Popolazioni denutrite
Indice
Capitolo primo
IL CALCOLO DEL VALORE SOGLIA PER DETERMINARE LA POPOLAZIONE DENUTRITA CRONICAMENTE
1 – Le stime della Fao per il calcolo del valore soglia
Il principale indice disponibile [1] per seguire l’evoluzione della sicurezza alimentare mondiale è rappresentato dal consumo alimentare per abitante, misurato a livello nazionale attraverso l’apporto alimentare energetico medio (DES, dietary energy supply) espresso in calorie sulla base dei bilanci alimentari nazionali (FBS, food balance sheets) e dei dati demografici. E’, quindi, possibile seguire nello spazio e nel tempo l’evoluzione delle disponibilità alimentari attraverso le medie nazionali.
[1] Fao, 1996 a, cap 1, p.1 ss.
La tabella 1 mostra l’evoluzione della sicurezza alimentare mondiale fino alle proiezioni dell’anno 2010.
Tabella 1
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Apporto alimentare energetico medio pro capite (DES)
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Paesi
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1969-71
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1990-92
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2010
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Mondo
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2440
|
2720
|
2900
|
Paesi industrializzati
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3190
|
3350
|
3390
|
Paesi in via di sviluppo (P.V.S.)
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2140
|
2520
|
2770
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FONTE: Fao n°1, 1996, p. viii.
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Mancano, però, dati completi confrontabili a livello mondiale, per tracciare l’evoluzione dell’accesso agli alimenti sia sul piano individuale che per gruppi di popolazione all’interno dei paesi. Con riferimento alle medie nazionali, la popolazione dei paesi in via di sviluppo può essere raggruppata come mostra la tabella 2.
Tabella 2
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Popolazione dei paesi raggruppata secondo la media pro capite DES
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Gruppo dei Paesi
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1969-71
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1990-92
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2010
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Media DES pro capite
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milioni
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<2100 calorie
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1747
|
411
|
286
|
da 2100 a 2500
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644
|
1573
|
736
|
da 2500a 2700
|
76
|
338
|
1933
|
> 2700 calorie
|
145
|
1821
|
2738
|
FONTE: Fao n°1, 1996, p. viii.
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Per interpretare questi dati e trarne deduzioni sull’estensione della denutrizione cronica all’interno dei paesi, è utile ricorrere ad alcune precisazioni. Si definisce valore soglia (tenendo conto del sesso, delle fasce di età e del peso corporeo medio) il DES medio, che rappresenta l’apporto energetico minimo richiesto dal singolo individuo per esercitare unicamente un’attività fisica leggera: questo valore oscilla tra le 1720 e le 1960 Calorie/giorno/persona in relazione a ciascun paese. Le indagini sui costi o sui consumi sostenuti dai nuclei familiari hanno permesso di ricavare un indice indiretto che permette di stimare il grado di diseguaglianza nella distribuzione delle disponibilità alimentari in ciascun paese e stabilire la probabile porzione di popolazione con un accesso agli alimenti inferiori alla soglia nutritiva.
Pertanto, nei paesi con un valore medio DES prossimo al valore di soglia la maggioranza della popolazione è denutrita cronicamente, mentre l’esperienza mostra che quando il DES si avvicina, ad esempio, alle 2700 Calorie la percentuale degli individui denutriti cronici si riduce, salvo nei casi estremi di diseguaglianza.
Con questo procedimento è stata stimata la popolazione dei paesi in via di sviluppo che resta al di sotto del valore soglia (tabella 3).
Tabella 3
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Popolazione denutrita cronicamente
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Popolazione con accesso inferiore alla soglia nutritiva
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1969-71
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1990-92
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2010
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Milioni
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920
|
840
|
680
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Percentuale del totale
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35
|
20
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12
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FONTE: Fao n°1, 1996, p. viii.
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2 – Analisi degli indici utilizzati dalla Fao
Preliminarmente alla definizione degli indici, occorre sottolineare che le stime della Fao [2] sono state fatte su tutta la popolazione mondiale tranne i paesi industrializzati e i paesi con economie in transizione (ex p. CPEs cioè ex URSS).
