Evoluzione del potere dei media e comunicazione digitale
Una tesi di Laurea sul potere dei media e la comunicazione digitale

da | 23 Nov 2006 | Comunicazione | 2 commenti

TV

Capitolo terzo (seconda parte) STAMPA, TV E BAMBINI

2 TV ieri ed oggi

Oggi è ormai pacifica la constatazione che le persone poste di fronte ad un televisore acceso non necessariamente seguono con attenzione ciò che viene trasmesso. Questo atteggiamento di visione “distratta” è dovuto al fatto che sono rare le occasioni in cui guardare la TV , anche quando propone un programma interessante, sia l’unica attività cui gli spettatori si dedicano. Generalmente, infatti, mentre la televisione è accesa si mangia, si controlla cosa succede nella stanza, si sfoglia un giornale, si parla con un familiare e si compiono mille altre attività. Tuttavia, nonostante che l’attenzione accordata ai programmi televisivi sia spesso superficiale, nessuno si sognerebbe di affermare che essi non contribuiscano affatto alla formazione ed al cambiamento dei sistemi di credenze e di valori delle persone. Al contrario, nei frequenti dibattiti in TV o altrove, sul tema della responsabilità dei mezzi di comunicazione di massa nell’amplificazione, distorsione e ripetizione di fenomeni negativi (come per. es. la violenza), si trova sempre qualche ospite che, in qualità di opinion leader più o meno esperto, insinua l’idea di un enorme potere da parte dei media nell’indirizzare l’opinione pubblica verso condotte ben precise (di consumo, di voto, di pensiero, etc…). Contemporaneamente (come si è visto nel cap. II), c’è sempre chi, viceversa, si richiama ad esempi che attribuiscono a tali fonti una rilevanza molto scarsa sulle audiences . Tutto ciò è ancora più vero per il mezzo televisivo, che rimane ancora l’incontrastato medium mainstream, ovvero il più importante, quello scelto dalla maggioranza del pubblico. Pertanto è di estrema importanza fare attenzione alle immagini trasmesse, perché è facile presumere che queste, raggiungendo direttamente le case della quasi totalità della popolazione ed essendo usufruibili da qualsiasi persona, senza alcuna distinzione d’età, possano causare forti sensazioni negli spettatori, soprattutto a quelli psicologicamente più indifesi come i bambini. La ricerca sociale riguardante il mass media TV non offre certo una verità assoluta o comunque una risposta univoca sull’argomento, ma aiuta a capire meglio qual è la reale situazione per quanto riguarda, nello specifico, il linguaggio televisivo.

 

