la direzione (positiva, negativa o indeterminata) che il cambiamento di valutazione potrà probabilmente registrare. Il “prodotto” rating, come si è detto, non è il risultato di sole analisi finanziarie, ma si articola lungo due principali profili di valutazione [51]:

  • Business risk
  • Financial risk

[51] E’ questa in particolare la metodologia seguita da Standard & Poor’s, la più importante tra le agenzie di rating al mondo.

L’analisi del business risk si incentra:

  1. sulla struttura organizzativa dell’impresa, con una descrizione delle operazioni delle varie divisioni aziendali;
  2. sulla sintesi delle strategie che intende attuare, con la percezione di rischi e opportunità;
  3. sull’esperienza del management;
  4. sui punti di forza e di debolezza del suo posizionamento sul mercato.

Il giudizio sul financial risk, invece, si basa principalmente su:

  1. informazioni finanziarie relative agli ultimi 4/5 anni;
  2. previsioni per gli anni successivi mediante la predisposizione di business plan;
  3. lista delle linee di credito con banche, e loro utilizzo.

Da un lato, le stesse agenzie sottolineano la centralità che i dati di bilancio rivestono nella valutazione dell’affidabilità complessiva delle controparti; dall’altro, gli studi condotti sull’argomento hanno dimostrato l’esistenza di relazioni significative tra rating e variabili quantitative.

Come rilevato da Treacy e Carey (1998) [52] nel loro studio circa l’utilizzo dei sistemi di credit risk rating nelle maggiori banche statunitensi, sebbene le agenzie dichiarino di assegnare i rating secondo la metodologia “Through the cycle” (da ora in poi per brevità TTC), vale a dire indipendenti dalla fase pro-tempore in essere del ciclo economico, quasi tutte le banche invece basano le loro valutazioni sulla metodologia “Point in time” (PIT), che tiene conto invece delle condizioni correnti di solvibilità del debitore.

[52] Cfr. Treacy W.F., Carey M. S., “Credit Risk Rating at large U.S. banks” – 1998

In particolare, il metodo TTC si riferisce a valutazioni delle controparti di tipo strutturale, collegate cioè al medio-lungo periodo, nella fase peggiore (bottom of the cycle scenario) del normale sviluppo di un ciclo congiunturale completo, che includa ovviamente fasi favorevoli e sfavorevoli, permettendo dunque di classificare i clienti in funzione del rischio relativo a quel punto.

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In questo caso le agenzie non modificano il rating fino a che non si renda necessaria una revisione forzata dello scenario, anche se cambia, nel corso delle fasi, il tasso di default associato con i singoli rating. Come è evidente, il rating non segue le performance di breve periodo, ma pospone la valutazione del debitore ad un orizzonte temporale protratto comprendente più fasi del ciclo economico settoriale e nazionale: ovvero, esso cambierà principalmente per quelle imprese che sperimentano buoni o cattivi shocks che influiscono sulle condizioni di lungo-termine e per quelle il cui scenario peggiore originale era troppo ottimistico [53].

Questo porta ovviamente ad una connessione instabile con il livello dei tassi di default o di perdita, che muta nelle diverse fasi del ciclo. D’altro canto, le procedure per stimare le PD non sono poi così chiare: sebbene, infatti, l’orizzonte temporale usato sia un anno, le banche devono far riferimento a un periodo di tempo più lungo per assegnare i rating (minimo tre anni). Si potrebbe quindi far riferimento ai tassi medi storici di default per stimare la PD: da un punto di vista statistico, un tasso medio storico di default è significativo solo se la sottostante PD di un giudizio di rating è costante nel tempo e le fluttuazioni sono puramente casuali [54]. Ma allora questo vale ad ammettere che i rating sono PIT, e le variazioni della qualità creditizia sono immediatamente riflesse negli aumenti e diminuzioni del tasso di default.

Di regola, il rating è espressione della situazione corrente del debitore al momento dell’analisi [55], scelta che deriva dalla necessità di armonizzare l’assegnazione del giudizio di merito creditizio con la cadenza temporale del rinnovo interno dell’affidamento.

[53] Si tratta quindi di un approccio dinamico, col quale si utilizza un orizzonte temporale che può arrivare a coincidere con la durata effettiva del prestito, elemento estremamente importante per quegli istituti che impiegano prevalentemente nel medio-lungo termine, soprattutto se si tiene conto del fatto che negli ultimi anni la durata media degli impieghi bancari è cresciuta costantemente.
[54] Cfr. A. Hamerle, D. Rosch – “Response on The new Basel capital Accord” – University of Regensburg, Germany.
[55] Almeno sulla base di ricerche effettuate nel sistema bancario italiano, tra le quali quelle del gruppo di lavoro ABI.

Nel processo di rating PIT, si ritiene che il rating possa riflettere le condizioni correnti e future di solvibilità di una controparte; le categorie di rating di un prenditore, in sostanza, evolvono seguendo il ciclo economico, per cui anche la volatilità dei rating sarà maggiore in questo metodo che in quello TTC, mentre sarà più stabile il legame tra ciascun rating e il suo tasso di insolvenza caratteristico.

