Introduzione
Indice
LA FORMAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI
Prima di procedere all’esame delle fonti, dobbiamo puntualizzare un concetto fondamentale che costituisce la base del diritto internazionale.
Noi sappiamo che un ORDINE regola i rapporti tra tutte le parti che costituiscono un sistema politico. In politica interna, ad esempio, sono le costituzioni a svolgere le funzioni di ordine, stabilendo il tipo di Stato e il regime nel quale le istituzioni politiche e governative devono operare.
Nell’ordinamento internazionale, invece, sussiste una sostanziale differenza.
Mentre l’ordinamento interno è un’istituzione gerarchica, che poggia sul ruolo dello Stato, l’ordinamento internazionale è un’istituzione anarchica nel quale manca un governo mondiale.
La comprensione di questa importante differenza costituisce la chiave per identificare la funzione svolta dalle istituzioni internazionali.
Gli ordini internazionali, cioè, si reggono “sulla volontà dei principali attori”. (Andreatta).
Essi non sono sottoposti ad un potere ad essi superiore, in quanto vige il principio della uguaglianza formale degli Stati.
Questa caratteristica comporta che non vi sia un procedimento formale di produzione giuridica che si imponga dall’esterno alla volontà dei consociati, ma mette in luce il fatto che tutte le fonti in esso sono AUTONOME, cioè sono gli stessi soggetti destinatari delle norme a porle in essere.
Per cui, le norme del diritto internazionale generale, che vincolano tutti gli Stati hanno natura consuetudinaria.
- La CONSUETUDINE INTERNAZIONALE è costituita da un comportamento costante ed uniforme tenuto dagli Stati, cioè dal ripetersi di un determinato comportamento con la convinzione della vincolatività del comportamento stesso.
Due sono, quindi, gli elementi che caratterizzano questa fonte:
- LA DIUTURNITAS (o la prassi)
- L’ OPINIO JURIS AC NECESSITATIS (o convinzione della giuridica necessità)
Quando si parla di prassi si fa riferimento ad un concreto comportamento, ovvero ad atti giuridici che possono essere dell’ordinamento interno o dell’ordinamento internazionale.
Ad esempio, atti giuridici dell’ordinamento internazionale possono essere i trattati, le risoluzioni delle organizzazioni internazionali, le proteste degli Stati o la corrispondenza diplomatica.
Gli atti interni rilevanti ai fini della prassi, invece, sono le sentenze dei giudici, le leggi ordinarie, le leggi regionali o le norme poste in essere da qualsiasi ente pubblico interno.
La prassi però deve avere una determinata qualificazione per essere tale:
- in senso soggettivo deve provenire dai soggetti dell’ordinamento internazionale (prevalentemente gli Stati)
- in senso oggettivo deve avere i caratteri della
- UNIFORMITA’ (o non contraddittorietà) garantisce che non assumano rilievo motivazioni politiche degli Stati che essi sfruttano per giustificare le loro azioni, ma solo quei comportamenti che essi ritengono realmente giuridici.
- GENERALITA’ assicura che la norma sia posta in essere da un numero significativamente rappresentativo di Stati
- CONTINUITA’ implica una certa persistenza nel tempo dei comportamenti tenuti dalla maggioranza degli Stati
L’opinio juris, invece, presuppone che tali comportamenti siano posti in essere con la convinzione della loro giuridica necessità, o della loro necessità sociale.
Tale concezione (detta DUALISTICA) non ha avuto però unanimità di consensi in dottrina.
Alcuni autori hanno sostenuto che la consuetudine sarebbe costituita dalla sola prassi, in quanto, ammettendosi la necessità dell’opinio juris, si arriverebbe a considerarla come nata da un errore. Si dice, infatti, che se, nel momento in cui la norma va formandosi, lo Stato crede che un comportamento sia obbligatorio, cioè richiesto dal diritto, mentre in effetti il diritto non esiste, è evidente che lo Stato è in errore.
Tuttavia, se si esamina la prassi dei Tribunali internazionali, si può avere conferma della tesi secondo la quale, nella consuetudine internazionale, entrambi gli elementi siano necessari. Non solo, ma ci fa rendere conto di come la tesi dualistica della consuetudine derivi da elementi di pura logica. Infatti:
- Essa è fondamentale ai fini della distinzione tra consuetudine produttiva di norme giuridiche e comportamenti di pure cortesia o doverosità morale.
