Nella speranza di fare cosa gradita agli studenti di Economia – ma anche a tutti gli appassionati che ci leggono (e sono tanti) –, abbiamo pensato di creare una tabella con le date, le fasi principali e gli sviluppi più interessanti dell’Economia Politica.
Partendo dal primo economista, Adam Smith (1776), per arrivare ai giorni nostri, il campo dell’economia politica ha visto emergere diverse scuole di pensiero e modelli, che hanno cercato di spiegare e indirizzare il funzionamento delle economie e l’interazione tra economia e politica, influenzando notevolmente lo sviluppo dei paesi e delle società.
Ecco la nostra tabella. Buona lettura!
Data/Periodo |
Avvenimenti principali |
Evoluzione dell’Economia Politica |
1776 |
Adam Smith pubblica “La ricchezza delle nazioni”: nasce ufficialmente, per convenzione, l’Economia Politica |
Immaginate un mercato affollato, pieno di venditori e compratori che scambiano merci. Sembra il caos, giusto? Eppure, Adam Smith, un filosofo scozzese del XVIII secolo, sosteneva che in questo caos apparente c’è un ordine nascosto, una sorta di “mano invisibile” che guida l’economia verso l’equilibrio. Smith, nel suo celebre libro “La ricchezza delle nazioni”, spiegava che quando ognuno persegue il proprio interesse, cercando di massimizzare il proprio profitto, indirettamente contribuisce al benessere generale. La concorrenza tra le imprese, secondo Smith, porta a prezzi più bassi e prodotti migliori. Questa idea ha gettato le basi dell’economia di mercato, che ancora oggi è il sistema economico dominante in gran parte del mondo. Adam Smith, con la pubblicazione del suo libro fondò l’economia politica classica. Smith propose che il mercato, attraverso il meccanismo della “mano invisibile”, potesse guidare l’economia verso l’efficienza senza l’intervento diretto del governo. Secondo Smith, gli individui che perseguono il proprio interesse personale contribuiranno, senza saperlo, al benessere generale della società. Questa visione ottimistica dei mercati autoregolatori divenne il fondamento del liberalismo economico, che sosteneva il libero scambio, la concorrenza, e un governo limitato che si occupasse solo di garantire la giustizia, la difesa nazionale e la presenza di alcune infrastrutture pubbliche. |
1776-1935 |
L’economia classica si evolve ma incontra anche dei limiti |
Dopo Smith, altri economisti come David Ricardo e Thomas Malthus hanno approfondito lo studio dell’economia. Questi economisti costituiscono la c.d. “Scuola Classica” dell’Economia. Ricardo, concentrandosi sui vantaggi del libero scambio, elaborò la teoria dei vantaggi comparati, argomentando che le nazioni beneficiano dal commercio internazionale specializzandosi nella produzione di beni per i quali hanno un costo opportunità relativamente basso. Malthus, invece, fu noto per la sua teoria della popolazione, la quale sosteneva che la crescita demografica avrebbe superato la capacità di produzione alimentare, portando a periodi ciclici di carestie e sofferenze. Alla fine del XIX secolo, l’economia politica subì una trasformazione con l’avvento della rivoluzione marginalista, che spostò l’attenzione dall’analisi del valore basata sul lavoro ad una basata sull’utilità marginale. Economisti come William Stanley Jevons, Carl Menger, e Léon Walras svilupparono una teoria dell’equilibrio dei mercati basata sull’interazione tra domanda e offerta. La scuola neo-classica emerse, enfatizzando il comportamento degli individui come agenti razionali che massimizzano la loro utilità e dei produttori che massimizzano il profitto. Questa nuova scuola fornì le basi per la moderna microeconomia e contribuì a formalizzare l’economia con l’uso di modelli matematici. Marx, infine, criticò il capitalismo, sostenendo che portava a disuguaglianze sociali sempre più profonde.In particolare, il pensiero marxista ebbe un’influenza significativa, non solo tra intellettuali e attivisti, ma anche come base teorica per movimenti rivoluzionari e per lo sviluppo degli stati comunisti nel XX secolo. In risposta al pensiero marxista, gli economisti liberali difesero l’importanza del capitalismo come sistema capace di innovazione e crescita economica, ma riconobbero anche la necessità di riforme per mitigare le sue peggiori ingiustizie. L’economia classica, tuttavia, aveva dei limiti. Non riusciva a spiegare le crisi economiche, come le grandi depressioni, e sottovalutava il ruolo dello Stato nell’economia. |
1936 |
John Maynard Keynes pubblica, nel periodo della grande crisi del ’29, la “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e |