Analisi empiriche hanno dimostrato che le migrazioni tra le varie classi di rating basati sul metodo PIT, sono maggiori rispetto a quelle dei rating esterni prodotti dalle agenzie. E’ importante precisare a questo proposito che PIT non significa solo condizioni attuali, ma piuttosto alle condizioni attualmente previste per il periodo relativo al finanziamento; in altri termini, se vi sono aspettative immediate di crescita economica e di espansione del settore produttivo in cui la controparte opera, queste saranno logicamente riflesse nella valutazione del merito di credito della stessa.

Teoricamente la metodologia PIT è privilegiata per le attribuzioni di rating interni da parte delle banche, le quali, per ogni controparte, tengono conto dell’ultimo anno fiscale e delle prospettive di breve periodo. Le diversità nelle modalità di attribuzione del rating e nella qualità dei portafogli creditizi, conduce inevitabilmente anche a significative differenze di output in termini di tassi di insolvenza e di migrazione. Se infatti la valutazione è TTC, le variazioni del ciclo economico non incidono sul merito creditizio dei soggetti valutati, e quindi le migrazioni verso altre classi di rating sono più limitate rispetto alla metodologia PIT.

Analogamente, se l’evoluzione prevista del ciclo non è una variabile oggetto di considerazione per l’attribuzione del rating (come avviene proprio col TTC), i tassi di insolvenza sono più instabili, in quanto variazioni del ciclo stesso si scaricano in diverse frequenze di insolvenza. Al contrario, se le aspettative di crescita o di recessione sono già riflesse nel rating, il concreto verificarsi di tali evoluzioni del ciclo non modificherà in modo significativo i tassi di insolvenza.

Se ci si sofferma sul fatto che negli ultimi anni la durata media degli impieghi bancari è cresciuta costantemente, viene facilmente da domandarsi come mai la stragrande maggioranza delle banche commerciali non abbia da subito seguito un approccio basato sul TTC per i propri rating interni [56]. La risposta può derivare da queste considerazioni: l’approccio TTC è di regola più oneroso da implementare rispetto al PIT, sia in termini di tempo che di costo, e questo non solo per il maggior numero di elementi e di informazioni da considerare, ma anche per l’imprevedibilità di determinati eventi (fusioni ed acquisizioni, crisi societarie ecc.).

[56] Del resto, è lo stesso Comitato di Basilea, nel suo “Documento a fini di consultazione” dell’aprile 2003 ai paragrafi 376 e 377, ad affermare che: “Sebbene l’orizzonte temporale impiegato nella stima della PD sia di un anno, nell’assegnare i rating le banche devono adottare un orizzonte più esteso. Il grado di merito assegnato al debitore deve rappresentare la valutazione da parte della banca della sua capacità e volontà di onorare le obbligazioni contrattuali nonostante l’insorgere di condizioni economiche avverse o di eventi inattesi”. E che: “Una banca può soddisfare tale requisito basando l’assegnazione dei gradi su appropriati scenari di stress o, in alternativa, tenendo debitamente conto delle caratteristiche del debitore che rispecchiano la sua vulnerabilità a condizioni economiche avverse o a eventi inattesi, senza specificare esplicitamente uno scenario di stress. Le potenziali condizioni economiche considerate nell’effettuare la valutazione devono essere compatibili con la situazione corrente e con la sua presumibile evoluzione nell’arco di un ciclo congiunturale nella rispettiva branca produttiva e/o area geografica.”

Crouhy, Galai and Mark [57] sostengono che i rating TTC sono input più appropriati nelle decisioni di prestito, mentre quelli PIT per gli obiettivi di allocazione del capitale.

[57] Cfr. Crouhy M., Galai D., Mark R., “A Comparative Analysis of Current Credit Risk Models.” Journal of Banking and Finance, gennaio 2000, pp. 57-117.

In sintesi, l’adozione di un processo di attribuzione dei rating del tipo PIT dovrebbe condurre da un lato a una più frequente modifica del rating delle controparti affidate, dall’altro a una maggiore stabilità dei tassi di insolvenza, entrambi aspetti giudicabili positivamente.

Tabella 7: Gli output delle metodologie TTC e PIT
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Da tutto questo si deduce che i rating delle agenzie sono misure relative della probabilità di insolvenza e di perdita, e non indicatori dei livelli assoluti di questi fenomeni, ovvero sono misure ordinali e non cardinali di rischio.

Naturalmente non esiste un solo tipo di rating, in quanto le agenzie possono produrne diversi in relazione ad orizzonti temporali od “oggetti” di valutazione diversi: con riferimento a questi ultimi, ad esempio S&P produce “rating di controparte” (counterpart rating o, nel linguaggio dei corporate bond, issuer rating), “rating delle operazioni” (loan rating o issue rating), “rating di prestiti sindacati” (bank loan rating) e così via. Per quanto riguarda invece gli orizzonti temporali, si distingue tra “rating a breve” e “a medio-lungo termine”: i primi sono emessi tipicamente con riferimento a strumenti finanziari o prestiti con scadenza inferiore all’anno, per i quali le classi di rating risultano poco frazionate; invece la numerosità delle classi di rating a lungo termine è andata progressivamente aumentando in ragione dell’esigenza di una maggiore granularità delle valutazioni.

