Il trattamento degli stranieri
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Due sono i principi fondamentali in materia di trattamento degli stranieri.
- Il primo prevede che allo straniero non possano imporsi prestazioni, e più in generale non possano richiedersi comportamenti che non si giustifichino con un sufficiente “attacco” dello straniero stesso con la comunità territoriale. In altre parole, l’intensità del potere di governo sullo straniero e sui suoi beni deve essere proporzionata all’intensità dell’ ”attacco sociale”.
- Il secondo prevede il principio dell’obbligo di protezione dello straniero secondo il quale lo Stato deve predisporre misure idonee a prevenire e a reprimere le offese contro la persona o i beni dello straniero, l’idoneità essendo commisurata a quanto di solito si fa per tutti gli individui (sudditi quindi compresi) in uno Stato civile, cioè in uno Stato “il quale provveda normalmente hai bisogni di ordine e sicurezza della società sottoposta al suo controllo”. Per quanto riguarda le misure preventive esse devono essere adeguate alle circostanze relative ad ogni singolo caso concreto. Per quello che riguarda le misure repressive, occorre che lo Stato disponga di un normale apparato giurisdizionale innanzi al quale lo straniero possa var valere le proprie pretese ed ottenere giustizia. Si chiama diniego di giustizia l’eventuale illecito in questa specifica materia.
Su questi due principi si innestano le rivendicazioni dei Paesi in sviluppo aventi per oggetto la sovranità permanente sulle risorse naturali, nell’ambito degli investimenti stranieri. Non è possibile non tener conto di queste rivendicazioni, piuttosto si deve fare ogni sforzo per attuare una sintesi tra le posizioni. In particolare può farsi capo all’art. 2 lett. A e B della Carta dei diritti economici degli Stati secondo cui ogni Stato sarebbe libero di disciplinare gli investimenti “in conformità alle sue leggi e regolamenti ed alle priorità ed obiettivi nazionali di politica economica e sociale” e di adottare tutte le misure necessarie affinché tale disciplina sia rispettata in modo particolare dalle multinazionali. Una simile regola, il cui scopo è quello di evitare gli abusi, può essere considerata come l’attuale regola generale di diritto internazionale in materia di investimenti.
Nella materia del trattamento degli investimenti stranieri va inquadrato il problema della disciplina internazionalistica delle espropriazioni e delle altre misure restrittive di proprietà, diritti e interessi degli stranieri.
Il problema si è posto soprattutto con riguardo alle nazionalizzazioni nella seconda metà del secolo scorso. Attualmente la prassi delle nazionalizzazioni si va esaurendo ma il problema continua ad avere tutta la sua importanza con riguardo alle altre misure che interferiscono nel godimento dei beni degli stranieri. In realtà nessuno dubita dell’assoluta libertà dello Stato di operare espropriazioni e nazionalizzazioni dei beni stranieri, né tantomeno del fatto che il passaggio allo Stato dei beni debba essere sorretto dal motivo della pubblica utilità.
L’unica importante questione è quella che riguarda l’indennizzo che, secondo la correte di pensiero prevalente, sarebbe dovuto, alla luce del fatto che nessuno Stao si è mai schierato contro tale obbligo, che lo stesso è riconosciuto dalla Dichiarazione di principi sulla sovranità permanente sulle risorse naturali del 1962, e che la corresponsione si ricollega a quella di equa remunerazione del capitale, l’unico limite allo Stato in materia di investimenti stranieri.
In realtà molta confusione si è creata circa le modalità di pagamento e circa il quantum dovuto.
In definitiva, con riguardo all’espropriazione esso dovrebbe sempre essere: pronto, adeguato ed effettivo.
Per quanto riguarda le nazionalizzazioni esso dev’essere corrisposto onde nn produrre un indebito arricchimento a danno delle compagnie straniere espropriate, ma nel calcolarlo, si deve anche tener conto dell’indebito arricchimento derivato alle compagnie stesse dai superprofitti conseguiti per effetto dello sfruttamento delle risorse locali.
Agli stessi principi si ispira l’art 2 della Carta dei diritti e doveri economici degli Stati che, pur riconoscendo il dovere di indennizzare, prevede che lo Stato nazionalizzante determini l’indennità “sulla base delle sue leggi, dei suoi regolamenti e di ogni circostanza che esso giudichi pertinente”.
A questo stesso tema si riallaccia il problema del rispetto dei debiti pubblici contratti con gli stranieri dallo Stato predecessore (nei casi di distacco, smembramento etc…). La dottrina classica era favorevole alla successione del debito pubblico, ma il nuovo indirizzo tende a seguire i principi valevoli per la successione dei trattati: si ammette la successione per i debiti localizzabili e non per quelli generali dello Stato predecessore, salvo un accollo convenzionalmente stabilito.
