Corso di Economia Politica
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da | 8 Mag 2008 | Economia politica | 14 commenti

Teoria Keynesiana domanda aggregata

MACROECONOMIA (lezione n. 11)

In questa lezione parleremo di quella che ha costituito per tanti anni (e costituisce ancora) la fondamentale teoria di riferimento per gran parte degli economisti e per qualsiasi Politica Economica (PE): la domanda aggregata di Keynes

 

Introduzione storica

Per comprendere la teoria economica di Keynes, che per molti anni è stata l’unica verità in campo economico, dobbiamo riferirla al momento storico (gli anni ’30) in cui è nata.

Prima di allora la visione economia dominante era quella classica. Essa era imperniata su questi punti salienti:

  • il mercato lasciato a se stesso raggiunge da solo l’equilibrio, grazie all’operare delle forze economiche della domanda e offerta, e quest’equilibrio è sempre di pieno impiego (si parlava addirittura, come diceva Adam Smith, di una “mano invisibile”, in grado di indirizzare il mercato verso la piena occupazione)
  • le forze di mercato, libere di agire senza ostacoli, realizzano sempre l’efficiente allocazione delle risorse
  • lo Stato non deve mai intervenire nel sistema con manovre di politica economica (PE), perché queste costituiscono un ostacolo alla libera azione delle forze di mercato e, quindi, non permettono il raggiungimento della piena occupazione e dell’efficienza produttiva

Questa visione (diremo quasi “filosofia”) dell’economia fu messa fortemente in discussione in seguito alla grave crisi del ’29. In quei terribili anni gli economisti si resero conto dell’impossibilità da parte del mercato di raggiungere da solo il pieno impiego. Infatti, la profonda crisi nei consumi, che caratterizzò quel periodo, portò alla fame una gran parte della popolazione e questo succedeva perché la produzione era ben lontana dal pieno impiego.

E’ in questa situazione economica che nasce (nel 1936) la teoria economica di J.M. Keynes, destinata a durare (sia pure con varie rielaborazioni, ad opera dei cosiddetti post-keynesiani) fino agli anni ’70. I punti nevralgici delle osservazioni di Keynes erano i seguenti:

  • la profonda crisi economica del ’29 era dovuta ad un’insufficienza di domanda, da parte dei consumatori per i beni di consumo e da parte delle imprese per i beni di investimento. Era, secondo Keynes, il basso livello della spesa per consumi ed investimenti (delle imprese) ad aver causato la crisi e l’allontanamento del sistema dalla piena occupazione
  • era evidente la necessità di un intervento statale per uscire dalla crisi e per evitarla in futuro. Una manovra pubblica di PE che rialimentasse la domanda di consumo, sia quella dei consumatori, sia quella delle imprese (per i beni d’investimento)
  • questa PE poteva realizzarsi sia in termini di PM (pol. Monetaria), sia in termini di PF (pol. Fiscale). Secondo Keynes la manovra migliore è quella di PF e in particolare la sua attenzione si concentrava sulla politica di spesa pubblica (cioè l’aumento delle spese dello Stato nel sistema economico, per la costruzione di opere pubbliche, per offrire ai cittadini maggiori servizi d’istruzione, di difesa, di assistenza sanitaria, ecc…)
  • l’aumento della spesa pubblica in economia era per Keynes la manovra di PE più efficiente, ai fini del ritorno alla piena occupazione, perché la spesa pubblica costituisce essa stessa una domanda di consumo (proveniente dall’apparato pubblico, e non dai cittadini o dalle imprese)
  • attraverso la spesa pubblica in economia, lo Stato può aumentare la domanda (aggregata) di beni e la conseguente ripresa dei consumi porta il sistema verso il pieno impiego e lontano dalla crisi da insufficienza di domanda

 

La domanda aggregata di Keynes

Vediamo adesso questa teoria che tanto ha rivoluzionato l’economia politica, rispetto alle credenze economiche precedenti.

Innanzitutto dobbiamo definire la domanda aggregata di beni.

La domanda o spesa aggregata di Keynes è la spesa totale effettuata in un sistema economico. E’ questa domanda aggregata che determina la produzione o reddito (PIL) di un paese.