Può sembrare assurdo, ma nel 1974 uno studio fatto dal National Nutrition Policy Study [3] citò casi di Kwashiorkor e Marasma e anche di denutrizione in Arizona. Ciò ci induce a pensare che la malnutrizione esiste anche negli Stati Uniti, benché il numero dei casi sia piccolo.
Per quanto riguarda i paesi ex CPEs, il ristagno della produzione di cereali nel mondo e l’aumento del prezzo è stato dovuto anche per il deterioramento della situazione in questi paesi. Inevitabilmente possono sorgere perplessità sul loro stato di nutrizione.
Oltretutto, la Fao nel calcolo del fabbisogno energetico ha considerato solo il sesso, l’età e il peso, senza far riferimento al clima [4] e al livello di attività. Infatti, considera il valore soglia quale apporto energetico minimo che consente l’esercizio di una attività fisica leggera, il cui ammontare, come rilevato, oscilla tra le 1720 e le 1960 calorie/giorno/persona per ciascun paese. In realtà, si tratta di un valore talmente basso quale apporto energetico minimo che non consente alcuna attività fisica. Quindi, mal si adatta alla realtà, cioè ai diversi bisogni individuali. Uno studio [5] ha dimostrato che in un lavoro pesante agricolo il consumo può arrivare a 3500 calorie senza comportare alcun aumento di peso.
[2] Fao, 1996 a, cap 5.
[3] Foster, 1992, p. 99.
[4] Gli aggiustamenti nutritivi necessari per la temperatura esterna sono assi minori; un dispendio energetico maggiore del 5-10% rispetto alla norma è richiesto per temperature inferiori ai 14° e superiori ai 37°.
[5] Hogendorn, 1990, p. 319.
Gli indici utilizzati per stimare la denutrizione [6], vengono distinti in diretti e indiretti. Tra questi ultimi sono compresi i bilanci alimentari nazionali. Vengono definiti indiretti perché la denutrizione è dedotta dai dati aggregati dei non-nutriti, pertanto, non misurano la situazione nutrizionale direttamente. Conseguentemente, possono essere utilizzati per paesi o regioni dove il tasso di denutrizione cronica è supposto alto.
Una volta stimato il consumo per tutte le derrate alimentari in un paese, può esserne effettuata una conversione in calorie e nutrimenti ricavandone il consumo pro capite. Se questo è al disotto dell’ammontare raccomandato dai nutrizionisti, allora si può affermare che una buona parte della popolazione è denutrita.
Il bilancio alimentare nazionale (FBS) e gli altri indici indiretti, vengono utilizzati come “misuratore” dei problemi nutrizionali del luogo, ma non sono in grado di fornirci buone informazioni sulla natura e sull’estensione della malnutrizione. La Fao [7] adotta un procedimento secondo il quale la famiglia, e non l’individuo, viene considerata come unità di valutazione. L’ipotesi di partenza è che “gli alimenti vengono distribuiti all’interno della famiglia in funzione dei bisogni individuali”. La seconda ipotesi formulata considera un valore medio dei bisogni di tutte le famiglie e non per persona.
[6] Foster, 1992, p. 32.
[7] Malassis, 1992, p. 50.
L’aspetto negativo è che le due ipotesi nascondono le disparità all’interno di una stessa famiglia e tra le famiglie. Non conosciamo, quindi, le disparità tra gruppi di popolazioni e tra regioni. Inoltre, molti prodotti non vengono conteggiati (prodotti autoconsumati) e, quindi, in questo senso, le stime dei bilanci potrebbero divergere dalla realtà. E’ anche incerta l’entità di deperimenti, cali, scarti e sprechi alimentari. Altri problemi [8] insorgono, poi, quando si voglia assegnare l’apporto calorico dei nutrimenti, sia per le difficoltà di assegnare corretti coefficienti di conversione ad alimenti di qualità non ben conosciuta, sia per le modificazioni ai valori nutritivi apportate dai sistemi di preparazione del cibo.
