Scuola di Francoforte
Indice
Capitolo primo (terza parte) LA COMUNICAZIONE TRA INFORMAZIONE E PERSUASIONE
3 La scuola di Francoforte
L’Istituto per le Ricerche Sociali nasce a Francoforte nel 1923, sotto la direzione di Max Horkheimer e si ispira alla “teoria critica della società”, erede del pensiero di Hegel e Marx, che vede nella società una totalità dominata da un antagonismo interno.
L’impostazione di fondo è quindi quella marxista, con la quale viene criticata la visione settoriale della società (intesa invece dai francofortesi come un “tutto”), che finisce per perpetuare lo status quo , impedendo il mutamento sociale.
Altri punti fermi della teoria critica sono:
- la critica verso scienze e cultura;
- la riorganizzazione della società;
- il superamento della crisi della ragione;
- la considerazione dei fenomeni con riferimento al contesto sociale che li produce.
La scuola di Francoforte ed i suoi principali esponenti, Adorno, Benjamin e Marcuse, gettano le premesse in Europa per una profonda riflessione critica sul potere dei media. Tale riflessione si contrappone decisamente alla ricerca amministrativa avviata in USA, finalizzata agli interessi commerciali dei committenti e proprio per questo accusata dagli europei di asseveramento agli scopi delle industrie culturali (v. par. 3.1). Infatti, Adorno, filosofo e musicista, accetta nel 1938 l’invito di Lazarsfeld a collaborare al Princeton Radio Project , finanziato dalla fondazione Rockefeller. E’ proprio nell’ambito di questa collaborazione che nasce il duro contrasto fra ricerca empirica americana e ricerca critica europea, scatenando negli anni ’60 la prima grande crisi dei media studies .
Un aspetto particolare, rielaborato dalla teoria francofortese, riguarda la ricerca sociale, che non deve essere né una semplice descrizione dei fatti (ricerca empirica), né un’astrazione teorica (ricerca teorica). C’è, al contrario, una stretta connessione tra le due sfere, perché la ricerca empirica deve essere sempre guidata dalle teorie e le teorie devono essere sempre corrette dai risultati empirici.
Il bisogno della ricerca empirica di limitarsi a dati certi e sicuri rischia di ridurre la ricerca sociale al non essenziale (Horkheimer, 1972), in nome di ciò che non può essere oggetto di controversia, e troppo spesso alla ricerca sociale sono imposti obiettivi in base ai metodi, quando invece bisogna adattare i metodi agli obiettivi.
I francofortesi affermano che i dati vanno esaminati nella loro dialettica di essenza ed apparenza , come sostiene anche la matrice marxista. Non esistono “dati di fatto”, perché i fatti sono il prodotto di specifiche situazioni storico-sociali. La stessa verità non è immutabile: ciascuna epoca ha la sua e nessuna di queste verità è al di sopra di ogni tempo. Il ricercatore è anch’egli parte dell’oggetto sociale che studia e la sua percezione è necessariamente mediata dalle categorie sociali, sulle quali non può elevarsi.
Per i francofortesi, tuttavia, la ricerca sociale deve affermare la propria autonoma istanza conoscitiva, contro tutti gli orientamenti politici e le visoni del mondo e quindi, in conclusione, la Scuola di Francoforte, pur ritenendo indispensabile la ricerca empirica, ha grosse difficoltà a praticarla ed il suo pensiero rimane pertanto fondamentalmente teorico.
3.1 Industrie culturali
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio Novecento si assiste alla formazione delle grandi organizzazioni della comunicazione:
- quelle editoriali, librarie e giornalistiche (che creano delle sinergie con le agenzie di stampa e di pubblicità, utilizzano le reti telegrafiche e telefoniche ed incorporano le innovazioni tecnologiche);
- quelle legate alla fotografia, al cinema ed alla riproduzione sonora (cosiddette tecnologie di riproduzione).
E’ questo il periodo di nascita delle industrie culturali.
Nelle industrie culturali sono prodotti beni (culturali) con criteri industriali, cioè su larga scala e sulla base di ragioni prettamente economiche. La forma industriale di produzione della cultura è tipica dell’età contemporanea (Payne, 1997). E’ una forma di produzione caratterizzata dall’accurata divisione e standardizzazione del lavoro.
Il motivo della nascita delle industri culturali è legato a processi di:
- industrializzazione;
- urbanizzazione;
- espansione dei ceti medi.
Inoltre, ci sono una serie di condizioni che favoriscono la crescita delle industrie culturali:
- aumenta il numero di prodotti della comunicazione;
- il mercato diventa il punto di scambio di questi prodotti;
- la riproducibilità tecnica favorisce la separazione tra ambito di produzione e di fruizione: i prodotti culturali vengono fruiti in luoghi e tempi diversi;
- i prodotti della comunicazione sono beni prodotti in serie;
- si formano le grandi organizzazioni dei produttori che controllano il mercato;
- si amplia e diversifica la platea dei cosiddetti professionisti della comunicazione.