2.1 Dalla paleotelevisione alla neotelevisione

I modi espressivi e le forme culturali della vecchia televisione italiana delle origini erano profondamente diversi da come sono adesso, tant’è che Umberto Eco definisce la TV del monopolio pubblico con il termine paleotelevisione (Eco, 1981), per contrapporla all’attuale modo di fare TV che invece chiama neotelevisione . La paleotelevisione era caratterizzata innanzitutto dal fatto di trasmettere (via etere) programmi irradiati da un’unica emittente ( la RAI , partecipata dallo Stato), quindi senza concorrenza ed anzi con funzioni di servizio pubblico (cioè facendo gli interessi della collettività). In particolare la RAI ha sempre attuato, ed attua tutt’ora, sia pur con accenti sicuramente meno marcati, una politica di programmazione rigorosamente fondata su intenti pedagogici. I dirigenti RAI della paleotelevisione avevano l’ambizioso obiettivo di trasmettere solo quello che potesse istruire, formare ed intrattenere gli italiani, senza nessun’altra preoccupazione, neanche riguardi ai dati d’ascolto. Inizialmente la TV italiana aveva un solo canale, in bianco e nero, disponibile solo in alcune ore della giornata per non ostacolare il lavoro, lo studio ed il riposo. Questa televisione aveva un palinsesto settimanale e non giornaliero ( palinsesto significa “raschiato più volte” ed evidenziava quindi la necessità di riscrivere più volte la programmazione in base alle pressioni politiche) e pertanto ogni serata era dedicata ad un genere diverso (varietà, informazione, film), in un’ottica televisiva fatta di appuntamenti attesi con ansia (TV festiva ), con la televisione da accendere solo quando si era interessati ad una certa trasmissione e non per una sua fruizione continua, come accadde ora nella TV attuale. Gli indici di ascolto, adesso tanto importanti, al monopolio pubblico non interessavano affatto, perché si puntava sul gradimento dei programmi e sulla realizzazione di prodotti pedagogici, anziché sull’ascolto (Menduni, 2002). La TV pubblica mandava in onda grandi eventi, cerimonie e cronache sportive, adattava per il piccolo schermo opere teatrali, musicali e letterarie (il romanzo sceneggiato o teleromanzo in più puntate era la specialità italiana) e produceva in studio rubriche trasmesse a cadenza settimanale. L’informazione era molto inamidata e fatta di rotocalchi e tribune politiche. L’intrattenimento era rappresentato da varietà settimanali, realizzati in grandi studi con la presenza del pubblico, e da quiz e giochi, che costituivano il genere più “americano” della TV nazionale, spesso prodotti acquistando dagli USA il format , ovvero il modello di trasmissione. I primi quiz erano veramente difficili, da specialisti, quasi ad esprimere la metafora delle difficoltà che si incontrano nell’affermazione sociale, poi, con il tempo, sono diventati semplici e familiari. Comparvero presto anche prodotti di fiction americana, perché la TV si dimostrò subito avida consumatrice di serial , mentre gli sceneggiati europei ad alto costo coprivano solo poche ore di programmazione. I film nella TV pubblica sono stati un genere scarso, perché si cercava di non fare concorrenza al cinema (nonostante la RAI fosse diventata anche un produttore cinematografico). Essi venivano trasmessi solo il lunedì e la scelta di questo giorno settimanale non era casuale, perché non si voleva per l’appunto rubare pubblico alle sale cinematografiche. Per quanto riguarda la pubblicità, mentre in alcuni Paesi europei, contraddistinti anch’essi dal servizio radiotelevisivo pubblico (come p.es. nella BBC inglese), era addirittura assente, in Italia era esigua e considerata risorsa accessoria, da mettere rigorosamente tra parentesi, racchiusa in contenitori isolati che la rendessero in qualche modo presentabile (alla maniera del celebre “Carosello”). La rottura del monopolio pubblico si ebbe negli anni ’70, quando il servizio pubblico fu messo in discussione in tutta Europa. C’erano spinte verso un’informazione alternativa, in un mercato mondiale di prodotti culturali, ma il vero catalizzatore fu commerciale: l’economia era molto cresciuta ed esisteva di conseguenza la possibilità di fare grandi affari con la pubblicità, la quale invece veniva assegnata in piccole dosi dal monopolio, mentre avrebbe avuto ampi spazi nelle emittenti private. In Italia, nel 1976, dopo molte discussioni ed in una situazione in cui testate e reti RAI erano ufficiosamente attribuite ciascuna ad un partito di riferimento, una sentenza della Corte costituzionale ammise la legalità dell’emittenza privata, radiofonica e televisiva, purché in ambito locale, aprendo così la strada al sorgere come funghi di radio e TV private. Il monopolio pubblico finì di fatto quando apparve sulla scena, nel 1984, la “Fininvest” (poi “Mediaset”), che raggiunse lo stesso numero (tre) di reti nazionali della RAI e la superò in fatturato pubblicitario. La TV italiana divenne quindi (e sostanzialmente lo è ancora) una partita a due “RAI-Fininvest”, il cosiddetto duopolio . L’effetto di questo nuovo scenario fu un cambio radicale dei linguaggi della TV italiana, che per Umberto Eco si trasformò in neotelevisione. Nella neotelevisione il rapporto fra intrattenimento ed altre forme di programmazione, come l’informazione e la cultura, si sposta maggiormente verso l’intrattenimento, tant’è che quest’ultimo tende ad inglobare gli altri generi, diventando il vero tessuto connettivo della programmazione, sia nelle televisioni commerciali (per il bisogno economico di raggiungere il massimo ascolto), sia nella TV pubblica (per non perdere terreno “politico” nei confronti del grande pubblico). La concorrenza in cui vive la neotelevisione non è solo economica, con riguardo cioè alle tariffe pubblicitarie che la finanziano, ma anche culturale (espressiva, creativa) e sociale (in rapporto con le tendenze di fondo della società). E’ per questo che essa tende ad assumere un formato generalista , cioè a trasmettere programmi (di contenuto socio-culturale medio ) rivolti a tutte le età ed a tutte le categorie sociali, graditi insomma dalla grande maggioranza degli spettatori. A conferma di questo nuovo linguaggio televisivo, dal 1986 anche in Italia c’è una misurazione quantitativa degli indici di ascolto, effettuata da una società super partes : l’Auditel. Sono pertanto gli spettatori a decidere le sorti di un programma o di un personaggio ed in ultima analisi le stesse tariffe pubblicitarie. L’offerta televisiva diventa molteplice e varia, con un’ampia scelta di programmi (cosiddetta TV feriale ), e la conseguenza dell’agguerrita concorrenza tra emittenti è che queste sono costrette a scendere a patti con i telespettatori (c.d. “patto comunicativo”). Gli italiani vedono la TV molto più di prima e le ore di trasmissione aumentano notevolmente, anche perché, grazie al nuovo strumento del telecomando, il pubblico impara a fare lo zapping , cioè a perlustrare continuamente le scelte disponibili. La modalità d’offerta TV diventa, a seguito dei cambiamenti della neotelevisione, di flusso televisivo (Williams, 2000), in cui la trasmissione viene suddivisa in brevi frammenti narrativi, ciascuno dotato di senso proprio, in modo che lo spettatore li comprenda immediatamente, senza perdersi. Questi frammenti televisivi di significato devono impedire il calo d’attenzione nello spettatore (altrimenti cambia canale) e fornire un’immagine di rete ben definita. Il flusso televisivo, inoltre, diventa parte integrante di una vita di flusso , nella quale l’intersecazione continua fra la condizione umana e la sua rappresentazione sullo schermo è forse il principale motivo del successo televisivo e del solido innesto del televisore nella vita privata e nelle interazioni delle persone all’interno della casa.

