Ricorso alla guerra
Il ricorso alla guerra nel diritto internazionale, tra il divieto all’uso della forza ed il diritto alla legittima difesa

da | 23 Apr 2004 | Diritto pubblico privato ed internazionale | 0 commenti

Sommario

Norme consuetudinarie e Carta delle Nazioni Unite

All’opposto di quanto accade nel diritto interno, nel diritto internazionale le norme consuetudinarie si situano al vertice della gerarchia delle fonti, e pertanto su di esse si fondano tutte le altre norme: i trattati e le altre fonti previste dagli accordi.

Tuttavia, data la particolare natura di fonte non scritta derivante dalla prassi, le norme consuetudinarie possono essere derogate per mutuo consenso dagli stati che sottoscrivano un trattato (fermo restando che la deroga riguarderebbe solo gli stati contraenti).

Non può invece essere derogato dai trattati il cosiddetto jus cogens o diritto cogente, formato da quelle consuetudini e quei principi non scritti riconosciuti dalla comunità internazionale nel suo insieme come facenti parte del “diritto naturale” degli stati, che potrebbero essere modificati soltanto da altre norme successive unanimemente riconosciute, quindi aventi lo stesso carattere di generalità.

Ad esempio fanno parte del diritto cogente l’obbligo pacta sunt servanda o il principio “no fruits of aggression”, che vieta l’acquisizione di territori derivante da atti di aggressione.

Anche il diritto alla legittima difesa è considerato come un diritto naturale inerente agli stati, “causa di giustificazione di atti normalmente illeciti” e di uso della forza.

Nel diritto consuetudinario, le condizioni che autorizzano all’uso della forza per legittima difesa sono lasciate alla libera valutazione degli stati, dato il preminente diritto di sovranità ad essi riconosciuto. Nella prassi si può ricorrere alla forza in seguito ad un attacco armato in atto, ma anche in caso di gravi minacce (perché considerato irragionevole non difendersi dai prevedibili danni di un attacco imminente) o di attacco indiretto (portato avanti dando assistenza a gruppi armati o concedendo basi e spazio aereo per le operazioni di guerra).

I requisiti fondamentali che caratterizzano la legittima difesa, sono gli stessi previsti dal diritto penale interno [1], cioè la necessità di difendersi da un pericolo immediato (per evitare danni ulteriori e ripristinare la sicurezza dello stato), e la proporzionalità al danno subito (per rimanere nell’ambito della legittima difesa, lo Stato aggredito deve limitare l’uso della forza, in modo tale da non oltrepassare quel limite che lo renderebbe a sua volta aggressore).

[1] L’articolo 52 del codice penale italiano prevede che “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui, contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa subita”.

Requisiti che nella consuetudine internazionale valgono a distinguere la legittima difesa dalla rappresaglia, altra forma di autotutela implicante la forza, dove lo scopo punitivo prevale su quello difensivo e quindi alla necessità, immediatezza e proporzionalità si sostituiscono la premeditazione dell’attacco e la volontà di mettere lo Stato aggressore in condizioni di non pericolosità.

Dopo la prima guerra mondiale si pose con tragica evidenza il problema di predisporre un regolamento universale che delimitasse più chiaramente le possibilità di ricorrere all’uso della forza, e a questo scopo furono siglati diversi trattati, tra cui il Patto della Società delle Nazioni, noto per la sua portata innovativa, ma anche per la mancata ratifica da parte dello stesso stato promotore, gli Stati Uniti, e per il fallimento cui andò incontro.

La svolta decisiva nel divieto di ricorrere alla forza si ebbe soltanto con la Carta delle Nazioni Unite, dopo la seconda guerra mondiale, nel cui Preambolo si enuncia con decisione che lo scopo dell’organizzazione è “preservare le generazioni future dal flagello della guerra”.

Con l’adozione e la successiva ratifica della Carta da parte della quasi totalità degli Stati del mondo il divieto all’uso della forza (espresso all’art.2 [2]) diventa norma di portata generale. Con essa gli stati per mutuo consenso rinunciano a una delle prerogative più importanti della propria sovranità (ossia la possibilità di valutare autonomamente le situazioni che richiedono un intervento armato), in favore di organi internazionali deputati a intervenire per risolvere i conflitti, e la violazione dell’art.2 costituisce un crimine, non soltanto nei confronti del paese che ne subisce direttamente gli effetti, ma della comunità internazionale nel suo complesso.