La domanda aggregata si compone di (proviene da) 4 componenti:

  1. i consumatori, che spendono in beni di consumo (chiameremo C questa componente)
  2. le imprese, che domandano beni di investimento (gli investimenti domandati dalle imprese li definiamo con la I)
  3. lo Stato ed in genere la pubblica amm.zione, che attraverso la spesa pubblica crea domanda di beni nel sistema economico (la parte di spesa nel mercato proveniente dall’apparato pubbl. la identifichiamo con G)
  4. le esportazioni nette, cioè la differenza algebrica fra esportazioni ed importazioni, che creano domanda, proveniente dall’estero, se la differenza è positiva, o la diminuiscono, se negativa (questa componente di spesa, esterna al sistema economico, la chiamiamo NX)

Ignoreremo nella ns. trattazione, per semplicità, quest’ultima componente della domanda aggregata, ma ci riserviamo di ritornare sull’argomento nell’ultima lezione di questo corso, prima del riepilogo sinottico, laddove parleremo di un sistema economico aperto.

In formula, quanto detto finora sarà:

Spesa (o domanda) aggregata = C + I + G + NX

Siccome la spesa totale in beni e servizi non è altro che il reddito (PIL) di una nazione avremo anche:

PIL = C + I + G + NX

Oppure, per semplicità, come abbiamo detto:

PIL = C + I + G

 

La funzione di consumo C

Graficamente la funzione di consumo, corrispondente alla componente C vista sopra, può essere rappresentata in questo modo:

 lez11-1 

Il grafico della spesa delle famiglie di consumatori si spiega con pochi punti:

  • c’è una spesa iniziale autonoma (l’intercetta sull’asse delle ordinate), che configura un consumo di sussistenza, il quale non risente di altre variabili, perché rappresenta la domanda di beni che comunque si rivolge al mercato
  • la domanda di consumo dei cittadini è direttamente proporzionale al reddito (cioè cresce al crescere del reddito), perché all’aumentare della ricchezza nazionale è verosimile ipotizzare che cresce anche il tenore di vita e quindi, di conseguenza, crescono le necessità dei membri della collettività
  • l’inclinazione della funzione di consumo, cioè il tasso di crescita del consumo rispetto alla crescita del reddito, è rappresentata dalla propensione marginale al consumo (PMC). La PMC è un valore compreso tra 0 e 1, che ci dice quanta parte di 1 euro di reddito disponibile è destinata al consumo. Per es. una PMC di 0.30 significa che per ogni 100 euro di reddito, 30 euro sono consumati in spese per beni di consumo e 70 euro sono risparmiati

Per cui                                    PMC = variaz. del consumo / variaz. del reddito

E, di conseguenza      incremento del consumo = incremento del reddito X PMC

 

La funzione di investimento I

La domanda di investimenti proviene dalle imprese.

Graficamente la funzione di investimento è disegnabile come quella di consumo, appena vista. E’, infatti, verosimile ipotizzare che anche gli investimenti delle imprese sono direttamente proporzionali al reddito, perché maggiore è il reddito e maggiori sono gli investimenti che le imprese intendono realizzare. Quindi, anche la curva degli investimenti sarà crescente, come quella dei consumi.

Ma nel caso degli investimenti non è importante la relazione di (I) con il reddito (tant’è vero che per semplicità possiamo considerare, nel proseguo della trattazione, la curva di I costante e dunque orizzontale), bensì la relazione degli investimenti (I) con il mercato della moneta.

Come abbiamo visto nella lezione precedente, gli investimenti sono in stretta relazione con il tasso d’interesse (in particolare sono in relazione inversa) e quest’ultimo è determinato dal mercato della moneta. Inoltre, ricordiamo, che l’offerta di moneta è decisa dalla Banca Centrale.

Ecco dunque che gli investimenti costituiscono l’anello di trasmissione della PM della Banca Centrale al sistema. Attraverso le operazioni di mercato aperto e la conseguente maggiore o minore offerta di moneta, la Banca d’Italia (o, adesso, quella europea) riesce a spostare la curva degli investimenti e, quindi, ad aumentare o ridurre la domanda aggregata (di cui I è una componente).

