Crisi bancarie del 2023
Cerchiamo di capire cosa sta succedendo nel mercato finanziario e quali rischi si corrono

da | 21 Mar 2023 | BLOG | 0 commenti

Diciamo subito che le recenti crisi bancarie, da Silicon Valley Bank a Credit Suisse, non avranno le conseguenze che si sono avute nel 2008 con il crack della Lehaman Brothers.

Il motivo è semplice: non c’è ora, a differenza di allora, un collegamento finanziario tale da comportare il “contagio” della crisi tra gli operatori.

Nel 2008, si ricorderà, molte società subirono in modo grave i contraccolpi della crisi, ma ciò avvenne perché c’era un collegamento sostanziale tra i soggetti coinvolti: gli hedge found in portafoglio.

I famosi titoli salsiccia, che incorporavano al loro interno i diritti di credito verso i debitori dei mutui subprime (cioè clientela non pienamente meritevole di credito), azzerarono improvvisamente il loro valore e pertanto chi aveva in portafoglio fondi speculativi che avevano investito su questi titoli si è ritrovato a registrare una perdita secca di bilancio.

Adesso manca questo collegamento tra gli operatori finanziari. Sicuramente manca per il fallimento della Silicon Valley Bank, mentre dovrebbe essere di portata limitata per il Credit Suisse. Quest’ultima banca invero non pagherà tutti i suoi portatori di interesse. Sappiamo che, con decisione senza precedenti, rimborserà il 40% degli azionisti e tutti i depositanti e gli obbligazionisti, tranne i detentori di bond AT1, i quali quindi perderanno completamente il loro investimento.

Si tratta di una decisione senza precedenti perché una normativa comunitaria impone di dare la priorità ai depositanti (fino a 100 mila euro), poi ai depositanti con giacenza superiore ai 100 mila euro, agli obbligazionisti (tra cui anche i titolari di AT1) ed infine, per ultimi e solo se la liquidità è sufficiente, agli azionisti.

È giusto così, perché i proprietari di una società devono essere rimborsati del capitale investito nella stessa solo dopo il rimborso di chi si è fidato di loro (depositanti e detentori di bond). Nel caso del Credit Suisse la particolarità consiste nell’aver dato, invece, priorità agli azionisti, a discapito di alcuni obbligazionisti, ovvero di quelli che detengono titoli AT1, cioè titoli con specifiche caratteristiche.

Il mancato rimborso di questi ultimi creditori riguarda una cifra molto importante: 16 miliardi di euro.

Pertanto, un collegamento con il crollo di Credit Suisse ci potrà essere per gli operatori finanziari. Più precisamente ci saranno conseguenze negative per quelle società che hanno nel loro portafoglio i bond AT1 emessi da Credit Suisse, perché questi operatori subiranno una perdita secca a causa dell’azzeramento di fatto del valore di tali titoli.

Tuttavia, non sembra plausibile che questo veicolo di contagio della crisi della banca svizzera faccia molti caduti in Italia, anche considerando l’elevato volume quantitativo degli AT1 non rimborsabili.

Quindi, una prima conclusione è che alla recente crisi delle banche non dovrebbe conseguire, per mancanza dell’anello di trasmissione del contagio, un effetto domino del sistema finanziario globale, né più in particolare una situazione di difficoltà delle banche italiane.

A diversa conclusione giungiamo però se analizziamo l’attuale congiuntura economica e ricaviamo da essa alcune importanti riflessioni.

Il mondo bancario italiano potrebbe infatti trovarsi nel 2023/2024 in una situazione di tensione per effetto di qualche semplice considerazione relativa al rapido rialzo dei tassi di interesse, dopo anni di livelli prossimi allo zero ed anni caratterizzati dall’artificioso pompaggio di liquidità nel sistema da parte delle banche centrali.

Ciò induce a rilevare, almeno, le seguenti possibili circostanze di squilibrio:

  • l’aumento significativo dell’importo delle rate dei mutui a tasso variabile potrebbe rendere insostenibile il piano di rimborso di molti mutuatari, sia imprese che famiglie (rischio di credito per le banche erogatrici dei prestiti)
  • il ritorno di attrattività dei titoli pubblici, anche di quelli a breve termine come i BOT, a causa del loro accresciuto tasso di rendimento (sia pur falsato dall’inflazione) potrebbe comportare quel fenomeno che negli anni ’80 e ’90 era chiamato “disintermediazione bancaria” e che consiste nella fuga dai depositi bancari per l’investimento appunto nei titoli di Stato (adesso si dice “passaggio dalla raccolta diretta a quella indiretta”, ma il termine “raccolta indiretta” è, a parere di chi scrive, improprio perché non è la stessa cosa della vera raccolta), con le inevitabili conseguenze sulla liquidità bancaria di questo calo dei depositi (rischio di liquidità per le banche)
  • le banche hanno investimenti (nell’attivo patrimoniale) rappresentati da crediti e titoli, se questi asset sono a remunerazione fissa si crea un problema non da poco per la banca (rischio di tasso di interesse), perché gli attivi, spesso immobilizzati, sono fermi al tasso contrattuale mentre gli investimenti alternativi di mercato vedono il loro rendimento crescere, con il pericolo quindi che i tassi di interesse delle attività bancarie in essere non siano più allineati a quelli che sono i rendimenti, più elevati, del mercato
  • infine, non dimentichiamo che la tecnica finanziaria ci insegna come la quotazione degli strumenti finanziari (determinata in generale dalla loro domanda ed offerta) sia inversamente proporzionale al loro rendimento e pertanto in un momento storico di tassi di interesse in crescita ci si può ragionevolmente aspettare che le quotazioni di mercato dei titoli nei portafogli delle banche diminuiscano di valore, generando quindi minusvalenze (rischio di mercato), sia pure spesso “latenti”, cioè non influenzanti il conto economico se non per effetto della cessione dei titoli cui si riferiscono (invece, se si aspetta la loro naturale scadenza, non si hanno perdite contabili)

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