2.2 Le tre fasi della TV italiana

La neotelevisione ha raggiunto ormai i 30 anni di vita ed in questo periodo essa ha subito una profonda evoluzione, divisibile in tre distinte fasi. Nella prima fase, che va dall’avvento della televisione commerciale (1975) alla fine degli anni ’80, la TV italiana è palesemente consociativa, riflesso di un periodo politico e culturale caratterizzato da numerosi governi “di solidarietà nazionale”. La ricerca di trasmissioni di stampo generalista punta su un “metagenere” particolare, il contenitore , cioè un programma elastico, con una durata anche molto lunga (p.es. un intero pomeriggio), in grado di contenere frammenti di vari generi e mediato da un bravo conduttore. “Domenica in” del 1976 è un esempio di contenitore. Si tratta sostanzialmente di una “cornice” di spettacoli, che è l’espressione di un contratto comunicativo privo di tematizzazione. Nasce in questi anni anche il talk show , ovvero l’intrattenimento parlato, cioè un salotto televisivo popolato da ospiti di estrazione molto diversa ed animato da un brillante conduttore. “Bontà loro” del 1976, di e con Maurizio Costanzo, è uno dei primi talk show . Proprio in virtù della fortuna televisiva dei talk show , inizia lo strapotere in TV dei conduttori, che nel tempo diventeranno i veri giudici di quello che bisogna o non bisogna trasmettere, riuscendo anche ad inserire nello scenario televisivo i membri del loro entourage . Il potere del conduttore è elevato perché egli risponde a due esigenze, in genere contrapposte:

  • quella della gente comune, che gradisce vedere il vip privo dell’alone che lo circonda;
  • quella dell’ èlite , che ha l’occasione per rafforzare la propria immagine, nel senso di una maggiore umanità e di un generico populismo.