Nessun limite è previsto dal diritto internazionale per quanto riguarda l’ammissione e l’espulsione degli stranieri essendo valida in pieno la norma sulla sovranità territoriale, che permette allo Stato la piena libertà di stabilire la propria politica nel campo dell’immigrazione e di ordinare a stranieri di abbandonare il proprio territorio.
Tuttavia, limiti particolari in tema di espulsione vengono dati dalle convenzioni sui diritti umani. L’art. 3 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura o altri trattamenti crudeli, disumani o degradanti del 1984 , obbliga gli Stati a non estradare o espellere una persona verso Paesi in cui questa rischia di essere sottoposta a tortura. A questo va aggiunto l’art 8 della Convenzione che prevede il rispetto della vita familiare, quando l’espulsione comporterebbe una ingiustificata e sproporzionata rottura della vita familiare.
Se lo Stato non rispetta le norme sul trattamento degli stranieri compie un illecito internazionale nei confronti dello Stato al quale lo straniero appartiene. Pertanto, lo Stato della parte maltrattata potrà esercitare la c.d. PROTEZIONE DIPLOMATICA , ossia assumere la difesa del proprio suddito sul piano internazionale: egli potrà agire con proteste, proposte di arbitrato, minacce di contromisure contro lo Stato territoriale, al fine di ottenere la cessazione della violazione ed il risarcimento del danno causato al proprio suddito.
Prima però che lo Stato agisca in protezione diplomatica occorre che lo straniero abbia esaurito tutti i rimedi previsti dall’ordinamento dello Stato territoriale, purchè adeguati ed effettivi, secondo la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni. Finchè tali rimedi esistono, e dunque lo Stato territoriale ha la possibilità di eliminare l’azione illecita o di fornire una riparazione adeguata alla straniero, le norme sul trattamento dello straniero nn possono considerarsi violate (natura sostanziale della regola). L’istituto ha oggi una posizione residuale, anche nel senso che non devono esserci altri rimedi internazionali efficaci azionabili dagli Stati stranieri stessi.
Occorre aggiungere che lo Stato che agisce in protezione diplomatica è titolare esclusivo di questo diritto. Pertanto, egli potrà in ogni momento rinunciare ad agire, sacrificare l’interesse del suddito ad altri interessi, transigere, etc…
Va ancora notato, che l’istituto di protezione diplomatica è oggetto di contestazione, limitatamente ai rapporti economici facenti capo a stranieri, da parte di Stai in sviluppo. Questi si rifanno alla dottrina Calvo, dottrina che prende il nome dall’internazionalista argentino che l’abbozzò nel secolo scorso come risposta contro la pretesa degli Stati europei di intervenire militarmente nei paesi dell’America Latina col pretesto di proteggere i propri sudditi, e secondo la quale le controversie in tema di trattamento degli stranieri sarebbero di esclusiva competenza del Tribunale locale. Ad una simile dottrina si sono sempre ispirati gli Stati latino americani, inserendo nei contratti con le imprese straniere una clausola di rinuncia di queste ultime alla protezione del proprio Stato.
Particolari limiti alla potestà di governo nell’ambito del territorio sono previsti dal diritto consuetudinario per quanto riguarda gli agenti diplomatici. Essi si concretano nel rispetto delle c.d. immunità diplomatiche che riguardano gli agenti diplomatici presso lo Stato territoriale e accompagnano l’agente nel momento in cui esso entra nel territorio dello Stato per esercitarvi le sue funzioni, sino al momento in cui ne esce.
La materia è regolata dalla Convenzione di Vienna del 1961 in vigore dal 1965 e ratificata da un numero rilevante di Stati tra cui L’Italia.
La presenza dell’agente è come quella di qualsiasi straniero, in tutto e per tutto subordinata alla volontà dello Stato territoriale, volontà che si esplica per quanto riguarda l’ammissione, attraverso il gradimento e, per quanto riguarda l’espulsione, attraverso la c.d. consegna dei passaporti e l’ingiunzione a lasciare entro un certo tempo, il Paese.
- Inviolabilità personale: L’agente diplomatico deve essere innanzitutto protetto contro le offese alla sua persona mediante particolari misure preventive e repressive. Questa inviolabilità consiste anche e soprattutto nella sottrazione del diplomatico straniero a qualsiasi misura di polizia diretta contro la sua persona.
- Inviolabilità domiciliare: intendendosi per domicilio sia la sede diplomatica sia l’abitazione privata dell’agente.
- Immunità dalla giurisdizione penale e civile: a tal proposito bisogna distinguere tra atti compiuti dal diplomatico in quanto organo dello Stato e atti da lui compiuti come privato. I primi sono coperti da quella che viene chiamata immunità funzionale: il diplomatico non può essere citato in giudizio per rispondere penalmente o civilmente degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni. Tale immunità è prevista sia per garantire all’agente diplomatico l’indisturbato esercizio della sua attività e sia dalla circostanza che simili atti non sono imputabili a lui come individuo, ma allo Stato straniero.Anche gli atti che l’agente compie come privato sono immuni dalla giurisdizione civile e penale (immunità personale), salvo, per quel che riguarda la giurisdizione civile, le azioni reali e successorie o quelle riguardanti attività commerciali dell’agente. Tuttavia, una volta che la sua qualità di agente sia venuta meno, egli potrà essere sottoposto a giudizio anche per gli atti compiuti quando egli rivestiva la carica.