- La sua esistenza o meno, inoltre, è il solo criterio utilizzabile per ricavare una norma consuetudinaria dalla prassi convenzionale.
- Infine, essa serve a distinguere il comportamento dello Stato diretto a modificare il diritto consuetudinario preesistente dal comportamento che costituisce ,invece, mero illecito internazionale.
Per quanto riguarda gli organi che concorrono alla formazione della norma consuetudinaria, si riconosce generalmente la possibilità di partecipazione a tutti gli organi statali e non solo ai detentori del potere estero.
Pertanto possono dare origine ad una norma consuetudinaria non solo atti “esterni” degli Stati, ma anche atti “interni” (leggi, sentenze, atti amministrativi), senza alcun ordine di priorità.
Un ruolo importante è svolto sicuramente dalla giurisprudenza, con particolare riguardo alle Corti Supreme, le quali hanno il compito, fra gli altri, di promuovere la revisione di consuetudini antiche che contrastino con fondamentali e diffusi valori costituzionali.
Poiché le consuetudini creano diritto generale, vincolano tutti gli Stati, indipendentemente dalla loro partecipazione alla sua formazione.
Questo principio è stato a lungo posto in discussione dagli Stati sorti dal processo di decolonizzazione, ossia dagli Stati che attualmente costituiscono la maggioranza dei membri della comunità internazionale.
La contestazione nasceva dal fatto che, essendosi tale diritto formato in epoca coloniale, esso rispondeva ad esigenze del tutto diverse da quelle del nostro tempo.
Il problema ha trovato soluzioni diverse a seconda che la contestazione provenisse da un singolo Stato o da un gruppo di Stati.
Nel primo caso, provenendo dal cd. persistent objector (obiettore persistente) essa è irrilevante e non occorre neanche la prova dell’accettazione della norma, poiché essa è diritto generale ed è quindi comune a tutti gli Stati.
Diverso è invece il caso della contestazione che proviene da un gruppo di Stati: essa non solo non può essere ignorata, ma non è neanche da considerarsi esistente come regola consuetudinaria.
Tuttavia, prima di arrivare alla negazione totale della norma, l’interprete deve fare ogni sforzo per cercare di trovare un minimo comune denominatore nell’atteggiamento degli Stati, ai fini della ricostruzione anche di principi generalissimi.
Oltre alle norme consuetudinarie generali esistono anche le consuetudini particolari, ossia quelle vincolanti una ristretta cerchia di Stati.
La loro figura è certamente da ammettersi e la sua applicazione più rilevante è fornita dal diritto non scritto che può formarsi per modificare o abrogare le regole poste da un determinato trattato.
In altre parole, accade che le parti che stipulano un accordo diano inizio ad una prassi che modifica le norme a suo tempo pattuite.
Le norme consuetudinarie sono suscettibili di interpretazione analogica?
L’analogia è una forma di interpretazione estensiva, che consiste nell’applicare una norma ad un caso che essa non prevede, ma i cui caratteri essenziali siano analoghi a quelli del caso previsto. Nell’ambito del diritto consuetudinario, il ricorso all’analogia ha senso solo con riguardo alle fattispecie nuove.
I PRINCIPI GENERALI DI DIRITTO RICONOSCIUTI DALLE NAZIONI CIVILI
Tra le fonti di diritto internazionale generale non scritte, l’art. 38 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia annovera “i principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni Civili”.
Secondo l’interpretazione di tale articolo, detti principi sono indicati al terzo posto, dopo gli accordi e le consuetudini, e si tratterebbe di una fonte utilizzabile là dove manchino norme pattizie o consuetudinarie applicabili ad un caso concreto.
Il ricorso a tali principi costituirebbe una sorta di analogia juris destinata a colmare le lacune del diritto pattizio e consuetudinario prima di concludere che non esistano obblighi internazionali in ordine ad un caso concreto.
Essi rappresenterebbero dei principi generali di giustizia oppure soltanto di logica giuridica, seguiti nei rapporti internazionali, e connaturati all’idea stessa di diritto.
(Es: ne bis in idem; nemo judex in re sua; in claris non fit interpretatio; etc….)
In realtà esiste una notevole varietà di opinioni in merito: alcuni dicono che non si tratta affatto di norme giuridiche internazionali, altri affermano la natura integratrice, altri ancora li collocano al vertice della gerarchia delle fonti.
Obiettivamente non è facile orientarsi, anche perché ci si chiede quali tra i principi generali più o meno seguiti in tutti gli ordinamenti sarebbero applicabili a titolo di norme generali dell’ordinamento internazionale.