Il conduttore quindi si barcamena tra due mondi: rappresenta la gente comune nel rapporto con la classe dirigente ed al tempo stesso appartiene al jet set , con cui interagisce alla pari. Egli svolge l’autorevole ruolo di intermediario tra i personaggi che contano e si fa anche interprete delle esigenze di cambiamento. Inoltre, comincia l’invasione di fiction USA e sudamericana, acquistata massicciamente per il suo basso costo. I prodotti importati prendono il nome di serial , sitcom , soap operas (provenienti dagli USA) e telenovelas (dall’America Latina). Dal Giappone s’importano, invece, in grande quantità, i cartoons , spesso di scarsa qualità e disegnati originariamente per il pubblico adulto, che in Italia sono, al contrario, mandati in onda (dopo il taglio delle scene più violente o scabrose) all’interno della TV dei ragazzi. Nelle TV locali l’aspetto commerciale della nuova televisione è esaltato da vendite in diretta, telepromozioni ed aste TV, ma anche da maghi, imbonitori, falsi giochi a premi e venditrici di creme ed unguenti; La seconda fase, che si può far coincidere con gli anni ’80, è contraddistinta da una televisione che è ormai riuscita a fidelizzare il proprio pubblico grazie a 2 elementi:

  • il successo popolare ottenuto dai conduttori di contenitori e talk show ;
  • l’offerta vastissima di fiction d’importazione, non solo series (telefilm), ma anche film cinematografici rubati al grande schermo, il quale nel periodo considerato conosce una profonda crisi (chiudono il 58% delle sale e le vendite di biglietti calano del 65%).

In questa fase c’è un grande utilizzo dei quiz ( game show ), che rappresentano l’immagine di un mondo in cui ci sono chances per tutti ed il benessere è facilmente raggiungibile. Ma è soprattutto l’intrattenimento a caratterizzare la seconda ondata della TV nazionale. Esso diventa la forma culturale predominante, mentre i classici generi televisivi perdono i loro reciproci confini, sconfinando tutti nei toni dell’intrattenimento. Lo spettacolo è ormai la forma di tutte le altre rappresentazioni, tanto da dar luogo a nuove forme comunicative:

  • infotainment (informazione spettacolarizzata);
  • sportainment (intrattenimento sportivo);
  • edutainment ( education + entertainment , nuova forma delle rubriche culturali).

La terza fase, che parte dalla fine degli anni ’80 ed arriva fino ad oggi, vede l’usura delle conversazioni tipiche del talk show e del contenitore. Pertanto si affermano programmi in cui non c’è più distinzione tra fiction e non fiction, tra realtà e mondo televisivo, e che sono tutti riconducibili al genere del reality show . La TV ha sete di mettere in scena la realtà o ciò che presume tale, con scivolate anche nel melodramma, ed allora vanno in onda aule di tribunale, casi umani, risse, tradimenti, incidenti stradali e disastri vari. In un primo tempo questo modo di fare televisione prende il nome di real TV o TV verità e, nella sua forma meno sensazionalistica, si appropria anche delle funzioni di TV di servizio , la quale rappresenta la principale marca televisiva di RAI tre (cioè la sua carta d’identità). Successivamente si cercano sensazioni ancora più forti, rappresentando eventi strani e drammatici, oppure i sentimenti personali e le emozioni anche intime della gente comune, con cui gli spettatori si identificano, fino ad arrivare alla ripresa continua (24 ore su 24) di un ambiente in cui interagiscono diversi personaggi (“Il Grande Fratello” ne è un esempio). A questo punto però la TV è forse già entrata in una quarta fase, che si presenta come una sovrapposizione ed un intreccio dei precedenti modelli di neotelevisione, nonché dei loro ibridi e replicanti.