All’inizio del XX secolo, l’economista inglese John Maynard Keynes rivoluzionò il modo di pensare l’economia. Keynes sosteneva che il mercato non sempre si autoregola e che, in periodi di crisi, lo Stato deve intervenire per stimolare la domanda aggregata, ad esempio attraverso la spesa pubblica, i tagli alle tasse o gli investimenti pubblici. La Grande Depressione degli anni ’30 rappresentò un punto di svolta nella storia dell’economia politica. L’economia classica e neo-classica, che sosteneva che i mercati si sarebbero auto-corretti attraverso meccanismi di aggiustamento automatico (più precisamente attraverso la legge della domanda e offerta), non riuscì a spiegare la crisi economica globale e la disoccupazione di massa. In questo contesto, John Maynard Keynes, nella sua rivoluzionaria “Teoria generale …”, propose un nuovo approccio e nuove idee che furono fondamentali per uscire dalla Grande Depressione degli anni ’30, influenzando notevolmente le politiche economiche di molti paesi nel dopoguerra. Keynes argomentò che i mercati non sempre riuscivano a garantire il pieno impiego e che l’intervento del governo era necessario per stabilizzare l’economia. Cioè non sempre i mercati trovano il loro equilibrio in corrispondenza del pieno impiego (di lavoro e capitale). Sostenne che, durante le recessioni, il governo dovrebbe aumentare la spesa pubblica per stimolare la domanda aggregata, alimentando così l’occupazione e la produzione. Questa idea portò alla nascita della macroeconomia moderna e divenne la base per le politiche economiche della maggior parte dei governi occidentali nel secondo dopoguerra. |
1936-1970 |
La scuola c.d. post-keynesiana si evolve, andando a spiegare fenomeni nuovi, trascurati da Keynes |
Il periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale fu caratterizzato da un ampio consenso keynesiano, con molti paesi occidentali che adottarono politiche economiche mirate a mantenere la piena occupazione e a costruire uno stato sociale o “welfare state”. Questo periodo vide una crescita economica sostenuta, una diminuzione delle disuguaglianze economiche e l’espansione dei servizi pubblici come l’istruzione, la sanità e la sicurezza sociale. In particolare il modello puramente Keynesiano della domanda aggregata si evolve per merito del lavoro degli economisti c.d. post-Keynesiani. I nuovi modelli, nati sulla scia di quello della domanda aggregata, considerano aspetti trascurati da Keynes, come il mercato e la politica monetaria e la possibilità dell’incremento dell’inflazione molto prima del pieno impiego dei fattori produttivi (per Keynes l’inflazione si spiegava solo quando il sistema si avvicina al pieno impiego, perché la crescente domanda, non potendo essere soddisfatta nel breve termine dalla crescita della produzione, si scarica tutta sui prezzi, ovvero sul PIL nominale). Altri economisti post-Keynesiani importanti sono stati: Joan Robinson, economista inglese che ha contribuito a sviluppare la teoria della crescita endogena e ha sottolineato l’importanza delle imperfezioni del mercato e della distribuzione del reddito; John Hicks, particolarmente noto per il suo modello IS-LM, un modello macroeconomico che rappresenta l’interazione tra il mercato dei beni (IS) e il mercato della moneta (LM), diventato strumento analitico fondamentale per la politica fiscale e monetaria e le loro implicazioni sulla produzione e sull’occupazione; Alvin Hansen spesso considerato il principale divulgatore del pensiero keynesiano negli Stati Uniti, che ha adattato e sviluppato le idee di Keynes e sostenuto attivamente l’intervento dello Stato nell’economia per stabilizzare il ciclo economico ed il cui nome è anche noto per aver introdotto il concetto di “stagnazione secolare”, ovvero la possibilità che l’economia entri in un periodo di crescita molto lenta a causa della diminuzione degli investimenti. Il welfare state rappresentò un compromesso tra le esigenze del capitalismo e le pressioni per una maggiore equità sociale. Tuttavia, negli anni ’70, questo modello iniziò a essere messo in discussione a causa delle crisi economiche (shock petroliferi), dell’inflazione crescente (stagflazione) e delle tensioni fiscali. |
1971-2007 |
Anche la Scuola post-Keynesiana conosce i suoi limiti, a causa degli shock petroliferi degli anni ’70 che portano crisi economica ed inflazione (c.d. “stagflazione”) |
Negli anni ’70 e ’80, l’economia neoclassica, che riprendeva molti degli assunti dell’economia classica, tornò in auge. I neoclassici sottolineavano l’importanza dei mercati liberi e della privatizzazione delle imprese pubbliche. Questo insieme di politiche economiche, spesso chiamato “consenso di Washington”, fu imposto a molti paesi in via di sviluppo dagli organismi finanziari internazionali come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Questo nuovo paradigma iniziò a emergere con l’ascesa del neoliberismo, rappresentato dalle politiche di Margaret Thatcher nel Regno Unito e Ronald Reagan negli Stati Uniti. I neoliberisti criticavano l’intervento del governo nell’economia e sostenevano un ritorno ai principi del libero