[2] I Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite”.

Poiché però l’accordo raggiunto alla Conferenza di Yalta, prevedendo il diritto di veto per ciascuna delle cinque potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, lasciava aperta la possibilità di un blocco del Consiglio di sicurezza col risultato di non garantire più del tutto la sicurezza degli Stati di fronte ad un attacco armato, durante i lavori preparatori della Carta si ritenne necessario introdurre una clausola espressa che autorizzasse in via eccezionale un’azione autonoma a difesa dei propri interessi : il diritto di legittima difesa [3].

[3] Articolo 51: “Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese da Membri nell’esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere e il compito spettanti, secondo il presente Statuto, al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quell’azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale.

La condizione espressa dalla Carta per considerare legittima l’eccezione al divieto dell’uso della forza è l’esistenza di attacco armato, e la giurisprudenza della Corte di Giustizia (organo cui spetta l’interpretazione del diritto internazionale per applicarlo alla risoluzione delle controversie) ha più volte confermato un’interpretazione non estensiva dell’art.51, escludendo che una sola minaccia o un attacco indiretto siano elementi sufficienti a giustificare una reazione lecita.

Tale difesa può anche essere collettiva, qualora lo Stato attaccato abbia contratto accordi difensivi con altri Paesi ed abbia quindi espresso il proprio consenso all’intervento altrui.

Si dovrebbe comunque trattare, in ogni caso, di misure provvisorie, finalizzate esclusivamente a fare in modo che lo Stato possa tutelarsi, in attesa di un intervento del Consiglio di Sicurezza, a norma degli articoli 40, 41 e 42 della Carta.

Il divieto all’uso della forza con l’eccezione della legittima difesa, in seguito alla ratifica da parte di tutti gli Stati del mondo, sono divenute norme di carattere generale capaci di innovare al precedente diritto consuetudinario cogente, e pertanto sono da ritenersi sovraordinate gerarchicamente ad ogni norma precedente (o anche successiva, che non abbia la stessa portata generale), come infatti disposto dall’art. 103 della Carta (secondo il quale gli obblighi contratti dagli Stati membri con la sottoscrizione dello Statuto prevalgono su qualsiasi altro accordo internazionale) e come confermato in modo esplicito dal Trattato Istitutivo della Comunità Europea e dal Trattato della NATO [4].

[4] Art.7 trattato Nato: “Il presente Trattato non pregiudica e non dovrà essere considerato come pregiudicante in alcun modo i diritti e gli obblighi derivanti dallo Statuto alle parti che sono membri dell’ONU, o la competenza primaria del Consiglio di Sicurezza per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali”.

Il Trattato Istitutivo della Comunità Europea enuncia che “è obiettivo della Comunità sviluppare la prosperità degli Stati membri, conformemente ai principi dello Statuto delle Nazioni Unite”.

Diventata illecita la guerra, con l’unica eccezione della legittima difesa contro un attacco armato, i vari interventi svoltisi negli ultimi anni al di fuori del sistema ONU sono da considerarsi violazioni del diritto internazionale. Tuttavia, tutti gli stati della Comunità internazionale continuano a dichiararsi vincolati dalla Carta delle Nazioni Unite, non emergendo mai una esplicita volontà di porsi al di fuori dell’Organizzazione e del sistema di sicurezza internazionale da essa previsto. Così, per legittimare le ultime guerre, parte della dottrina ha proposto delle interpretazioni estensive o innovative dell’art. 51 sulla legittima difesa.

Gli interventi dell’ultimo decennio

Soltanto la prima Guerra del Golfo del 1991 può considerarsi legittima, poiché una risoluzione del Consiglio di sicurezza autorizzava esplicitamente una coalizione di stati ad intervenire, in presenza della condizione tipica prevista dalla Carta per l’intervento, ossia l’atto di aggressione dell’Iraq nei confronti del Kuwait (anche se la modalità adottata dell’autorizzazione agli stati invece dell’intervento diretto del Consiglio, in mancanza di un esercito proprio dell’ONU mai realizzato, rende permanente una norma in origine concepita come transitoria).