[8] Livi Bacci, 1987, p. 114.
Occorrerebbe, quindi, ricorrere a misure dirette della condizione nutrizionale come accertamenti clinici, biochimici, dietetici e antropometrici. Non è detto, che, utilizzando gli indici diretti si giunga ad un risultato univoco. Comunque si può affermare che l’accertamento antropometrico è l’indice maggiormente adoperato per il suo basso impiego di capitali e l’elevato grado di accuratezza rispetto agli altri. Gli accertamenti dietetici possono essere distinti in:
- Indagini per intervista. Questo tipo di indagine ha il pregio di essere poco costosa, ma spesso è viziata da errori, in quanto fa appello alla sola memoria degli intervistati.
- Indagini attraverso il libretto degli acquisti. Si valutano le scorte dei principali prodotti all’inizio e alla fine del periodo considerato. Nell’intervallo definito – settimana, mese, trimestre – chi gestisce gli approvvigionamenti prende nota sul libretto degli acquisti, lasciato dall’addetto dell’indagine, di tutte le entrate di derrate alimentari (acquisti, doni, ecc..).
- Indagini sui bilanci delle famiglie. Queste indagini vengono realizzate soprattutto nelle aree urbane. Esse mirano più precisamente allo studio dei redditi e al loro utilizzo al fine di stabilire la struttura del consumo familiare, permettendo così di valutare il consumo alimentare non più attraverso la quantità di alimenti consumati, ma attraverso la loro espressione monetaria. Queste tecniche sembrano essere poco utilizzate nei paesi in via di sviluppo per le seguenti ragioni:
- riguardano maggiormente le popolazioni fortemente integrate all’economia di mercato;
- esse ignorano i circuiti dei prodotti autoconsumati o dei prodotti che sono oggetto di transazioni senza una contropartita monetaria.
- Indagini per pesatura degli alimenti consumati. Simili indagini interessano in particolar modo i nutrizionisti che si preoccupano di misurare i consumi in termini di nutrimenti. Esse forniscono con la massima precisione le quantità effettivamente consumate in famiglia, tuttavia, uno degli inconvenienti di questo tipo di indagini è quello di non conteggiare i pasti consumati fuori casa. Dallo studio Cedres/Ifpri a Ouagadougou è emerso che per gli strati poveri e medi questa forma di consumo rappresenta almeno un terzo della quantità consumata.
L’attenzione è ora rivolta alla denutrizione cronica, quale stato di deficienza alimentare.
Innanzitutto bisogna specificare che le carenze di vitamine, proteine o minerali, che possono provocare l’insorgere o l’aggravarsi di patologie, possono esserci anche in presenza di un’assunzione calorica sufficiente. Ciò significa che non tutti coloro che sono autosufficienti in senso calorico non abbiano carenze di principi nutritivi attivi.
Secondo alcuni [9], la malnutrizione è un elemento di aggravamento delle condizioni di sopravvivenza quando è associato ad altri fattori che favoriscono la diffusione delle infezioni ed influiscono negativamente sul loro decorso (cattiva igiene, povertà, ignoranza). Ma al “netto” di questi fattori il suo ruolo non è univoco, essendo nullo per alcune malattie, incerto e variabile per altre, sensibile e sicuro per altre ancora. In alcune patologie, poi, una insufficiente nutrizione sembra avere effetti antagonistici e quindi benefici. Si sostiene autorevolmente che “una calcolata e moderata denutrizione (…) possa essere la più valida qualità fisica della specie animale, producendo maggior longevità, minori degenerazioni maligne, minor mortalità da suscettibilità ereditarie e malattie autoimmuni e forse anche minor infezioni”.
[9] Livi Bacci, 1987, p. 51 ss.
Un quadro esemplificativo è mostrato nella tabella 4, dove si desume che degli effetti della peste, del vaiuolo o della malaria l’insufficienza alimentare portava poca o nulla responsabilità; questa invece era grande per molte malattie intestinali, e respiratorie, ma incerta e variabile per altre importanti affezioni come il tifo, la difterite ed altre.
