Il fallimento è un processo esecutivo avente lo scopo del soddisfacimento coattivo delle ragioni dei creditori, posti in posizione di parità reciproca, mediante la liquidazione del patrimonio dell’impresa commerciale insolvente.
La procedura fallimentare trae origine dall’esistenza di alcuni necessari presupposti per il fallimento.
Affinché si abbia la dichiarazione di fallimento occorre l’iniziativa da parte di determinati soggetti.
A seguito di questa iniziativa, il Tribunale, ove l’imprenditore ha la sede principale dell’impresa, può pronunciare la sentenza dichiarativa di fallimento.
Essa dà formalmente inizio alla procedura, al cui svolgimento sono preposto alcuni organi speciali, dotati di ampi poteri, che formano l’Ufficio fallimentare: gli organi fallimentari.
Sono due le condizioni che devono necessariamente sussistere affinché il Tribunale dichiari il fallimento:
1. presupposto soggettivo – fallisce esclusivamente l’imprenditore commerciale
2. presupposto oggettivo – lo stato d’insolvenza dell’imprenditore
L’insolvenza può essere definita come l’incapacità momentanea, da parte dell’imprenditore, di far fronte ai propri impegni finanziari (pagamenti), alle regolari scadenze e con i normali mezzi di pagamento (cassa, assegni non postdatati, ecc.).
La legge fallimentare indica alcuni avvenimenti, quali indici della manifestazione dello stato d’insolvenza. Essi possono essere di aiuto al Tribunale per giudicare, nella fattispecie concreta, sull’esistenza o meno dell’insolvenza stessa e sono i seguenti:
• inadempimenti ripetuti (mancato pagamento di debiti, pagamenti effettuati con ritardo, pagamenti effettuati con strumenti non tradizionali, come ass. postdatati, cambiali, beni patrimoniali, ecc.)
• altri fatti esteriori (chiusura dei locali, svendita della merce sottocosto, ricorso all’usura, trafugamento dei beni, latitanza dell’imprenditore, ecc.)
Per concludere questo discorso sull’insolvenza, quale presupposto (oggettivo) necessario per il fallimento, c’è da dire che nella realtà pratica è molto difficile valutare, per il Tribunale, l’esistenza effettiva della insolvenza. Infatti, non sempre gli inadempimenti delle obbligazioni pecuniarie sono un valido indice di insolvenza. Innanzitutto potrebbero essere frutto di una temporanea difficoltà della impresa, la quale è spesso destinata a risolversi facilmente, magari con l’ottenimento di un semplice finanziamento. Inoltre, anche la difficoltà duratura ad adempiere i pagamenti non necessariamente presuppone lo stato d’insolvenza, perché l’impresa potrebbe avere uno squilibrio finanziario (tra entrate ed uscite), per disorganizzazione o incapacità dell’imprenditore, ma una forte solidità dal punto di vista economico (costi e ricavi) e patrimoniale (attività e passività).
Per cui in questa situazione il fallimento non dovrebbe essere dichiarato, perché i creditori non hanno motivo di temere la perdita del loro credito. Di fatto il Tribunale dovrà valutare, per ogni situazione, tutti gli elementi a sua disposizione per accertare o meno l’esistenza dello stato d’insolvenza, anche avvalendosi dell’aiuto di periti ed esperti contabili.
L’iniziativa per la dichiarazione di fallimento
Il Tribunale nella cui circoscrizione territoriale c’è la sede principale dell’impresa pronuncerà la sentenza dichiarativa di fallimento d’ufficio o su istanza di parte. L’iniziativa può dunque legittimamente provenire da uno dei seguenti soggetti:
1) il debitore stesso
2) uno o più creditori
3) il PM
4) il Tribunale fallimentare
1) L’imprenditore commerciale “dovrebbe” chiedere il fallimento in tutti i casi di insolvenza della sua impresa, al fine di non aggravare ulteriormente la sua già delicata situazione finanziaria.