2.3 Il pubblico televisivo

Il termine pubblico era inizialmente inteso, negli anni ’40 (ai tempi della teoria ipodermica , v. par. 2.1 del primo capitolo), come una “massa” omogenea e indifferenziata di individui, predisposta per ricevere su larga scala uno stesso contenuto. Il pubblico di massa era considerato pertanto facilmente manipolabile e quindi passivo, succube di una relazione fortemente asimmetrica intrattenuta con gli emittenti (Horkheimer e Adorno, 1947). Successivamente, con lo sviluppo dell’industrializzazione all’interno delle grandi città, il pubblico comincia ad essere considerato come “gruppo sociale”, composto da reti sociali di persone aventi particolari caratteristiche sociodemografiche e simili interessi. Questi gruppi di individui erano in comunicazione tra di loro ed in grado di filtrare in maniera attiva e personale il messaggio mediatico (Lazarsfeld, 1955). L’avvento della televisione rafforza invece il concetto di pubblico come “mercato”, ovvero come un insieme di soggetti considerati nella duplice veste di potenziali consumatori di prodotti culturali e di potenziali acquirenti di beni di consumo, da attrarre e “vendere” agli inserzionisti pubblicitari (Capecchi, 2004). La pubblicità occupa infatti ampio spazio nei contenuti della TV, in quanto rappresenta per quest’ultima la principale fonte di introito, oltre ovviamente al canone riscosso dal servizio pubblico televisivo. Dal punto di vista degli emittenti diventa opportuno suddividere il pubblico-mercato secondo determinati stili di vita e modelli di consumo, allo scopo di identificare un certo numero di target-groups (gruppi-obiettivo della comunicazione). I target costituiscono dei pubblici differenziati verso cui indirizzare il messaggio televisivo, in modo mirato e presumibilmente efficace. Ogni target è composto da persone appartenenti ad una stessa classe sociale, età, genere, occupazione, e che condividono quindi uno stesso “stile di vita”, nel senso di valori, atteggiamenti, modo di passare il tempo libero e di consumare prodotti di qualsiasi genere, compresi gli stessi media. Tra le variabili di differenziazione e segmentazione del pubblico, oltre agli stili di vita, rimangono comunque fondamentali quelle socioeconomiche, perché indicano le potenzialità di spesa di ciascun target . Nel mercato del pubblico televisivo diventa essenziale per le emittenti raggiungere, con la loro comunicazione, il maggior numero possibile di persone e pertanto l’obiettivo principale è sempre quello della massimizzazione delle audiences . Tale obiettivo è realizzato con la produzione e trasmissione di programmi che siano in grado di raggiungere un elevato numero di ascoltatori, anche se troppo spesso a scapito della qualità dei contenuti. Gli indici di ascolto, ovvero il numero di contatti ottenuto da ogni minuto di programmazione, sono inoltre fondamentali per la fissazione delle tariffe pubblicitarie. In realtà il discorso sul mercato televisivo è molto più articolato, perché negli ultimi anni il pubblico è diventato sempre più instabile e “sfuggente” (Ang, 1991). L’ audience televisiva è un’astrazione, un modo di oggettivare il pubblico da parte delle reti emittenti, che non coincide con le audiences effettive, cioè con le molteplici e contraddittorie pratiche ed esperienze delle persone, che, nella vita quotidiana, si riuniscono e danno vita ad un pubblico televisivo. Le audiences effettive mantengono un’identità che risulta costitutivamente instabile, sono formazioni dinamiche e mutevoli, i cui confini culturali e psicologici restano essenzialmente sfumati. E’ per questo che di frequente i programmi non riescono ad attrarre il pubblico che si era preventivato. In tale contesto le questioni teoriche importanti sono l’immagine del pubblico posseduta dalle emittenti e la “qualità televisiva”. Anche se le emittenti svolgono numerose ricerche qualitative, oltre che quantitative, sui gusti, sulle preferenze e sui desideri di pubblici divenuti sempre più critici ed esigenti, nel prefigurarsi il target (o Lettore Modello, per usare l’espressione di Eco) cui indirizzare la comunicazione, difficilmente si interrogano sulle reali esigenze delle audiences . Ciò che conta e su cui si basa la programmazione dei contenuti sono solo i contatti televisivi che si possono realizzare, perché se un prodotto TV ottiene un elevato indice d’ascolto, diventa automaticamente un programma di “alto gradimento”, che finisce per indicare ciò che l’ audience vuole, senza preoccuparsi d’approfondire se esso è veramente piaciuto. La logica della massimizzazione degli ascolti tende quindi continuamente a prevalere, a causa della competizione tra network televisivi. Di conseguenza, i contenuti sono diventati sempre più stereotipati, banali e spettacolarizzata, al fine di raggiungere un largo ascolto ed il pubblico non può far altro che accontentarsi. Il concetto di “qualità televisiva” è appunto l’esigenza, quasi mai rispettata dai programmatori TV, di produrre trasmissioni di grande ascolto, ma anche in grado di mantenere un certo standard qualitativo. Con le nuove tecnologie mediatiche o new media (v. par. 1.1 del I cap.), è notevolmente cresciuto l’utilizzo di videoregistrazione, DVD e TV satellitare. Questi operano sostanzialmente una frammentazione del pubblico, il quale impegna il tempo libero a disposizione ( time-budget ) nell’uso delle diverse alternative offerte dal moderno mercato televisivo. In poche parole, oggi il pubblico ha maggiori possibilità di scegliere i contenuti TV e la televisione è passata conseguentemente da una programmazione interamente generalista ad un’altra che si basa sui gusti e sugli interessi soggettivi di spettatori estremamente segmentati. Un altro aspetto rilevante della rivoluzione tecnologica è la trasmissione globalizzata dei prodotti televisivi. La comunicazione satellitare ha infatti dato il via alla diffusione di contenuti in grado di coprire aree sovranazionali, che riguarda non solo eventi di largo spessore, come p.es. le Olimpiadi o i mondiali di calcio, ma anche soap operas , serial , film e telefilm . Tale fenomeno comporta una viva preoccupazione per quella che di fatto è un’imposizione internazionale di programmi, costruiti con i codici culturali del mondo occidentale ed in particolare del Paese che li esporta. Si è molto discusso ad esempio dell’ “imperialismo culturale americano”, dato che gli USA sono il principale esportatore di fiction televisiva e cinematografica. Tuttavia è anche vero che quest’audience transnazionale , allargata a livello mondiale, non riuscirà mai a soppiantare le audience nazionali e locali, dato il bisogno delle persone di identificarsi nella cultura, nelle credenze e nei valori del proprio Paese. Come afferma Crane (1992), la globalizzazione della cultura non coincide con l’omogeneizzazione della cultura , perché gli stessi simboli culturali possono essere interpretati molto diversamente da individui aventi una diversa origine.