Quindi secondo questa tesi l’influenza “netta” della malnutrizione sulla malattia è spesso un’associazione spuria. Secondo degli studi fatti l’alta frequenza di infezioni in bambini con malnutrizione lieve o intermedia è legata più alle qualità dell’ambiente che non al livello di nutrizione.
Tabella 4
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Influenza ben definita
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influenza incerta,variabile
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influenza minima, inesistente
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Colera
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Difterite
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Encefalite
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Diarrea
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Elmintiasi
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Febbre Gialla
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Erpes
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Infezioni da stafilococco
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Malaria
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Lebbra
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Infezioni da streptococco
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Peste
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Malattie respiratorie
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Influenza
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Tetano
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Morbillo
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Sifilide
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Tifoide
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Parassiti intestinali
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Tifo
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Vaiuolo
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Pertosse
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Tubercolosi
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FONTE: Livia Bacci, 1987, p. 55.
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Secondo altri [10], questo concetto non è ben scindibile dalla malnutrizione dovuta a carenze dietetiche singole (proteine, vitamine e altre). Certamente non è possibile sostenere che coloro che soffrono di tale tipo di malnutrizione siano ben nutriti, o che comunque possano essere trascurati e non quantificati dalle stime della Fao in quanto posti in secondo piano rispetto ai denutriti.
[10] Foster, 1992, p. 32.
Di conseguenza, la popolazione malnutrita, così intesa, è probabilmente superiore ai 2 miliardi [11]. Si tratta, perciò, di un numero troppo elevato che sicuramente desterebbe perplessità nell’opinione pubblica; si è rilevato così più “conveniente” focalizzare l’attenzione sulla denutrizione in senso stretto.
[11] Le Scienze, 1997, n. 341.
3 – La relazione tra fabbisogno calorico e adattamento biologico
Le forze di costrizione esercitate soprattutto dall’ambiente [12], inteso in senso lato (la configurazione geofisica, il clima, la disponibilità di terra, la produzione di alimenti, l’aggressione epidemica), si modificano solo parzialmente e nel lungo periodo. Questo fa sì che la collettività debba plasmare e adattare il proprio comportamento e, in certa misura, le proprie caratteristiche biologiche.
La scarsezza di cibo è uno degli ostacoli principali, poiché agisce come freno alla crescita esaltando la mortalità o frenando la nunzialità. Risorse e sopravvivenza stanno, dunque, in un rapporto di antagonismo, mediato però dalla capacità di adattamento biologico e culturale di ogni gruppo demografico. L’adattamento culturale si è esplicato in complesse forme, passive e molto spesso attive, legate allo sviluppo dell’agricoltura, alla produzione, allo scambio, alla conservazione e preparazione del cibo. Di queste forme di adattamento la storia economica e sociale ha fatto largo studio.
Assai meno conosciuti sono invece i meccanismi di adattamento biologico che hanno permesso alla popolazione di sopravvivere agli stress alimentari nel breve, nel medio e perfino nel lungo periodo.
L’organismo umano ha una notevole capacità adattativa di fronte allo stress alimentare che si esprime mediante meccanismi diversi a seconda della durata e delle caratteristiche delle situazioni di difficoltà e penuria. Oscillazioni anche cospicue delle disponibilità alimentari nell’arco dell’anno sono comuni nei paesi del Terzo Mondo.
[12] Livi Bacci, 1987, p. 151 e ss.
Un esempio di “periodo di carestia” fu lo studio clinico condotto da Ancel Keys e dai suoi colleghi dell’Università del Minnesota durante gli anni Quaranta su un gruppo di 32 giovani volontari obiettori di coscienza. Questi giovani risiedettero per un anno presso il Laboratorio di Igiene Fisiologica, periodo suddiviso in un trimestre di dieta e di attività normali destinato a studi ed attività di controllo, in sei mesi di semidigiuno e un trimestre finale di riabilitazione e controllo. Durante i tre mesi iniziali, l’abbondante dieta forniva una media di 3492 calorie giornaliere; durante i sei mesi di semidigiuno il contenuto calorico della dieta fu ridotto a 1570 calorie giornaliere fornite da cavoli, patate, e qualche grammo di proteine alla settimana. Alla fine dei sei mesi di semidigiuno, i 32 giovani avevano perso il 24% del loro peso iniziale e mostravano i classici sintomi delle vittime della fame, ovvero edema, anemia, poliuria, bradicardia, debolezza e depressione.