Naturalmente nella realtà non è così. Alla richiesta di fallimento, il debitore deve allegare:
a) le scritture contabili
b) il Bilancio d’esercizio dei 2 anni precedenti
c) l’inventario dettagliato delle attività patrimoniali
d) l’elenco nominativo dei creditori con l’ammontare del loro credito
e) l’elenco di coloro che vantano diritti reali sui beni in possesso dell’impresa
2) La richiesta di fallimento, sotto forma di ricorso, da parte dei creditori è il caso più frequente.
Essi, invocando il fallimento, da una parte cercano di evitare i futuri trafugamenti di capitale ad opera del debitore e dall’altra sperano che la procedura fallimentare reintegri, attraverso la revocatoria fallimento, il patrimonio già andato perduto. Inoltre i creditori hanno paura che l’imprenditore soddisfi solo alcuni di essi, a danno degli altri. C’è anche un motivo, quasi di “ricatto”, che spinge il singolo creditore a chiedere al Tribunale il fallimento. Egli infatti, così facendo, costringe il debitore a pagare il debito per evitare le gravi conseguenze a suo carico derivanti dal fallimento.
3) L’iniziativa del PM si ha in tutti i casi in cui risulta, in sede penale, lo stato d’insolvenza: fuga o latitanza dell’imprenditore, chiusura dei locali dell’impresa, occultamento dell’attivo e in tutti i casi di azione penale contro il debitore insolvente.
4) Il Tribunale fallimentare dichiara il fallimento d’ufficio:
a) se nel corso di un giudizio civile viene accertata l’insolvenza dell’imprenditore
b) se non va a buon fine il concordato preventivo
c) se viene comunque a conoscenza dello stato d’insolvenza, per es. da coloro che levano i protesti cambiari (notai, segretari comunali, ecc.)
La sentenza dichiarativa di fallimento
La sentenza dichiarativa di fallimento apre la procedura fallimentare. Prima di pronunciarla, il Tribunale,
al fine di verificare la sussistenza dei presupposti (oggettivi e soggettivi), può esperire delle indagini preliminari, nell’ambito delle quali ha l’obbligo di ascoltare in camera di consiglio il debitore. Ciò perché non si può limitare il diritto alla difesa di quest’ultimo. L’eventuale omissione di tale obbligo comporta la nullità della sentenza dichiarativa di fallimento. Terminati gli accertamenti preliminari, il Tribunale può respingere l’istanza o dichiarare il fallimento, con sentenza. La sentenza è provvisoriamente esecutiva, ma contro di essa possono opporsi, entro 15 gg. dalla notificazione:
• il debitore
• chiunque vi abbia interesse, tranne i creditori istanti
Le eccezioni che gli oppositori possono sollevare si concretizzano nelle seguenti fattispecie:
• incompetenza territoriale
• mancata audizione del debitore
• mancanza di uno dei 2 presupposti (impresa commerciale o insolvenza)
L’opposizione può essere respinta o accolta. In quest’ultimo caso il fallimento viene revocato. La sentenza che respinge o accoglie l’opposizione è appellabile entro 15 gg. dalla notifica.
La sentenza dichiarativa del fallimento contiene:
• la nomina del giudice delegato e del curatore
• l’ordine al fallito di depositare entro 24 ore i libri contabili ed il Bilancio
• l’ordine per la cattura del fallito, qualora egli si sia macchiato di reati fallimentari
• l’assegnazione ai creditori di un termine massimo di 30 gg. per l’insinuazione nel passivo
• l’indicazione del giorno per l’adunanza dei creditori (entro 20 gg. dal termine indicato al punto precedente)
Gli organi che compongono l’Ufficio fallimentare sono:
Vediamoli uno alla volta.
Il Tribunale che dichiara il fallimento è l’organo di indirizzo e coordinamento di tutta la procedura. E’ competente a conoscere di tutte le azioni che riguardano il fallimento e provvede sulle controversie della procedura che non sono di competenza del giudice delegato. Decide sui reclami contro i provvedimenti del giudice delegato.
Il giudice delegato è l’organo deputato a dirigere le operazioni del fallimento ed a vigilare sul curatore.