Tuttavia, se è vero che le industrie culturali sono caratterizzate da una produzione secondo le regole del mercato economico, della standardizzazione, della specializzazione e della divisione del lavoro, è anche vero che il consumo di beni culturali ha caratteristiche specifiche, per le quali la standardizzazione si scontra con le esigenze di novità e di individualizzazione, poste dal consumo. Pertanto, il ciclo produttivo industriale di beni culturali non può fare a meno di quote di lavoro creativo, individuale e complesso.
C’è dunque una dialettica tra:
- uniformità, ripetibilità, standardizzazione e divisione del lavoro
- varietà, unicità, differenziazione e individualizzazione
L’utilizzo del termine “industrie culturali” (anziché industrie dell’informazione o dell’intrattenimento) si spiega allora con la necessità di:
- indicare, all’interno del ciclo produttivo di beni culturali, la presenza di quote di lavoro intellettuale ineliminabili (quindi con caratteristiche del lavoro particolari, diversificate, articolate, individuali e creative);
- segnalare gli effetti sociali dell’industrializzazione nella produzione di beni culturali, perché con le industrie culturali si ha la “colonizzazione dell’anima” o “industrializzazione dello spirito” (Morin, 1962).
Gli intellettuali diventano, nel periodo capitalistico, lavoratori salariati. Si assiste quindi alla proletarizzazione dell’intellettuale.
In realtà, convivono dialetticamente due diverse forme di lavoro: manuale ed intellettuale. Tale distinzione è riconducibile a quella tra lavoro astratto (legato al lavoro manuale, la cui forma tipica è quella del lavoro operaio, che è semplice, indifferenziato ed uniforme) e lavoro concreto (legato invece al lavoro intellettuale, che è particolare, differenziato e complesso).
Nelle industrie culturali i lavoratori intellettuali (giornalisti, scrittori, illustratori, registi, musicisti) vedono aumentare progressivamente le loro quote di lavoro astratto, tendendo asintoticamente verso l’equiparazione alle forme di lavoro operaio (astratto), pur mantenendo il loro lavoro necessariamente elementi “concreti”: differenziazione, complessità, individualità e creatività. Essi rinunciano però a quella che è la caratteristica fondamentale del lavoro concreto, ovvero il controllo sul prodotto, dalla fase di ideazione a quella di realizzazione.
3.2 Riproducibilità tecnica
Per riproducibilità tecnica s’intende la possibilità di memorizzare e di eseguire, quando e dove si vuole, una qualsiasi esperienza umana, attraverso l’uso delle nuove tecnologie.
Prima della riproducibilità tecnica, la riproduzione dell’esperienza era affidata all’arte ( arti visive e concerti dal vivo) e di conseguenza lo scontro fra quest’ultima e la nuova riproducibilità tecnica è immediato ed inevitabile.
Le tappe tecnologiche che hanno portato alla capacità di riprodurre gli eventi e le opere d’arte sono così sintetizzabili (Benjamin, 1966):
- l’esperienza è “frantumata” in unità uniformi mediante l’uso dell’alfabeto fonetico;
- con la stampa nascono i “pezzi intercambiabili”, cioè le pagine, per cui i testi sono spostabili a seconda delle esigenze e quindi nel processo produttivo si perde l’ordine originario, per acquistarne un altro legato alle necessità di produzione;
- l’immagine di “un momento” è isolata, nella continuità del tempo, dagli scatti della fotografia;
- questi scatti possono essere ricomposti, in sequenze diverse, con il montaggio del cinema (così come con l’impaginazione del giornale) e quindi il “mondo” si può spezzettare e ricostruire, in vista di un prodotto che deve avere caratteristiche precise, standardizzate e seriali.
Con la riproducibilità tecnica c’è una nuova ed inedita “forma” dell’esperienza, caratterizzata dalla:
- perdita dell’aura , cioè della qualità unica ed irripetibile dell’esperienza. L’aura sta nell’ hic et nunc , nel “qui ed ora”, che si perde inevitabilmente con la riproducibilità tecnica (esperienza riprodotta);
- nuova qualità dell’esperienza , perché prima della riproducibilità tecnica l’unica estensione del corpo umano era la scrittura, mentre con essa l’occhio e l’orecchio possono utilizzare dispositivi che fissano su dei supporti la registrazione degli eventi, permettendo così la permanenza nel tempo ed il trasporto nello spazio di esperienze uditive e visive. Si avvicina in questo modo l’opera d’arte (ovvero la sua riproduzione) a tutti coloro che non avrebbero potuto goderla. Essa va incontro al fruitore (per es. la cattedrale perde la sua ubicazione fissa ed entra, come foto, nelle case, oppure il coro, prima eseguito solamente nell’auditorio, adesso può essere comodamente ascoltato in camera) e ciò stimola la capacità di giudizio critico da parte degli spettatori;
- emancipazione della fisiologia , in quanto con la riproducibilità dell’esperienza si aprono spazi nuovi ed immensi per la conoscenza dell’uomo e del mondo. L’obiettivo, p.es., con i procedimenti d’ingrandimento, di scomposizione e di ripresa a rallentatore, permette di cogliere immagini e particolari, che non sarebbero mai percepibili all’ottica naturale, creando pertanto forme di “iperrealismo”.