- Immunità fiscale: sussiste esclusivamente per le imposte dirette personali
Tali immunità però, spettano anche:
- Ai capi missione
- A tutto il personale diplomatico delle missioni
- Alle famiglie degli agenti e di coloro che fanno parte del personale
- Ai capi di Stato
- Ai Capi di Governo
- Ai Ministri degli Esteri
Il trattamento degli Stati stranieri
Il principio più classico e conosciuto è quello della “non ingerenza negli affari di altri Stati”, ma la cui vera portata non è altrettanto precisata e circoscritta. In realtà il principio è venuto via via perdendo la sua sfera di autonoma sfera di applicazione con l’affermarsi di altre e più importanti regole generali che ne hanno assorbito il contenuto. La più importante è quella costituita dal divieto di minaccia o di uso della forza, ma vengono in rilievo anche gli interventi dello Stato diretti a condizionare le scelte di politica interna e internazionale di un altro Stato (si pensi alle misure di carattere economico). Anche se è difficile indicare quando tali interventi si verificano, in linea di principio si può affermare che esse devono considerarsi come vietate qualora siano contemporaneamente e sistematicamente prese, ed inoltre abbiano come unico scopo quello di influire sulle scelte dello Stato straniero e non siano cioè dirette a reagire contro comportamenti illeciti.
E’ opportuno precisare che nel principio di non ingerenza non rientrano le manifestazioni di condanna o di critica del sistema politico o del regime economico e sociale di uno Stato straniero, fatta eccezione chiaramente per quegli atti politici di propaganda sovversiva e terroristica.
Un problema interessante in tema di trattamento degli Stati stranieri è se questi siano assoggettabili alla giurisdizione civile dello Stato territoriale.
Il Diritto Internazionale classico era favorevole alla cosiddetta immunità assoluta degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile secondo il principio “par in parem non habet iudicium”.
Oggi, grazie alla giurisprudenza italiana e belga si è verificata un’inversione di tendenza verso quella che si è chiamata “immunità ristretta o relativa”.
Secondo tale teoria l’esenzione degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile è limitata agli atti jure imperii (quelli mediante i quali si esplica la funziona pubblica dello Stato) mentre per gli atti jure privatorum (cioè a carattere privatistico) non sussisterebbe.
La distinzione tra questi atti non è sempre di facile applicazione. Il diritto consuetudinario lascia un ampio spazio all’interprete e in particolare al giudice interno. Inoltre si può sostenere che in caso di dubbio debba sempre concludersi a favore dell’immunità.
Uno dei campi in cui tale distinzione rileva maggiormente è quello relativo alle controversie di lavoro in particolare riferimento al lavoro presso ambasciate ecc. dove è piuttosto difficoltoso stabilire quali aspetti del rapporto di lavoro stesso debbano essere considerati per classificarli come pubblicistici o privatistici ai fini dell’immunità.
Secondo la Convenzione europea sull’immunità degli Stati se il lavoratore ha la nazionalità dello Stato straniero che lo recluta, l’immunità sussiste in ogni caso; se il lavoratore ha la nazionalità dello Stato territoriale, o quivi risieda abitualmente pur essendo cittadino di terzo Stato, e il lavoro deve essere prestato nel territorio, l’immunità è esclusa.
Il trattamento delle organizzazioni internazionali
Per quanto riguarda il trattamento dei funzionari delle organizzazioni internazionali non esistono norme consuetudinarie che impongano agli Stati di concedere loro particolari immunità, e tanto meno le immunità diplomatiche; sicché solo mediante convenzione lo Stato può essere obbligato in tal senso.
Lo Stato nel cui territorio opera ufficialmente un funzionario internazionale che non abbia la sua nazionalità, è tenuto a proteggerlo con le misure preventive e repressive previste dalle norme consuetudinarie sul trattamento degli stranieri.
Ci si chiede poi se sussista un obbligo di protezione anche nei confronti dell’organizzazione internazionale cui il funzionario appartiene.
Allo stato attuale la risposta è affermativa, ma tale protezione può riguardare solo il risarcimento dei danni causati all’organizzazione in quanto tale e non di quelli recati all’individuo.
Inoltre, nei limiti in cui gli Stati stranieri sono immuni dalla giurisdizione civile dello Stato territoriale, lo sono anche le Organizzazioni internazionali. L’immunità delle organizzazioni dalla giurisdizione può anche essere prevista da una norma consuetudinaria essendo tante le sentenze che l’hanno ammessa.
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