mercato, alla deregolamentazione, alle privatizzazioni e alla riduzione delle imposte. Friedrich Hayek e Milton Friedman furono tra i principali teorici del neoliberismo. Hayek, nel suo libro “The Road to Serfdom”, avvertì che l’intervento statale nell’economia portava inevitabilmente alla perdita di libertà. Friedman, attraverso il monetarismo, enfatizzò il controllo dell’offerta di moneta come mezzo per gestire l’inflazione, criticando le politiche keynesiane di spesa pubblica. Per i monetaristi, in sostanza, la politica fiscale o di spesa pubblica è dannosa o quanto meno inutile. L’unica politica economia da attuare è quella monetaria, dove la Banca centrale di un paese si deve limitare a far crescere la quantità di moneta in circolazione di un minimo percentuale annuo, così da non provocare inflazione. Con la fine della Guerra Fredda e l’avvento della globalizzazione negli anni ’90 e 2000, l’economia mondiale divenne sempre più integrata. Il commercio internazionale, gli investimenti esteri diretti e la mobilità dei capitali aumentarono rapidamente, portando ad una crescita economica significativa in molte parti del mondo ed in particolare in Asia. Tuttavia, la globalizzazione ha anche sollevato preoccupazioni per la crescente disuguaglianza, la perdita di posti di lavoro in alcune industrie e l’erosione della sovranità economica nazionale. |
2008 |
Crisi economica del 2008 |
La crisi finanziaria globale del 2008 rappresentò un altro momento cruciale nella storia dell’economia politica. La crisi evidenziò le vulnerabilità del sistema finanziario globale e portò a una rinnovata attenzione alla regolamentazione dei mercati finanziari e al ruolo dello Stato nell’economia. Molti governi intervennero con politiche di stimolo economico, riflettendo una temporanea riscoperta delle idee keynesiane. La crisi finanziaria del 2008 ha messo in discussione molti dei dogmi dell’economia neoclassica e ha portato a una rivalutazione del ruolo dello Stato nell’economia. La crisi ha mostrato i limiti di un’economia basata sulla finanza e ha evidenziato la necessità di politiche economiche reali più attente alle disuguaglianze sociali e ai problemi ambientali. Inoltre, questa crisi finanziaria e la conseguente recessione hanno scosso profondamente il panorama dell’economia politica mondiale, portando ad un riesame delle politiche economiche e delle teorie esistenti. Molti economisti e politici hanno riconosciuto che l’eccessiva deregolamentazione dei mercati finanziari e la fiducia nelle forze del mercato avevano contribuito alla crisi. Questo periodo ha visto un ritorno a politiche più interventiste, con governi che hanno adottato pacchetti di stimolo economico, programmi di salvataggio bancario e politiche monetarie non convenzionali come il quantitative easing per stabilizzare le economie. L’austerità è stata un’altra risposta controversa alla crisi, soprattutto in Europa. Mentre alcuni paesi hanno adottato misure di austerità per ridurre i deficit di bilancio e il debito pubblico, altri hanno criticato tali politiche per aver rallentato la ripresa economica e aumentato le disuguaglianze sociali. La crisi del debito sovrano europeo e le difficoltà economiche nei paesi dell’Eurozona come la Grecia, la Spagna e l’Italia hanno esacerbato queste tensioni, evidenziando le sfide di gestire politiche economiche in un’unione monetaria senza una piena integrazione fiscale e politica. |
2008-oggi |
Il mondo economico dopo la crisi finanziaria del 2008 e le nuove problematiche all’orizzonte |
Nel XXI secolo, l’economia è diventata sempre più complessa e interconnessa. La globalizzazione, la tecnologia digitale e i cambiamenti climatici pongono nuove sfide agli economisti. Guardando quindi al futuro, l’economia politica dovrà affrontare una serie di sfide interconnesse e globali che richiedono nuove idee e approcci. La necessità di affrontare il cambiamento climatico, promuovere una crescita economica sostenibile e inclusiva, regolare l’economia digitale e rispondere alle disuguaglianze crescenti rappresentano solo alcune delle questioni cruciali che modellano il dibattito economico e politico. Le questioni ambientali stanno spingendo verso un ripensamento delle politiche economiche e una transizione verso economie più sostenibili. Le innovazioni tecnologiche stanno trasformando il lavoro e i mercati, mentre le tensioni geopolitiche e le disuguaglianze economiche sollevano nuove domande sul futuro dell’ordine economico globale. Il cambiamento climatico rappresenta una delle sfide più significative e complesse per l’economia politica contemporanea. Gli effetti negativi del cambiamento climatico, come eventi meteorologici estremi, aumento del livello del mare e perdita di biodiversità, hanno profonde implicazioni economiche e sociali. L’economia politica del cambiamento climatico si concentra sulla