2.4 Gli effetti della TV

Per quanto riguarda gli effetti della televisione, occorre fare un netta distinzione tra effetti diretti e indiretti. Si hanno effetti diretti quando l’esposizione ai contenuti dei programmi TV concorre a modificare la probabilità di attuare un dato comportamento. L’esempio evidente è quello della pubblicità, perché in questo caso si può parlare di effetto diretto se, in seguito alla divulgazione del messaggio, aumenta la probabilità di acquisto del prodotto pubblicizzato. Uscendo dalla sfera esplicitamente promozionale, gli effetti diretti si riscontrano laddove l’osservazione di un modello presentato dalla TV provoca una sorta di imitazione da parte del pubblico. A tale proposito una delle questioni più importanti, evidenziata da molte ricerche sull’argomento, è la relazione tra il tipo di programmi che i pubblici e soprattutto i ragazzi guardano ed il livello di aggressività delle loro condotte. Anche se è sempre possibile affermare che non è la violenza esibita in TV la causa di condotte aggressive, ma sono le persone con una condotta aggressiva che scelgono spettacoli televisivi a contenuto violento, l’idea che la visione di trasmissioni con scene brutali aumenti, in modo diretto, la probabilità di attuare analoghi comportanti brutali è senz’altro verosimile e può ricondursi alla teoria dell’apprendimento sociale formulata da Bandura negli anni ’60 (v. par. 3.3). Quest’autore sostiene che l’apprendimento del comportamento adeguato ad una determinata situazione non avviene necessariamente attraverso l’esperienza diretta. Una persona può individuare la condotta appropriata anche mediante l’osservazione di un altro individuo che agisce nella stessa situazione. Quindi, l’osservazione di un soggetto in una certa situazione costituirebbe un modello, il quale offre informazioni sui comportamenti specifici e sulle regole generali che governano quella situazione. Inoltre, la ripetizione dei comportamenti osservati si verifica per lo più in assenza della piena intenzionalità e consapevolezza da parte dell’osservatore ed anche a distanza di molto tempo. E’ pure vero che il telespettatore non può essere sempre considerato un imitatore passivo. Egli interpreta quello che vede e lo mette in relazione con ciò che già conosce e con le risposte comportamentali che ha già messo in atto in altre simili situazioni. Pertanto, sia il modo d’interpretare i contenuti dei programmi, sia il tipo di conoscenze e di risposte a cui gli spettatori vanno a collegarsi, concorrono a determinare il livello di aggressività dei comportamenti successivi. Questo significa che la visione di trasmissioni a contenuto violento provoca eccitamento e, di conseguenza, la propensione ad attuare risposte aggressive soltanto in soggetti nella cui memoria siano già presenti tendenze aggressive. Inoltre, tale associazione fra memoria e risposta comportamentale risulta più forte a certe condizioni, per es. quando lo spettatore s’identifica con il personaggio violento oppure quando le conseguenze della condotta violenta che vede in TV appaiono trascurabili. Un’altra questione aperta, riguardante sempre gli effetti diretti della televisione, è quella della teledipendenza . Infatti, l’utilizzo del mezzo televisivo si è guadagnato un posto di primo piano tra le attività quotidiane, uno spazio che però qualche volta finisce per trasformarsi in abuso da parte di chi ne usufruisce per intere giornate, lasciando inoltre poco margine ad un atteggiamento critico di fronte ai contenuti ricevuti. Come ogni strumento di comunicazione, anche la televisione può essere utilizzata bene o male e può diventare oggetto da cui dipendere quando si ricercano soddisfazioni ai propri bisogni e quando, in una società come quella attuale, si assiste a numerose crisi delle istituzioni, le quali hanno finito per delegare alla TV compiti che essa non dovrebbe assolutamente svolgere. Pertanto la teledipendenza rappresenta il prodotto dell’incontro tra alcuni moderni fattori psico-sociali e determinati fattori comportamentali. I primi, che hanno alimentato il proliferare dei comportamenti di abuso televisivo, riguardano alcune trasformazioni delle funzioni sociali assolte dal televisore. Questo si è trasformato da mezzo d’informazione e d’intrattenimento nel tempo libero a educatore di bambini e modello per gli adulti, diventando uno “strumento umanizzato”, al punto da rappresentare una vera e propria compagnia virtuale, talvolta preferita in tutto o in parte a quella reale. Su questa scia la televisione ha amplificato i suoi originari propositi, giungendo alla creazione di due atteggiamenti piuttosto diffusi:

  • quello per il quale ciò che è detto in TV assume il valore di “realtà assoluta”, incontestabile e inopinabile;
  • quello che ha portato alla definizione dell’equazione “tempo libero uguale uso della televisione”.