Generalmente si ricorre a due condizioni o requisiti:
- che tali principi esistano e siano uniformemente applicati nella più gran parte degli Stati;
- occorre che essi siano sentiti come obbligatori o necessari anche dal punto di vista del diritto internazionale, che essi cioè perseguano dei valori e impongano dei comportamenti che gli Stati considerino come perseguiti ed imposti o almeno necessari anche sul piano internazionale.
Così intesi non sarebbero altro che una categoria sui generis di norme consuetudinarie internazionali.
Secondo una simile impostazione, allora, non sarebbero principi destinati a colmare soltanto le lacune del diritto internazionale; il loro rapporto sarebbe invece il normale rapporto tra norme di pari grado: la norma posteriore abroga quella anteriore e la norma speciale deroga quella generale.
Un’ultima precisazione: se tali principi vengono applicati dai giudici di uno Stato anche quando essi non siano presenti nell’ordinamento statale, potrà dichiararsi l’illegittimità costituzionale di una legge ordinaria dello Stato, anche quando essa sia contraria ad un principio generale.
ALTRE NORME GENERALI NON SCRITTE
Una parte della dottrina pone al di sopra delle norme consuetudinarie (e distinte da esse) un’altra categoria di norme generali non scritte: i principi.
Si è così sostenuta l’esistenza di una serie di “principi costituzionali”, connaturati con la comunità internazionale, che comprendono anche un principio che consentirebbe in ogni caso il ricorso alla guerra.
Secondo il Quadri, vigoroso e originale sostenitore di questa teoria, che parte da una concezione fortemente imperativistica del diritto, i principi costituirebbero le norme primarie del diritto internazionale poiché sono “l’espressione immediata e diretta della volontà del corpo sociale” e, in definitiva, comprenderebbero tutte quelle norme imposte dalle “forze prevalenti” nell’ambito della comunità internazionale, in un determinato momento storico.
Tra questi principi, alcuni avrebbero carattere formale, poiché si limiterebbero a istituire fonti ulteriori di norme, altri carattere materiale, in quanto disciplinerebbero direttamente i rapporti tra Stati.
I principi formali sarebbero due:
- CONSUETUDO EST SERVANDA
- PACTA SUNT SERVANDA
Pertanto, l’osservanza delle consuetudini e degli accordi sarebbe imposta dalle forze prevalenti.
I principi materiali potrebbero avere qualsiasi contenuto, a seconda che le forze prevalenti si combinino per volere una certa disciplina in una determinata materia.
Tale concezione non è accettabile però, perché non si possono ricostruire principi materiali indipendentemente dalla prassi e imporli solo perché frutto della volontà di qualche, o anche di uno, Stato. In questo modo, ogni abuso sarebbe legittimato giuridicamente.
Inoltre, un operatore giuridico interno, nell’applicare tali principi, si dovrebbe chiedere ogni volta se essi non siano il frutto di una qualche imposizione. E’ vero che , in ogni caso, nei principi c’è sempre una forza preponderante, ma a tale forza deve accompagnasi la stabilità e la continuità della prassi affinché il principio sia ammesso come tale.
LE CONVENZIONI DI CODIFICAZIONE
Resta ora da esaminare il problema se esistano norme internazionali generali scritte.
Il problema della codificazione del diritto generale consuetudinario comincia alla fine del secolo scorso con la trasfusione in testi scritti delle norme del diritto bellico.
Ma è solo con le Nazioni Unite che l’opera di codificazione prende slancio traducendosi in una serie di trattati multilaterali ai fini di:
- operare una razionalizzazione della consuetudine
- fare in modo che le norme internazionali rispondessero ai nuovi interessi comuni fra gli Stati affermati dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Non esistendo, infatti, nel diritto internazionale alcun organo con poteri legislativi, il TRATTATO è l’unico strumento per la trasformazione del diritto non scritto in diritto scritto.
L’articolo 13 della Carta delle Nazioni Unite prevede che l’Assemblea generale intraprenda degli studi e faccia raccomandazioni per “incoraggiare lo sviluppo progressivo del diritto internazionale e la sua codificazione.”
A tali fini l’Assemblea ha creato un’apposita Commissione incaricata di provvedere alla preparazione di testi di codificazione delle norme consuetudinarie relative a determinate materie, procedendo a studi, raccogliendo dati e predisponendo in tal modo progetti di convenzioni multilaterali internazionali che vengano poi adottati e aperti alla ratifica e all’adesione da parte degli Stati stessi.