Le osservazioni cliniche fatte sui 32 giovani durante questo periodo portarono ad interessanti conclusioni. La perdita di peso avvenne con intensità settimanale decrescente, stabilizzandosi nelle ultime tre settimane su 0,13 Kg. Ciò significa che l’energia resa disponibile all’organismo – oltre alle 1570 calorie fornite dalla dieta – “bruciando”, per così dire, il “capitale”, cioè grasso e tessuti del corpo, fu minima nella parte finale dell’esperimento. I giovani, pur soffrendo vari sintomi, riuscivano a vivere in stato, per così dire, di equilibrio energetico, ma consumando in media il 55% di calorie in meno del normale. Il fabbisogno del metabolismo basale stimato in 1572 calorie in normalità era ridotto alla fine dell’esperimento a 962 calorie (-39%), essenzialmente in seguito alla riduzione del peso corporeo. Gran parte della residua riduzione del fabbisogno energetico fu attribuita alla riduzione dell’attività fisica dei soggetti (quella non connessa ad attività specificamente irriducibili: vestirsi, lavarsi, minimi indispensabili movimenti, ecc.), passando da un consumo di 1567 calorie ad appena 451 (-71%). Questa riduzione di 1116 calorie fu attribuita dai ricercatori, per il 40%, al diminuito peso corporeo (in altri termini, per ogni azione veniva consumata una quantità di energia minore in proporzione diretta al minor peso del corpo) e per il 60% ad un’effettiva riduzione al minimo delle attività fisiche.
La tabella 5 mostra i risultati dell’esperimento:
Tabella 5
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Consumo energetico (Kcal)
|
Prima
|
Dopo
|
Differenza
|
Differenza %
|
Metabolismo basale
|
1576
|
962
|
614
|
39
|
Attività specifiche
|
349
|
157
|
192
|
55
|
Attività riducibili
|
1567
|
451
|
1116
|
72
|
Totale
|
3492
|
1570
|
1922
|
55
|
Peso coeporeo (Kg)
|
69,4
|
52,6
|
16,8
|
24
|
FONTE: Livia Bacci, 1987, p. 62.
|
Tra i risultati dello studio, vi fu la constatazione della bassissima incidenza di infezioni respiratorie nei soggetti dell’esperimento, nonostante che essi conducessero una vita normale quanto a contatti sociali.
L’esperimento del Minnesota è importante, perché conferma l’esistenza di meccanismi “protettivi” in caso di stress nutritivo. Tali meccanismi agiscono deprimendo entro limiti fisiologici il fabbisogno energetico dell’organismo: la riduzione del peso corporeo (nei limiti in cui ciò non crea danni irreversibili, naturalmente) provoca un’importante riduzione del fabbisogno; la riduzione dell’attività fisica non indispensabile produce ulteriori risparmi. E’ vero anche, però, che l’esperimento prende in considerazione individui giovani e di buona salute, in un ambiente sano e controllato da una équipe di medici, per una durata prefissata e che poteva essere sospeso in ogni momento; la ridotta dieta, per quanto povera, conteneva principi nutritivi essenziali; i soggetti dell’esperimento, non avendo obblighi, potevano ridurre la loro attività al minimo indispensabile. Condizione assai diverse da quelle dei paesi in via di sviluppo con diete sbilanciate e uno stress psicologico tipico di situazione di pericolo.