Per altri esponenti della scuola di Francoforte (per es. Adorno , 1963), l’esperienza riprodotta è sempre differente dal modello. La cattedrale fotografata o la musica ascoltata in camera non è la stessa cosa dell’originale, perché cambia decisamente il significato stesso dell’opera. Il cambiamento è qualitativo, non solo quantitativo come dice Benjamin, perché l’opera d’arte riprodotta non veicola più le sensazioni ed i sentimenti che riesce a dare l’originale.
3.3 Società e cultura di massa
Il concetto di massa è nato con la rivoluzione francese, che ha esaltato la posizione di preminenza politica ed economica della borghesia. La massa è appunto l’insieme degli uomini non più contenuto nei tradizionali ordini socio-economico-politici (tipici del periodo pre-rivoluzionario).
La qualità di massa sottintende un processo comunicativo in cui i destinatari sono molti, tuttavia la caratteristica sostanziale di massa non è tanto quantitativa, ma soprattutto qualitativa. Infatti, la massa è unita soltanto dalla condivisione di un certo ambito spazio-temporale ed è rivestita di connotazioni negative, perché le persone che la compongono:
- sono uguali, indistinguibili, isolati e senza individualità, anche se appartengono a classi diverse;
- non si conoscono, non hanno possibilità di relazionarsi e compiono azioni che mirano ad un unico scopo comune, in base ad un’idea che sia la più semplice possibile;
- sono privi di regole di comportamento, di strutture organizzative e di leadership ;
- sono facile preda della comunicazione intesa come manipolazione o propaganda.
La massa, come aggregato omogeneo di individui, si fonda sul sapere specialistico tecnico e scientifico e l’uomo-massa è l’antitesi dell’umanista colto (Ortega Y Gasset, 1930). L’uomo, per il solo fatto d’appartenere ad una folla, acquista l’impulsività e la brutalità degli esseri primitivi, perché la massa è uno spazio-momento in cui il singolo può liberare il proprio inconscio e trasferire le sue pulsioni sessuali irrisolte nell’esaltazione dell’appartenenza (Freud, 1921).
In quest’ottica, il pubblico dei media, inteso come fruitore collettivo della comunicazione di massa, è un pubblico di massa, cioè una moltitudine indifferenziata di destinatari di messaggi, diffusi dai mezzi di comunicazione di massa e composta da individui, separati e lontani, che reagiscono allo stesso modo a stimoli simili.
La società di massa ha, inoltre, delle caratteristiche strutturali peculiari, perché è radicata nelle grandi città, dove trova un terreno fertile nel fenomeno della urbanizzazione, ha come fondamento la produzione industriale di serie e progredisce parallelamente alla crescita delle organizzazioni formali (burocrazia e potere statale) ed alla concentrazione dell’informazione, la quale, in particolare, determina una “cultura di massa”, in cui la quasi totalità delle informazioni destinate al grande pubblico sono selezionate, prodotte e distribuite dai mezzi di comunicazione.
Il concetto di cultura di massa è strettamente correlato a quello di società di massa. Si tratta infatti di una cultura aspramente criticata dai seguaci della scuola di Francoforte, perché, essendo prodotta dalle industrie culturali (Horkheimer e Adorno, 1947), è una cultura omogenea, senza originalità e fondata sull’intrattenimento, che livella verso il basso la cultura stessa, sottomettendo gli uomini alla logica commerciale.
Essa delinea un terreno comune relativo ai valori di consumo, sul quale i differenti strati socioculturali (dal proletariato ai cosiddetti “colletti bianchi”) trovano occasioni e possibilità di scambio e di comunicazione. Nella sua accezione di “bassa cultura” (popolare) fa riferimento alla degradazione subita dalla “cultura alta”, cioè dalla cultura “per eccellenza”.
La cultura di massa nella visione conservatrice è richiesta dalle masse che impongono il “dominio dei mediocri”, mentre nella visone progressista è imposta alla massa come strumento di dominio.