In particolare, tra le tante, si sottolineano le seguenti competenze:
• riferisce al Tribunale su ogni affare sul quale esso deve pronunciarsi
• emette i provvedimenti urgenti, necessari per la conservazione del patrimonio
• autorizza il curatore a compiere atti di straordinaria amministrazione
• decide sui reclami contro gli atti del curatore
• provvede, insieme al curatore, all’esame preliminare dei crediti
I provvedimenti del giudice delegato hanno la forma di decreti e contro di essi è ammesso reclamo al Tribunale, entro 3 gg. dalla comunicazione del decreto.
Il curatore è il vero organo esecutivo della procedura fallimentare, cioè è colui che svolge tutte le fasi del procedimento. Egli ha l’amministrazionezione dei beni del fallito ed opera sotto la direzione del giudice delegato. E’ nominato con la sentenza dichiarativa di fallimento, tra gli iscritti negli Albi professionali (Dottori Commercialisti, Ragionieri, Avvocati, ecc…). In seguito all’accettazione dell’incarico assume la qualità di pubblico ufficiale, in quanto diventa organo del fallimento. Ha diritto ad un compenso per la sua opera, determinato in genere facendo riferimento alle tariffe professionali. Anche contro gli atti del curatore è possibile proporre reclamo da parte degli interessati. Sul reclamo decide il giudice delegato con decreto motivato. Il curatore è responsabile degli atti compiuti in danno della procedura fallimentare. L’azione di responsabilità può essere esperita solo dopo la revoca del curatore, la quale è disposta dal Tribunale, d’ufficio o su proposta degli altri organi (g. delegato e comitato dei creditori). Sarà il nuovo curatore ad esercitare l’azione di responsabilità, su autorizzazione del giudice delegato.
Gli Atti del curatore sono così classificabili:
• atti di ordinaria amministrazione– non gli occorre nessuna autorizzazione
• atti di straordinaria amministrazione – gli occorre l’autorizzazione del g. delegato
• atti specifici di straordinaria amministrazione – sono atti particolari (come la riduzione dei crediti, le transazioni, ecc.) che richiedono, oltre la consueta approvazione del giudice delegato, il parere del comitato dei creditori e, a volte (per operazioni superiori alle 200.000 lire!!), l’autorizzazione dello stesso Tribunale.
In via sommaria, i principali compiti del curatore sono:
• redigere, entro un mese dal fallimento, una relazione dettagliata sulle cause che hanno portato al fallimento, indicando le eventuali responsabilità, anche penali, del fallito o degli amministratori della società fallita
• redigere, entro il 5 di ogni mese, una relazione sull’andamento della gestione nel mese precedente
• depositare, entro 5 gg., le somme riscosse a qualunque titolo, dedotte le spese da sostenere o sostenute su autorizzazione del giudice delegato
• tenere un registro, vidimato dal giudice delegato, dove annotare tutte le operazioni contabili compiute nell’esercizio delle sue funzioni
• compiere tutti gli atti necessari per cercare di reintegrare il patrimonio del fallito (come la revocatoria fallimentare, quella ordinaria, ecc.)
• presentare, una volta ultimata la liquidazione dell’attivo e prima del riparto finale, il conto della sua gestione, da sottoporre all’approvazione del giudice delegato
Il comitato dei creditori è un organo con funzioni soprattutto consultive. In via residuale, ha anche funzioni ispettive e di informazione, quando controlla le scritture contabili o chiede informazioni al curatore. E’ composto da 3 a 5 membri scelti fra i creditori dal giudice delegato, entro 10 gg. dal decreto che rende esecutivo lo stato passivo.
I pareri espressi dal comitato possono essere:
• facoltativi – se gli altri organi sono liberi di richiederli
• obbligatori – se invece c’è l’obbligo di ricevere il parere del comitato
Inoltre, essi possono essere:
• consultivi – quando non c’è l’obbligo di tener conto del parere
• vincolanti – quando invece obbligano a tenere un certo comportamento. L’unico caso di parere vincolante del comitato riguarda l’esercizio provvisorio dell’impresa, cioè il parere sull’opportunità di continuare o meno l’esercizio temporaneo dell’impresa fallita. In questo caso il parere sfavorevole del comitato vincola il curatore a non proseguire (o a non riprendere) l’attività imprenditoriale.
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