Un secondo tipo di adattabilità è quella che si esprime nel medio periodo, di fronte a stress nutritivi prolungati e che può permettere il ristabilirsi di un nuovo equilibrio tra popolazione e risorse alimentari a livelli di consumo più ridotti. Questa ulteriore arma di difesa consiste nella minore crescita corporea del bambino e dell’adolescente in presenza di un continuato stress nutritivo. Se questo è modesto, il rallentamento della crescita avviene mantenendo un equilibrato rapporto tra peso ed altezza. In verità, lo scostamento della crescita effettiva da quella che, geneticamente, sarebbe possibile in condizioni alimentari ottime (supponiamo qui ininfluente l’azione negativa dell’infezione) può essere teoricamente scomponibile in due parti. Parte dello scostamento non è connesso ad accresciuti rischi di malattia e di morte, e perciò è adattativo con pieno successo; oltre un certo limite (ma questo limite-soglia è di difficile determinazione) i rischi di morte si accrescono, e pertanto questa quota di mancata crescita corporea adattativa non c’è. Essa potrebbe essere, tutt’al più, geneticamente selettiva, ma opererebbe presumibilmente nel lunghissimo periodo ed i suoi effetti non sarebbero riconoscibili nelle scale temporali familiari al demografo. Separare le due componenti dello scostamento tra statura effettiva e statura teorica – una adattativa, l’altra no – non è possibile per le popolazioni del passato. Tuttavia, nel medio-lungo periodo il rallentamento dell’accrescimento scheletrico e corporeo può rappresentare un’efficiente risposta a diminuite disponibilità alimentari. Il fenotipo umano ha così la capacità di conseguire dimensioni adatte alle limitazioni dell’habitat. La crescita viene ottimizzata in relazione alle risorse disponibili. E’ stato calcolato, ad esempio, che una crescita frenata, oggi riscontrabile in numerose collettività dei paesi meno sviluppati, possa impedire al peso dell’adulto di raggiungere i normali 70 Kg arrestandoli a 60; restando invariata l’attività fisica, questo minore peso corporeo, congiuntamente con una maggiore efficienza metabolica, provocherebbe un risparmio energetico tra un quinto ed un quarto e costituirebbe una strategia di sopravvivenza estremamente efficiente poiché l’individuo in tal modo adattato eviterebbe di essere colto nel notorio circolo vizioso di una diminuita attività fisica. Infatti, questa (tollerabile senza danni se transitoria) è notevolmente pregiudizievole per l’efficienza economica e sociale dell’individuo e, nel lungo periodo, costituisce un fattore di sicuro regresso sociale. In alcuni contesti ambientali la ridotta taglia corporea sembra avere vantaggi (popolazioni andine) e comunque, in ambienti equilibrati, non sembra essere elemento svantaggioso.
Se si estendono queste conclusioni dall’individuo alla collettività, si può avere un’idea dello spazio adattativo di popolazioni storiche. In situazioni di risorse alimentari insufficienti e scarse, una popolazione poteva massimizzare la sopravvivenza e mantenere le sue dimensioni demografiche al prezzo di una diminuzione corporea; “la strategia adattativa” consiste nel dividere la biomassa da far sopravvivere il maggior numero possibile di persone garantendo la riproduzione delle generazioni mentre, nello stesso tempo, si accresce la capacità di sopravvivenza individuale mediante una riduzione della domanda energetica. Lasker e Womack hanno così sintetizzato la maggiore economicità energetica della popolazione messicana a fronte di quella statunitense: con una popolazione pari al 23,8% di quella degli Usa (1970), la biomassa messicana rappresentava solo il 17,2% di quella americana, e la massa grassa era pari solo al 14,7%.
Lo stress nutritivo prolungato, quando supera determinate soglie, non permette adattamenti indenni da danni riconoscibili nell’accresciuta mortalità. Può però pensarsi che una lunga storia di penurie e ristrettezze eserciti una pressione selettiva a favore degli organismi più efficienti nell’utilizzazione di magre risorse alimentari. Si sostiene autorevolmente l’ipotesi che una malnutrizione prolungata selezioni negativamente i bambini con maggiore potenziale di crescita che soccomberebbero con maggiore frequenza. La taglia dei componenti di popolazioni con una lunga storia di penuria alimentare avrebbe fondamento genetico: questa sarebbe, ad esempio, la ragione della più piccola statura delle popolazioni mesoamericane. Questo meccanismo opera però solo nel lunghissimo periodo; esso non è adattativo, nel senso qui usato, perché la sua azione si svolge in connessione con un’accresciuta mortalità.