Questo vuol dire che ci sono classi principali (full categories) che contengono a loro volta delle sottoclassi (notches). La tabella seguente riporta le classificazioni più famose, quelle di Standard & Poor’s e Moody’s, riferite ai debiti a lungo termine.

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A gradini più bassi nella scala corrisponde una maggiore probabilità di insolvenza del debitore; i rating, inoltre, vengono raggruppati in due ampie classi: investment grade e sub-investment grade o speculative grade.

La scala internazionale che esprime il giudizio sintetico di rating è formata dalla combinazione di più lettere in cui la lettera A è utilizzata per esprimere il giudizio più elevato e la lettera C il giudizio più basso, prima del default. In particolare la lettera A ripetuta tre volte esprime il massimo giudizio astrattamente attribuibile ad un operatore economico ed è quindi espressione della massima qualità creditizia, mentre la lettera C ripetuta tre volte esprime l’esistenza di una considerevole incertezza rispetto al pagamento puntuale dei debiti.

In concreto, però, la scala di rating non viene utilizzata nella sua completezza in quanto ad ogni operatore non può essere assegnato un rating superiore a quello attribuito allo Stato di appartenenza. Così, agli operatori italiani non può essere assegnato un rating superiore ad AA, rating assegnato alla Repubblica italiana.

Godere di un giudizio positivo e quindi presentarsi sul mercato come un’azienda affidabile e capace di rispettare appieno le scadenze legate al piano di debito, significa poter ottenere dei benefici in termini di costo dell’operazione oltre che di immagine.

La richiesta di un giudizio di rating consente in particolare di contenere il costo di un’operazione di indebitamento: alcuni studi hanno dimostrato che ad ogni grado in più nella scala delle valutazioni, corrisponde un abbattimento del costo di circa 10 punti percentuali; inoltre, il costo della richiesta di rating risulta facilmente assorbibile con una ulteriore riduzione del rendimento offerto.

Alcune agenzie pubblicano statistiche sull’andamento delle società che appartengono al loro “universo di rating”: in questo modo si hanno a disposizione probabilità storiche che un emittente in una data classe di rating fallisca dopo n anni, statistiche del tasso di recupero per varie classi di rating, nonché matrici di transizione tra classi di rating. Ciò consente di disporre di ipotesi di evoluzione della qualità creditizia della controparte anche su orizzonti temporali più ampi ed articolati.

La matrice di transizione (o di migrazione) costituisce una descrizione delle probabilità che un certo cliente/credito “migri” verso classi di rating migliori o peggiori (upgrading e downgrading rispettivamente), oppure rimanga invariato, in un determinato arco di tempo; in particolare, il deterioramento del merito creditizio costituisce un ulteriore profilo del rischio di credito.

Una volta definito il rating è necessario che siano stimate quali sono le probabilità che, in un intervallo di tempo definito, il cliente “migri” da una classe all’altra o che diventi insolvente. La figura seguente fornisce una esemplificazione completa di una matrice di transizione “tipo”.

Tabella 8: esempio di matrice di transizione ad un anno
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Fonte: Credimetrics, Technical documents

Una valutazione che può essere effettuata, ad esempio, è quella sul rapporto tra il numero di variazioni del rating di ogni posizione rispetto al numero delle revisioni di fido effettuate (per appurare cioè la frequenza di variazione dei giudizi).

Una caratteristica di tutte le matrici è che le probabilità di insolvenza più elevate sono collocate sulla diagonale, a riflettere il fatto che il rating più probabile per un prenditore alla fine dell’anno è quello che caratterizzava il prenditore stesso all’inizio del periodo considerato. Per esempio, nella tabella ivi esposta, la probabilità che un rating di tipo AAA all’inizio dell’anno rimanga tale alla fine del periodo considerato, è pari al 90,81%. Per contro, gli elementi che sono fuori dalla diagonale riflettono le transizioni verso migliori (il triangolo sotto la diagonale) o peggiori (quello sopra la diagonale) categorie di rating nell’arco del periodo preso in considerazione.

Inoltre, nel caso di transizione in altre classi di rating, dovrebbero essere molto più numerosi i passaggi a classi contigue rispetto a quelli che presuppongono salti di classi via via più elevate. In generale, maggiore è la distanza dalla diagonale, minore è la probabilità di migrazione, ovvero c’è una minore probabilità relativa che un credito muova per più di una categoria di rating nell’arco dell’anno.

Numerosi sono gli studi che vertono sul problema della “transition matrices stability”: la robustezza delle matrici di transizione è sinonimo di robustezza dei sottostanti processi di rating, anche perché la connessione di questi con i tassi di default è vista come un caso particolare delle probabilità di migrazione, quella della transizione alla classe di default.

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