La guerra del Kossovo del 1999, in mancanza di un’autorizzazione del Consiglio di sicurezza per l’opposizione esplicita di Russia e Cina che sostenevano la non ingerenza negli affari interni allo stato serbo, è stata giustificata dall’alleanza NATO come una sorta di azione di “legittima difesa umanitaria”, che giustificherebbe interventi all’interno degli stessi confini degli Stati a difesa dei diritti umani. Interpretazione innovativa dell’art. 51 non avallata dalla Corte di giustizia (chiamata in causa dalla Repubblica Federale di Jugoslavia il mese successivo all’inizio dell’attacco militare), che pur sottolineando la grave violazione dei diritti dell’uomo, dichiarava che l’azione militare condotta dalla NATO era da considerare illegittima in base alle disposizioni vigenti.

La guerra contro l’Afghanistan è stata giustificata dagli USA e dai loro alleati, sulla base della prima risoluzione del Consiglio di sicurezza (adottata il 12 settembre), la quale conteneva nel preambolo un generale riconoscimento del diritto all’autodifesa contro gli atti terroristici, ma poi proseguiva senza far cenno ad interventi militari, richiamando la necessità di una cooperazione internazionale per la piena attuazione della Convenzione contro il terrorismo approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1999, sottolineando la necessità di accertare le responsabilità di coloro che avessero aiutato, sostenuto od offerto asilo ai colpevoli e dichiarando infine la propria disponibilità a combattere il terrorismo facendo tutti i passi necessari. La successiva risoluzione del 28 settembre chiedeva agli Stati di adoperarsi per impedire il finanziamento delle organizzazioni terroristiche e per metterle in condizione di non nuocere, mediante la promozione di giudizi penali, indagini giudiziarie e l’intensificazione della collaborazione delle attività di polizia.

L’esercizio della legittima difesa verrebbe pertanto ad essere escluso dal pronto intervento del Consiglio di sicurezza che già dal giorno successivo si occupava della questione, indicando direttive di azione completamente diverse dalla forza militare. Anzi, in risposta all’ultimatum degli Stati Uniti, i talebani avevano proposto la consegna di Bin Laden a uno Stato neutrale, dove avrebbe potuto essere giudicato da un tribunale imparziale, proposta che sviluppava una linea già indicata nelle risoluzioni del Consiglio di sicurezza, e che gli Stati Uniti avrebbero dovuto accettare in forza del principio di soluzione pacifica delle controversie.

Per ciò che riguarda l’ultimo intervento in Iraq, il governo degli Stati Uniti ha sostenuto che il fondamento dell’intervento militare in Iraq sta nella risoluzione 1441 del Consiglio di sicurezza, che qualificava come “minaccia alla pace” l’inadempimento iracheno dei propri doveri in materia di disarmo imposti da alcune risoluzioni precedenti. Di fronte a tale minaccia, tuttavia, il Consiglio di sicurezza istituiva un regime di controllo internazionale per verificare il rispetto di tali obblighi e dichiarava che ulteriori violazioni o mancate cooperazioni con il personale ispettivo designato dall’ONU sarebbero state riportate al Consiglio di sicurezza, rimandando quindi ad una delibera successiva l’eventuale decisione di impiegare la forza. Di fronte alla minaccia alla pace, invece, il governo degli USA ha formulato la dottrina c.d. della “guerra preventiva”, riservandosi il diritto di esercitare unilateralmente la forza per legittima difesa nei confronti di tutti gli Stati sospettati di possedere armi di distruzione di massa, ancora una volta con un’interpretazione innovativa dell’art. 51.

La crisi del sistema di sicurezza collettiva

Da tutto questo emerge con evidenza la crisi del sistema di sicurezza collettiva, la cui incapacità ad assolvere alla propria funzione di regolazione dei conflitti costringerebbe gli stati a invocare ripetutamente il diritto alla legittima difesa, così che ciò che era previsto come un’ eccezione dalla Carta stessa sarebbe ora diventata la regola.