Un ultimo tipo di adattamento è quello che permette alle popolazioni di assorbire mutamenti graduali nella composizione delle diete senza che questo alteri la capacità di sopravvivenza. Si pensi, ad esempio, all’attitudine degli esquimesi di sopravvivere con una dieta che deriva i nove decimi delle calorie da cibi animali; oppure all’attitudine di alcune popolazioni africane, che non dispongono di sale, di limitarne la dispersione nelle urine o nella sudorazione; o ancora all’enorme variabilità delle diete di popolazioni contemporanee, da quelle quasi esclusivamente vegetariane a quelle fin troppo ricche di nutrimenti di origine animale. E’ presumibile che nel lungo periodo le popolazioni possano adattarsi senza danni a mutamenti anche cospicui nel tipo di disponibilità alimentari in ragione di lenti mutamenti climatici o di altri fattori. Danni si generano, invece, in situazioni di rapido mutamento in cui la capacità adattativa, sia biologica sia soprattutto sociale, non ha tempo di mantenersi. L’introduzione del granoturco ed il suo successo genera la pellagra (malattia dovuta a carenza di vitamina PP, frequente soprattutto tra quelle popolazioni che si nutrono esclusivamente di granoturco); improvvisi mutamenti dei regimi alimentari dovuti a migrazioni possono determinare altri scompensi.
Sarebbe stolto esagerare gli effetti delle indubbie capacità di adattamento della specie umana di fronte agli stress alimentari, ma nuoce in ugual misura trascurarne la positiva azione. Ancora una volta, il biologico e il sociale si incontrano e si compongono in combinazioni e con effetti solo in parte riconoscibili.
4 – Elementi dell’analisi delle carestie: disponibilità e “attribuzioni”
L’approccio tradizionale [13], nello studio delle carestie, fa riferimento alla riduzione della disponibilità di cibo: “In qualsiasi particolare luogo geografico, un’improvvisa e rapida riduzione dell’offerta di cibo è generalmente stata la causa del diffondersi di fame e carestie” (Brown e Eckholm, 1974). In prima approssimazione, quest’approccio relativo al declino della disponibilità di cibo (approccio del food availability decline, FAD) ha una sua plausibilità, poiché sembra naturale pensare ad una carenza di cibo quando vi sono persone che muoiono di fame. L’approccio FAD è anche pienamente compatibile con l’analisi malthusiana di lungo periodo che prevede l’aumento della mortalità per effetto della riduzione dell’offerta di alimenti in rapporto alla dimensione della popolazione.
[13] Sen, 1992a, p. 275 e ss.
Tuttavia, la morte per fame è dovuta al fatto che gli individui non hanno abbastanza cibo per nutrirsi, e non al fatto che non esiste cibo sufficiente per nutrirsi. Mentre quest’ultima condizione può provocare la precedente, essa non ne rappresenta che una delle molte possibili cause.
• L’approccio dell’attribuzione
Forse il più importante limite tematico della tradizionale economia dello sviluppo risiede nel suo concentrarsi sul prodotto nazionale, sul reddito aggregato e sull’offerta totale di particolari beni piuttosto che sulle attribuzioni delle persone e sulle capacità che queste attribuzioni generano.
Secondo Sen, capacità, attribuzioni e utilità sono concetti che differiscono l’un l’altro. Quando ci si occupa di concetti quali il benessere di una persona, o il livello di vita, o ancora la libertà in senso positivo, bisogna utilizzare la nozione di capacità. Quando si parla di quanto piacere ha una persona o quanta realizzazione dei propri desideri la persona stessa trae da quelle attività ci si riferisce alla utilità. Se, invece, si fa riferimento ai panieri di merci che può comandare allora occorre utilizzare la nozione di attribuzioni. In modo più esatto, nell’approccio dell’attribuzione (entitlement approach) l’attenzione si concentra sui diritti (intesi, appunto, come attribuzioni) di una persona su panieri di merci, ivi compreso il cibo, e si considera la morte per fame come il risultato della mancanza di un titolo valido per consumare un paniere con una quantità sufficiente di cibo. Il ruolo particolare delle attribuzioni passa attraverso gli effetti che esse esercitano sulle capacità: è un ruolo che ha un’importanza sostanziale e di ampia portata, ma rimane in ogni caso una derivazione della capacità. Quindi, il concentrarsi sulle attribuzioni fornisce un utile strumento per caratterizzare lo sviluppo economico.