Tuttavia, è riduttivo affermare che la cultura di massa è quella diffusa dai mezzi di comunicazione di massa e consumata dalla massa, perché questi mezzi possono diffondere anche la cultura “alta” e perché non tutta la cultura di massa viene trasmessa dai media. Infatti, anche la comunicazione faccia a faccia e l’imitazione diretta possono diffondere mode, comportamenti e modelli.
E’ preferibile avvicinarsi alla cultura di massa come ad un tipo specifico di cultura, la quale presenta le seguenti caratteristiche rispetto alle altre culture:
- un orientamento “testualizzato”, che non si fonda su codici e grammatiche, ma su aggregati di testi (modelli, filoni e generi). Esistono, infatti (Lotman, 1973), culture testualizzate (come la cultura generale), che sono un insieme di testi, e culture grammaticalizzate , che sono invece un insieme di regole da rispettare;
- un ritmo di crescita sorprendente, che produce una notevole quantità di scritti, audio e video, i quali non hanno memoria e non si cumulano;
- la particolarità della “medietà”, perché accontenta pubblici molto differenti tra loro (oggi la chiameremmo “generalista”), fondendo p.es. la cultura popolare con la cultura alta ed omogeneizzando, sotto un unico denominatore, diversi contenuti, linguaggi e generi;
- è un prodotto industriale, che si consuma (in modo distratto) come qualsiasi altra merce ed è imperniato sulla divisione del lavoro e sulla legge di mercato;
- il suo valore è strettamente commerciale e proporzionato alla quantità di copie vendute o ai dati d’ascolto, anche perché è a questi che sono collegate le tariffe pubblicitarie;
- è la cultura del tempo libero e della libera scelta, perché la trasmissione di un programma radio o televisivo è intimamente legata al piacere ed alla gratificazione.
3.4 I processi comunicativi di massa
Il nuovo sistema è detto delle comunicazioni di massa e tale espressione rende bene l’idea degli apparati della produzione culturale (stampa, radio e televisione) e delle loro interazioni con le altre istituzioni come l’economia e la politica. Il destinatario è un insieme eterogeneo di individui, territorialmente disperso e non organizzato, definibile come pubblico o audience .
L’idea del pubblico da parte della fonte ( target ) è essenziale nel processo ideativo del prodotto culturale, perché quest’ultimo viene strutturato in relazione ad ipotesi sulle aspettative-motivazioni di un pubblico potenziale-previsto.
La comunicazione di massa ha, inoltre, le seguenti specificità:
- è prodotta da un’organizzazione formata da professionisti della comunicazione;
- raggiunge un numero di persone elevatissimo, che non hanno relazioni tra di loro;
- non c’è prossimità tra emittente dei messaggi e pubblico.
Nell’economia capitalistica c’è il governo delle industrie culturali sugli individui e la cultura di massa è prodotta dall’ èlite dominante, cioè dai detentori dei mezzi di produzione. I beni culturali (prodotti dai media) sono quindi come tutti gli altri prodotti commerciali: ripetitivi, omogenei e standardizzati.
Le industrie culturali utilizzano questi prodotti per manipolare la massa ed attuare un controllo psicologico sugli individui, in maniera subdola e sottile, attraverso il consumismo ed il conformismo, che annullano la possibilità di pensare e di decidere autonomamente, così da generare “pseudo-individui”.
Ciò permette di realizzare due scopi: il profitto economico ed il contrasto dell’opposizione al sistema sociale.
Anche la pubblicità è accusata (Marcuse, 1964) di inviare messaggi che creano falsi bisogni (per es. vestire allo stesso modo, ricercare oggetti da status symbol , etc…), provocando il consumismo di beni superflui e tutti uguali, con la conseguenza di imporre determinati gusti alla società e di rafforzare l’asservimento al sistema.
Alcune strategie di manipolazione da parte dei media sono:
- la stereotipizzazione per generi del contenuto dei media (per es. giallo, western, fantascienza, etc…), con una trama scontata e quasi sempre basata su una “morale della favola”, in cui un evento nuovo modifica il quadro fisso della situazione, che poi si ricompone alla fine del testo;
- la ripetitività e banalità ( standardizzazione ) della musica leggera;
- la distinzione tra prodotti di alta cultura (musica classica, opere d’arte, etc…) e di bassa cultura , veicolati dai media (come per es. la musica leggera).
Le audiences sono quindi passive, incapaci di reagire ai messaggi “latenti” dei media, neanche con la percezione selettiva (v. par. 2.3.1), e pertanto c’è un ritorno inesorabile al modello comunicativo dello stimolo/risposta (v. par. 2.1). Tuttavia, tali conclusioni della Scuola di Francoforte non hanno mai avuto il supporto di un’adeguata verifica empirica.
How do television emitters understand and measure audience satisfaction?
Regard Telkom University
Through the meter, an electronic device installed in televisions that automatically detects the channel they are tuned to and transmits the information to Auditel, the company that measures the television audience.