E’ evidente tuttavia che il diritto alla legittima difesa viene proclamato non soltanto per far fronte ad un blocco del Consiglio di sicurezza dovuto a un veto unilaterale (possibilità che in origine aveva portato gli estensori della Carta ad introdurre il rimedio dell’azione unilaterale), ma come rimedio generale utilizzabile ogni qualvolta la Comunità Internazionale non condivida la necessità di un attacco armato.

Così facendo si reintroduce dalla finestra ciò che era stato messo fuori dalla porta con l’adozione della Carta delle Nazioni Unite, e cioè la pretesa di una unilaterale valutazione sulla necessità di ricorrere a un attacco armato, con un ritorno al precedente diritto consuetudinario e la preminenza del diritto di sovranità sul divieto all’uso della forza.

Risulta chiaramente la necessità di una riforma del Consiglio di sicurezza, sia perché la sua composizione non rispecchia più i rapporti di forza attualmente esistenti nella realtà internazionale, sia perché il diritto di veto può rappresentare un ostacolo all’adozione di decisioni largamente condivise. Tale questione è ormai da anni all’ordine del giorno dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che ha costituito un gruppo di lavoro per esaminare le varie proposte sul tema.

Tuttavia sembra chiaro che l’inadeguatezza del Consiglio di sicurezza non rappresenta l’unico problema. La capacità dell’ordinamento giuridico internazionale di assolvere efficacemente alla propria funzione di regolazione dei conflitti dipende da molti fattori.

Un importante ostacolo è rappresentato dal fatto che le Nazioni Unite non dispongono di un esercito proprio, con la conseguenza che per le importanti operazioni di “peace keeping” [5] si utilizza personale militare messo a disposizione dai Governi (che mantengono il comando delle truppe), spesso dopo molti mesi dalla richiesta e in misura molto inferiore al necessario.

[5] Operazioni di mantenimento della pace, che possono essere deliberate dal Consiglio di sicurezza, ai sensi del Cap. VI della Carta, di notevole importanza perché valgono a “prevenire” l’inasprimento dei conflitti, e hanno un costo minimo a confronto con i costi di un conflitto, in termini di vite umane e di proprietà.

In definitiva il fattore fondamentale da cui dipende la capacità dell’ordinamento internazionale di svolgere le sue funzioni è il grado di adesione alle sue regole da parte dei Governi del mondo.

Non tutto dipende dal Consiglio di sicurezza, una funzione importante può essere svolta anche dall’Assemblea generale e dalla Corte di Giustizia.

Infatti ai sensi dell’art. 96 della Carta l’Assemblea ha la facoltà di rivolgersi alla Corte Internazionale di Giustizia per chiedere un “parere consultivo” su qualunque questione giuridica, e la pronunzia della Corte ha valore definitivo perché essa rappresenta la bocca del diritto internazionale, dice cosa è legale e cosa è illegale nell’ordinamento internazionale. Se è vero che essa non ha potere sanzionatorio in grado di garantire il rispetto del diritto, è anche vero che può fare da punto di riferimento per orientare l’opinione pubblica internazionale e attraverso di essa i Governi del mondo.

Un’ultima osservazione, che meriterebbe un capitolo a parte, riguarda l’osservanza delle regole del diritto internazionale umanitario, innanzitutto delle 4 Convenzioni firmate a Ginevra nel 1949, riconosciute quali norme di diritto cogente a carattere universale, dato il processo di ratifica ormai generalizzato. Queste regole si applicano a tutte le parti di un conflitto indipendentemente dalle cause e dalle specifiche responsabilità degli stati coinvolti, e consistono principalmente nel rispettare il principio di proporzionalità nell’uso della forza, limitare il numero di vittime civili e garantire un trattamento umano per i prigionieri e i feriti. Nella problematica riferita, qualunque sia il carattere lecito o illegittimo di un attacco armato, resta aperta la questione della evidente violazione di ogni canone di proporzionalità, dell’altissimo numero di vittime civili, del ricorso ad armi ad effetti letali indiscriminati e del trattamento disumano dei prigionieri presso tutte le parti coinvolte.

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