necessità di trasformare i sistemi energetici e produttivi globali per ridurre le emissioni di gas serra e mitigare gli impatti del riscaldamento globale. Le politiche economiche per affrontare il cambiamento climatico includono l’adozione di tasse sul carbonio, sistemi di scambio di emissioni, incentivi per le energie rinnovabili e investimenti in tecnologie verdi. Tuttavia, la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio richiede anche un ripensamento dei modelli di crescita economica e una maggiore cooperazione internazionale. Le tensioni geopolitiche, le differenze nelle responsabilità storiche e le capacità economiche tra paesi sviluppati e in via di sviluppo complicano ulteriormente il raggiungimento di un consenso globale su queste questioni. Un’altra sfida centrale dell’economia politica contemporanea è la crescente disuguaglianza economica e sociale. Sebbene la globalizzazione e l’innovazione tecnologica abbiano sollevato milioni di persone dalla povertà in molte parti del mondo, hanno anche contribuito ad ampliare il divario tra ricchi e poveri, sia all’interno dei paesi che tra di essi. L’economista Thomas Piketty, nel suo influente libro “Il capitale nel XXI secolo”, ha analizzato come la concentrazione della ricchezza e del reddito nelle mani di pochi sia aumentata, sollevando preoccupazioni sulla sostenibilità economica e politica di tali disuguaglianze. Queste disuguaglianze hanno alimentato movimenti populisti e nazionalisti in molte parti del mondo, portando a un rifiuto delle élite politiche ed economiche tradizionali e una maggiore polarizzazione politica. I dibattiti sull’economia politica si concentrano ora su come promuovere una crescita inclusiva e ridurre le disuguaglianze attraverso politiche di redistribuzione, istruzione, sanità, e regolamentazione del mercato del lavoro. Inoltre, la crescente interconnessione delle economie globali e l’emergere di nuove potenze economiche, come la Cina e il crescente scetticismo nei confronti della globalizzazione in alcune parti del mondo occidentale, suggeriscono che l’economia politica del futuro sarà sempre più multipolare e complessa. La necessità di cooperazione internazionale e governance globale sarà essenziale per affrontare queste sfide, come ha dimostrato l’emergenza del Covid, ma sarà anche necessaria una comprensione più profonda delle dinamiche economiche locali e delle esigenze dei cittadini. Le ideologie economiche che hanno dominato il passato sono costantemente rivisitate e adattate per affrontare le sfide del presente e del futuro. In particolare, l’inizio del XXI secolo ha visto l’emergere di una nuova economia digitale, caratterizzata da rapidi progressi tecnologici nell’informatica, nelle comunicazioni e nell’intelligenza artificiale. La cosiddetta Quarta Rivoluzione Industriale sta trasformando non solo i settori produttivi, ma anche il modo in cui le economie operano a livello globale. Aziende come Google, Amazon, Facebook e Apple sono diventate giganti globali, influenzando i mercati, i comportamenti dei consumatori e le normative. Questa rivoluzione tecnologica ha sollevato nuove domande e sfide per l’economia politica. Da un lato, le tecnologie digitali hanno migliorato l’efficienza e creato nuove opportunità economiche. Dall’altro, hanno anche sollevato preoccupazioni riguardo alla privacy, alla concentrazione del potere economico, al controllo dei dati e all’impatto dell’automazione sul mercato del lavoro. Il dibattito sull’intelligenza artificiale e l’automazione riguarda non solo il potenziale di disoccupazione tecnologica, ma anche la necessità di adattare i sistemi educativi e le politiche di welfare per una nuova era economica. Negli ultimi decenni, uno sviluppo significativo nel campo dell’economia politica c’è stato anche con l’ascesa dell’economia comportamentale, che mette in discussione l’assunto neoclassico dell’Homo Economicus, un agente perfettamente razionale che cerca sempre di massimizzare la propria utilità. Basandosi su psicologia cognitiva e sperimentazioni, economisti comportamentali come Daniel Kahneman, Richard Thaler e Amos Tversky hanno dimostrato che le persone spesso prendono decisioni in modo irrazionale, influenzate da bias cognitivi e limitate capacità di elaborazione delle informazioni. L’economia comportamentale ha importanti implicazioni per la politica economica. Ad esempio, ha portato allo sviluppo del concetto di “nudge”, ovvero interventi che modificano il comportamento delle persone in modo prevedibile senza vietare opzioni o modificare significativamente gli incentivi economici. Le politiche basate su questi principi sono state adottate da diversi governi per migliorare il benessere sociale, influenzare le scelte di risparmio, la salute pubblica e altri comportamenti economici. |
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