In particolare, la BC aumenta l’offerta di moneta (mediante il processo del moltiplicatore monetario) quando vuole aumentare la domanda aggregata ed il PIL (perché la curva di I si alza nel grafico), mentre diminuisce l’offerta di moneta quando vuole diminuire la domanda aggregata ed il PIL (perché la curva di I si abbassa nel grafico).

La PM dunque, nella costruzione keynesiana, agisce sul reddito d’equilibrio tramite gli investimenti delle imprese, che risentono di tutto il processo d’aggiustamento del mercato monetario, avviato da una variazione iniziale di base monetaria.

 

Reddito d’equilibrio

Dopo aver visto come è formata la domanda aggregata (da C + I + G), andiamo a studiare l’equilibrio keynesiano del reddito. Per adesso, semplifichiamo l’analisi non considerando la spesa pubblica G.

Nella teoria keynesiana è la domanda aggregata che determina il reddito e la produzione.

La condizione d’equilibrio sul mercato dei beni è, quindi, semplicemente espressa dall’equazione:

Reddito = Domanda aggregata

Il grafico che esprime l’equilibrio è il seguente, dove la domanda aggregata è formata dalla somma dei consumi delle famiglie e degli investimenti delle imprese (C + I):

lez11-2
 

In figura, il punto E è quello che indica l’uguaglianza fra domanda aggregata e reddito. Infatti, per evidenziare quest’uguaglianza è stata tirata una bisettrice dell’angolo d’origine degli assi. La bisettrice ha la particolarità di dividere l’angolo in 2 parti uguali (di 45 gradi), per cui tutti i punti su di essa hanno la caratteristica di essere equidistanti dai due assi e quindi di esprimere la stessa grandezza per le 2 variabili (reddito e domanda aggregata) che gli assi stessi misurano.

Con questa doverosa precisazione, possiamo capire perché il punto E, d’intersezione della domanda aggregata con la bisettrice, rappresenta il punto che esprime l’uguaglianza fra dom. aggregata e reddito e, di conseguenza, l’equilibrio stabile del mercato dei beni.

La quantità Q* configura il valore della produzione o reddito nazionale (PIL) d’equilibrio, mentre la quantità Qp indica la produzione di pieno impiego dei fattori produttivi.

Evidenziamo le conclusioni che si traggono da quest’impostazione di Keynes:

  • Il mercato dei beni tende ad E, e quindi al valore della produzione Q*, perché se la produzione fosse più bassa di Q* (perciò per valori a sinistra di Q*), ci sarebbe un “eccesso di domanda” (la dom. aggregata sarebbe più alta della bisettrice che esprime la produzione reale di beni), per cui i produttori avrebbero convenienza ad incrementare la produzione, fino ad arrivare a Q*. Se, invece, la produzione fosse più alta di Q* (perciò per valori a destra di Q*), ci sarebbe un “eccesso d’offerta” (la dom. aggregata sarebbe più bassa della bisettrice), per cui i produttori sarebbero costretti a ridurre la produzione, fino ad arrivare a Q*. Conclusione: la quantità Q* è l’unica grandezza del reddito reale in grado di assicurare un equilibrio stabile, perché esistono forze che tendono a ristabilire l’uguaglianza fra dom. aggregata e produzione, ogni qualvolta il sistema se ne allontana
  • L’equilibrio economico (sul mercato dei beni) di Keynes non è necessariamente un equilibrio di piena occupazione, come invece dicevano gli economisti classici. Ciò è dimostrato dal fatto che Q* è inferiore (anche di molto) a Qp, che è il reddito di pieno impiego
  • Il punto precedente evidenzia la necessità, da parte dello Stato, di intervenire in economia quando si presentano situazioni con equilibri di sottoccupazione, come quella descritta dal grafico. L’intervento dei pubblici poteri può avvenire tramite la PM, la quale, mediante la regolazione dell’offerta di moneta (così come abbiamo visto nella lezione precedente), varia la quantità di investimenti (I) e, quindi, sposta la domanda aggregata, di cui gli investimenti sono una componente (C + I). Secondo Keynes, tuttavia, il necessario intervento in economia dello Stato, si deve attuare attraverso politiche fiscali di spesa pubblica, perché esse sono maggiormente efficaci per variare la domanda aggregata. Infatti, la spesa pubblica G è essa stessa parte della domanda aggregata, per cui aumentando G, la domanda aggregata si alza direttamente nel grafico e ciò determina un maggior livello della produzione d’equilibrio, più vicino a quello di piena occupazione, o, meglio ancora, coincidente con esso
  • Un’ultima considerazione. Nella costruzione keynesiana, i prezzi e l’inflazione sono quasi del tutto ignorati. Questo perché nel periodo in cui la teoria keynesiana è stata elaborata, non era sicuramente l’inflazione il problema contingente, bensì quello opposto della profonda recessione da insufficienza di domanda aggregata. Keynes considera i prezzi ed il problema del loro aumento, solamente in un caso, quello nel quale l’equilibrio del sistema si forma al di là del livello di pieno impiego della produzione. In questa situazione, la maggiore domanda rispetto alla produzione reale di beni, non potendo essere soddisfatta da un aumento della produzione (che ha raggiunto il top), si riversa sui prezzi, determinando una loro crescita indiscriminata. Quindi, per Keynes, l’inflazione è giustificata solo nelle situazioni di pieno impiego, quando l’eccessiva domanda, non potendo aumentare le quantità dei beni prodotti (che sono al massimo), aumenta i prezzi dei beni stessi