Tutto ciò ha comportato, nella sfera individuale di molte persone, un impoverimento delle esperienze dirette di confronto con la realtà, a vantaggio di una conoscenza mediata dalla TV, in un processo che tende frequentemente a generare confusione tra “realtà virtuale” e “realtà concreta”. Le importanti ricadute di questi fattori psico-sociali hanno trasformato le abitudini quotidiane di molte persone, facendo leva anche su alcuni fattori comportamentali che predispongono un terreno fertile allo sviluppo della teledipendenza. Tra questi assumono grande rilevanza due comportamenti:

  • il teleabuso , con cui si fa riferimento ad una contemplazione quantitativamente eccessiva della televisione, che viene esercitata in modo regolare e quotidiano. A tale proposito è da sottolineare come ormai, visto l’ingresso dell’uso della TV tra le abitudini di tutti gli individui, sia diventato oltremodo difficile tracciare una precisa linea di confine tra utilizzo normale della televisione e suo abuso, che può portare alla teledipendenza;
  • la telefissazione , che consiste nella contemplazione anomala della televisione, attuata con un atteggiamento silenzioso ed immobile, da soli o ignorando le persone presenti. Questo comportamento manifesta la propensione a lasciarsi catturare completamente dal messaggio televisivo, il quale possiede l’intrinseca capacità di saturare tutti i canali sensoriali degli spettatori, creando una situazione di sovraccarico che costituisce la base per l’ottenimento di una, più o meno lieve, alterazione dello stato di coscienza (Gamberoni, 2002).

In alcuni casi per vincere la teledipendenza è sufficiente regolare autonomamente le proprie abitudini, allo scopo di far scomparire il fenomeno e lasciare spazio ad altre attività ricreative, in altri è necessario invece un trattamento specifico, che può richiedere anche un cambiamento globale delle proprie abitudini di vita. Gli effetti indiretti della televisione riguardano l’influenza che la rappresentazione della realtà, offerta dalla televisione, esercita nel lungo periodo sulla costruzione sociale del mondo da parte delle audiences. Infatti, esse ricavano le informazioni sulla realtà e sull’ambiente da due fonti principali: l’esperienza diretta, che deriva anche dalle comunicazioni interpersonali, ed il sistema dei mezzi di comunicazione di massa. La TV in particolare estende notevolmente la capacità di conoscere cose, luoghi e persone delle quali non si può avere (o non si è ancora avuto) esperienza diretta. Il problema che si pone in quest’ambito è quindi attinente alla relazione fra la rappresentazione della realtà costruita attraverso il mezzo televisivo e la realtà stessa. In particolare le ricerche hanno rilevato come i programmi di fiction trasmessi dalle reti TV forniscano immagini della realtà relativamente uniformi. I contenuti televisivi proposti nelle fiction plasmano le credenze che le persone si formano, allontanandole dalla realtà oggettiva, e ciò soprattutto per quel che concerne la criminalità, le minoranze etniche, l’emarginazione e via dicendo. Nei film e nei serials alcuni temi sono enfatizzati, come p.es. gli episodi di criminalità, che sono sovrarappresentati, al contrario di alcune figure sociali (le donne, gli anziani, le minoranze etniche ed altri gruppi con scarso potere), che sono invece sottorappresentate. Questi contenuti favoriscono il modellarsi di “risposte televisive” nei telespettatori assidui, i quali si formano inevitabilmente una visione piuttosto stereotipata del mondo sociale. L’effetto, inoltre, risulta più accentuato quando i contenuti televisivi concorrono a dare risonanza alle informazioni direttamente provenienti dall’esperienza personale degli spettatori, attribuendo così agli avvenimenti della fiction televisiva un rilevante “senso di realtà”. E’ comunque da rimarcare, nel tentativo di attenuare queste considerazioni negative sugli effetti indiretti della TV, come, allo stato attuale, sia difficile sostenere la tesi che le trasmissioni televisive, nei loro vari generi, veicolino un’immagine omogenea della realtà.

2 Commenti

  1. Telkom University

    How do television emitters understand and measure audience satisfaction?

    Regard Telkom University

    Rispondi
    • Steve Round

      Through the meter, an electronic device installed in televisions that automatically detects the channel they are tuned to and transmits the information to Auditel, the company that measures the television audience.

      Rispondi

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