La Commissione ha finora studiato numerosi settori del diritto internazionale e predisposto varie Convenzioni di codificazione.
Le più importanti sono :
- la Convenzione di Vienna del 1961 sulle relazioni ed immunità diplomatiche;
- la Convenzione sulla piattaforma continentale;
- la Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati;
- la Convenzione di Vienna del 1986 sul diritto dei trattati conclusi da Stati con organizzazioni internazionali e tra organizzazioni;
- la Convenzione di Vienna del 1978 sulla successione dei trattati;
- la Convenzione di Montego Bay del 1994 sul diritto del mare.
Le Convenzioni di codificazione, in quanto comuni accordi internazionale, vincolano gli Stati contraenti. Alcuni autori, però, hanno detto che, appunto perché essi propongono di codificare il diritto generale, hanno valore per gli Stati non contraenti.
Ma bisogna essere molto cauti nel considerare gli accordi di codificazione come corrispondenti al diritto consuetudinario generale.
Innanzitutto non si può riporre un’illimitata fiducia nei lavori della Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite, perché spesso ci può essere l’influenza dell’interprete o anche di chi è chiamato a far parte della Commissione stessa. Inoltre gli Stati fanno quello che si fa sempre in sede di conclusione delle trattative per la conclusione degli accordi internazionali: cercano di far prevalere i propri interessi, le proprie convinzioni. Per queste ragioni, gli accordi di codificazione vanno considerati come normali accordi internazionali e quindi vincolano i soli Stati contraenti che li ratificano.
La Corte Internazionale di Giustizia, in occasione della Convenzione sulla delimitazione della piattaforma continentale del Mare del Nord del 1969, ha ritenuto che le convenzioni di codificazione, nel processo di formazione delle norme internazionali generali, potessero avere un triplice ruolo:
- FUNZIONE DI CRISTALLIZZAZIONE
- FUNZIONE GENETICA
- FUNZIONE DICHIARATIVA
- La prima funzione si realizza quando già prima dell’accordo di codificazione si è formata una prassi rilevante che consente di affermare l’esistenza di una norma consuetudinaria. La convenzione, in questo caso, mette solo per iscritto la norma consuetudinaria e ne rende più facile l’accertamento.
- La seconda funzione si ha nel caso opposto, cioè nel momento in cui prima della convenzione non vi è alcuna norma consuetudinaria e non vi è alcuna prassi. In tal caso, la convenzione avvia il processo di formazione della norma consuetudinaria e ne inaugura la prassi.
- In questo caso, invece, la convenzione ha il compito di concludere una prassi, già avviata , ma insufficiente ad creare la norma, dando attuazione, indirettamente, alla norma consuetudinaria stessa.
Si inquadra nel tema del diritto internazionale generale anche il problema del valore delle Dichiarazioni di Principi emanate dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Si tratta di Dichiarazioni contenenti una serie di regole che talvolta riguardano i rapporti tra Stati, ma più spesso riguardano rapporti interni alle varie comunità statali, quali i rapporti dello Stato con i propri sudditi o con gli stranieri.
Bisogna anzitutto sottolineare che le Dichiarazioni di Principi non costituiscono una autonoma fonte di norme internazionali generali, poiché l’Assemblea non ha poteri legislativi mondiali (tanto che si esprime mediante raccomandazione, che ha valore di esortazione non vincolante).
Tuttavia le Dichiarazioni svolgono un ruolo assai importante ai fini dello sviluppo internazionale e al suo adeguamento alle esigenze di solidarietà e di interdipendenza.
Per quanto riguarda il diritto consuetudinario, le Dichiarazioni vengono in rilievo, ai fini della sua formazione, in quanto prassi degli Stati, in quanto somma degli atteggiamenti degli Stati che le adottano, e non come atti dell’ ONU.
Certe dichiarazioni o parti di Dichiarazioni hanno, invece, valore di veri e propri accordi internazionali: sono quelle che non solo enunciano un principio ma in modo espresso e inequivocabile ne equiparano l’inosservanza alla violazione della Carta.
Poiché l’Assemblea non ha poteri interpretativi sovrani che vincolerebbe tutti gli Stati a quella interpretazione, anche le Dichiarazioni restano delle mere raccomandazioni.
Hanno però carattere di accordo, come tali vincolano gli Stati che le abbiano approvate, e vengono considerate come accordi in forma semplificata.
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