 

La spesa pubblica G ed il moltiplicatore del reddito

Abbiamo detto che, secondo Keynes, l’intervento dello Stato nel mercato, deve avvenire preferibilmente con manovre di spesa pubblica.

Questo è chiaro se osserviamo il grafico e ricordiamo che la domanda aggregata è la somma C + I + G.

 lez11-3 

L’introduzione delle spese operate dalla pubblica amm.zione (per la difesa, per l’istruzione, per la salute, per le infrastrutture, ecc…), comporta una elevazione della domanda aggregata e quindi della produzione d’equilibrio.

Perciò, la PF di spesa pubblica è utile quando il governo intende far uscire il sistema economico da recessioni e, comunque, da situazioni di sottoccupazione o disoccupazione dei fattori produttivi (più in particolare, dei lavoratori).

Quello che però è interessante notare è che l’aumento di produzione conseguente ad un incremento di spesa pubblica, è maggiore dell’aumento iniziale di G. Questo perché l’aumento del reddito, conseguenza dell’incremento di G, porta all’aumento anche dei consumi C, i quali hanno una relazione direttamente proporzionale con il reddito (la funzione C è crescente al reddito). Ne consegue che l’effetto dell’aumento di G è maggiore della quantità di G aumentata, perché c’è anche l’effetto reddito sui consumi e dunque la domanda aggregata cresce sia per l’aumento iniziale di G, che per l’aumento di C.

Questo processo di espansione del reddito, molto al di là dell’incremento della spesa pubblica G, è noto come moltiplicatore del reddito.

Quindi, la PF del governo è maggiormente efficace per combattere situazioni di recessione, soprattutto quando riguardano la forza lavoro disoccupata.

Volendo dare una grandezza numerica al moltiplicatore del reddito:

Moltiplicatore = 1 / (1 – PMC)

dove PMC è la propensione marginale al consumo, cioè quanta parte di 1 euro è destinata al consumo di beni.

Di conseguenza, l’effetto sul reddito del moltiplicatore, in risposta ad una variazione della spesa pubblica è:

Incremento del reddito = incremento di G X Moltiplicatore

Per es., se PMC=0,30 e la spesa pubbl. G aumenta di 10 milioni, il reddito aumenterà di ca. 14,285 milioni.

E’ appena il caso di notare che la politica di spesa pubbl. G può essere utilizzata anche in direzione opposta, per raffreddare l’economia (in genere per la troppa euforia sui prezzi di mercato) e diminuire il reddito d’equilibrio. In questo caso il moltiplicatore del reddito aumenterà l’effetto recessivo della manovra di PF.

Se ipotizziamo, nel sistema economico, una tassazione proporzionale al reddito (in realtà non è così, perché in Italia la tassazione è progressiva al reddito), il moltiplicatore del reddito si modifica in questo modo:

Moltiplicatore = 1 / [1 – PMC(1 – t)]

dove t è l’aliquota delle imposte.

Il moltiplicatore che tiene conto della tassazione sul reddito dei cittadini è meno grande e quindi meno efficace (ciò perché una parte del reddito dei consumatori va nelle casse dello Stato, come imposte sul reddito, e non può quindi essere consumata), ma ha il vantaggio di attribuire allo Stato la possibilità di agire anche sul livello di tassazione per modificare il reddito d’equilibrio. Infatti, modificando t nell’espressione di cui sopra, è possibile utilizzare il moltiplicatore per misurare il conseguente aumento (o diminuzione) della produzione.

Pertanto, la PF del governo può essere attuata sia sul lato delle entrate, modificando la tassazione (t), sia sul lato della spesa, modificando il livello di spesa pubblica (G). Entrambe le manovre hanno efficacia sul reddito e sulla produzione, ma devono fare i conti con il disavanzo o deficit dello Stato. Il deficit pubblico è la differenza fra entrate e spese e questa differenza, negli stati moderni, è generalmente negativa, dando origine appunto ad un disavanzo. Il disavanzo pesa sui cittadini, perché è finanziato con l’emissione di titoli pubblici (BOT, BPT, ecc…), che vanno ad incrementare il debito pubblico. Il debito pubblico a sua volta aggrava il disavanzo, per la parte relativa agli interessi che lo Stato deve pagare sui titoli emessi. Ecco quindi che nella scelta della PF da attuare per sostenere l’economia (variazione delle aliquote fiscali o del livello di spesa pubblica), lo Stato non è libero di decidere, ma deve considerare tutte le implicazioni sul disavanzo e sul debito pubblico che le sue decisioni comportano.

Un’ultima importante precisazione. La possibilità di intervenire in economia con la politica di spesa pubblica non è senza controindicazioni. Infatti, l’aumento di G porta spesso alla diminuzione degli investimenti (I) delle imprese, che sono invece fondamentali per lo sviluppo e la crescita di un paese. Questo fenomeno, per il quale la presenza dello Stato nel sistema economico, tramite la spesa pubbl., sfavorisce gli investimenti delle imprese, è noto con il nome di spiazzamento degli investimenti. Il nome attribuito rende bene l’idea di come lo Stato, con la spesa pubbl., si sostituisce ai privati, cioè alle imprese, che con i loro investimenti pongono le basi per la crescita economica di una nazione.

Vediamo come agisce il fenomeno dello spiazzamento.

L’aumento di G comporta l’aumento del reddito. L’aumento del reddito comporta sul mercato della moneta un aumento della domanda di moneta, la quale si alza verso l’alto (in particolare della domanda di moneta (M) per motivi transazionali e precauzionali, vedi lezione precedente). L’aumento della M comporta un aumento del tasso d’interesse (i). L’aumento di i comporta una diminuzione degli investimenti (I). La diminuzione di I riduce l’effetto espansivo e moltiplicatorio dell’iniziale aumento di G.

Ma la controindicazione della caduta degli investimenti (I), non è tanto l’effetto riduttivo dell’aumento iniziale di spesa pubblica, quanto la minore potenzialità di crescita produttiva ed economica, che la ridotta spesa in investimenti inevitabilmente comporta per uno Stato.

Lo Stato può utilizzare come PE, anziché l’alternativa PF o PM, anche un mix di entrambe. Ciò nel tentativo di raggiunger più obiettivi economici (riduzione della disoccupazione, espansione del reddito, contenimento dell’inflazione, ecc…) e di bilancio (riduzione del disavanzo, diminuzione della pressione fiscale, contenimento del debito pubblico, ecc…).

Nella tabella seguente evidenziamo i risultati che un mix di PE può determinare.

 

Mix di politica economica (combinazione delle politiche)

 

Politica monetaria espansiva

Politica monetaria restrittiva

Politica fiscale espansiva

Boom

(Spiazzamento)

la quota degli investimenti

sul PIL si riduce

Politica fiscale restrittiva

(Spiazzamento “controverso“)

la quota degli investimenti

sul PIL aumenta

Recessione

 

Un altro modo di rappresentare la teoria di Keynes

Oltre alla rappresentazione grafica con la domanda aggregata e la bisettrice, esiste un altro modo per raffigurare l’equilibrio keynesiano.

Quest’ultimo poggia sull’uguaglianza fra risparmio e investimenti, quale definizione dell’equilibrio. Secondo questa nuova raffigurazione, che poggia sulle stesse basi e sugli stessi ragionamenti della precedente, l’equilibrio del sistema si avrà quando:

Risparmio = Investimenti

Graficamente si avrà pertanto:

lez11-4
 

L’equilibrio è in Q*, dove la curva di I eguaglia quella del risparmio S. Anche qui, un aumento degli investimenti (I), comporta un aumento del reddito d’equilibrio. L’inclinazione della curva di risparmio S è data dalla propensione marginale al risparmio (PMS), cioè quanta parte di 1 euro è risparmiata, anziché spesa. Il valore di PMS non è altro che la differenza (1 – PMC), perché quello che non è speso è risparmiato.

Questo nuovo modo di rappresentare graficamente l’equilibrio keynesiano, ci permette di definire quello che viene chiamato il paradosso del risparmio.

Mentre per il singolo cittadino è sicuramente buona cosa risparmiare molto per assicurarsi un capitale in futuro, per la collettività – e quindi per il sistema economico – un maggior risparmio determina un danno enorme, in termini di produzione (PIL).

Infatti, se ipotizziamo un aumento della PMS dell’intera collettività, la curva di risparmio S si sposta come raffigurato:

 lezz11-5 

Ciò comporta inevitabilmente una diminuzione del reddito nazionale e quindi anche del reddito pro-capite, che invece avrebbe dovuto aumentare per effetto del maggior risparmio che ciascuno intende realizzare.

Conclusione: ciò che è bene per il singolo individuo, non è bene per l’insieme degli individui, cioè per il sistema economico.

 

14 Commenti

  1. Silvia

    davvero complimenti per la chiarezza espositiva!!
    Semplice e completo, a portata di tutti.
    Bravi bravi bravi

    Rispondi
  2. Roberto IACONA

    DA UNA VISUALIZZATA VELOCE SEMBRA INVITANTE ALLO STUDIO

    Rispondi
  3. maria

    meravigliosi!

    Rispondi
  4. Luca

    Non si può non lasciare un commento per un lavoro così sublime..!
    Alcuni concetti sono espressi meglio qui che su molti testi universitari

    Complimenti davvero, PERFETTO!

    Rispondi
  5. Anto

    Sembra scritto da un extraterrestre per come è ben fatto.
    Complimenti!!!
    Di solito non lascio commenti…ma in questo caso faccio ben volentieri un’eccezione.
    Complimenti ancora!!!

    Rispondi
  6. Fulvia

    A dir poco spettacolari, sono rimasta inebriata dai suoi appunti mozzafiato. Davvero notevole la sua intelligenza e mi ha colpito molto personalmente i suoi ragionamenti davvero fondati nel profondo dell’anima. D’ora in poi le starò col fiato sul collo, perlusterò tutti gli articoli a tappeto.
    Diventerò un suo grande fan a manetta.

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  7. Domenico

    I migliori appunti che una mente umana abbia mai potuto concepire. In poche parole, potrebbero semplicemente cambiarvi la vita! Marx avrebbe detto di questi autori: ‘se avessi avuto metà del loro talento, sarei diventato uno degli economisti piu importanti della storia’. Non ci riuscirà……mai.

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  8. Bruna Manzoni

    Davvero molto chiaro e utile. Grazie

    Rispondi
  9. Filippo

    Veramente chiaro ed esauriente. Nessun libro di testo universitario contiene una trattazione così ben fatta. Complimenti.

    Rispondi
  10. Tiziano

    ottimo davvero chiaro e coinciso

    Rispondi
  11. Giancarlo

    OTTIMO!

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  12. Riccardo

    god save steve round! 🙂

    Rispondi
  13. Michelle

    Queste sono le migliori spiegazioni di economia politica reperibili su Internet.

    Rispondi
  14. Manolo

    Una lezione davvero molto chiara e senza lungaggini inutili che nn permettono di capire. Ottimo.

    Rispondi

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