I problemi della mancanza di cibo, della fame e delle carestie nel mondo possono essere meglio analizzati attraverso il concetto di attribuzione piuttosto che attraverso l’uso di variabili tradizionali, quali l’offerta di beni alimentari e le dimensioni della popolazione. L’intenzione che sottintende tale considerazione non è certamente quella di sostenere che l’offerta di beni, in questo caso di cibo, sia irrilevante nel determinare fame e carenze alimentari, poiché una simile affermazione sarebbe certamente assurda: l’offerta non è, peraltro, che un fattore influente tra molti, ed è importante perché condiziona le attribuzioni delle persone coinvolte attraverso i meccanismi dei prezzi. In ultima analisi, prestando attenzione a ciò che le persone possono o meno fare, si fa riferimento direttamente alle loro “attribuzioni”, piuttosto che all’offerta e alla produzione totale nell’economia.
L’incapacità di cogliere l’importanza delle attribuzioni è responsabile della morte per fame di milioni di persone. Le carestie possono non essere affatto prevedibili in situazioni in cui i livelli di offerta sono discreti o buoni, ma, a prescindere dalle condizioni di offerta, la povertà più acuta può colpire improvvisamente ed estesamente a causa di lacune nel sistema delle attribuzioni, operanti attraverso proprietà e scambio. Per esempio, nella carestia del Bangladesh del 1974 un numero molto elevato di persone morì, quando nell’anno la disponibilità di cibo pro capite aveva raggiunto un massimo storico, il dato più alto degli anni 1971-75. Le inondazioni che colpirono le colture agricole ridussero la produzione alimentare, molto più tardi rispetto alla carestia, ma il loro primo e immediato effetto si manifestò sui lavoratori agricoli, che persero il loro lavoro, consistente nell’attività di piantare e trapiantare riso, e si trovarono in una condizione di inedia molto prima che la messe fosse raccolta. Il problema si aggravò a causa di un aumento dell’inflazione nell’economia, che ridusse il potere d’acquisto soprattutto dei lavoratori agricoli, i quali non avevano la capacità contrattuale di chiedere un aumento proporzionale dei loro introiti salariali.
Le attribuzioni possono operare non solo attraverso i meccanismi di mercato. In una economia socialista, le attribuzioni dipenderanno da ciò che le famiglie possono ottenere dallo Stato attraverso il sistema istituzionale di potere. Anche in una economia non socialista l’esistenza di un sistema di sicurezza sociale, quando è previsto, fa sì che le attribuzioni si esplichino, in una misura sostanziale, anche al di là dell’operare delle forze di mercato.
Uno dei principali insuccessi della tradizionale economia dello sviluppo è dunque rappresentato dalla tendenza a concentrarsi sull’offerta di beni piuttosto che su proprietà e attribuzioni. La centralità del concetto di crescita è solo uno dei riflessi di tale impostazione; il concentrarsi eccessivamente sul rapporto tra offerta alimentare e popolazione è un ulteriore esempio della stessa visione distorta. Recentemente la centralità si è spostata dalla crescita del reddito totale alla distribuzione del reddito. Questo sembra essere davvero un movimento nella giusta direzione: occorre sottolineare, però, come il “reddito” sia in se stesso un concetto che fornisce una base non adeguata per analizzare le attribuzioni di una persona. Il reddito consente di avere i mezzi per acquistare cose; il potere d’acquisto che esprime viene letto in termini di grandezze scalari, date da un numero reale. Anche se non vi sono scuole nel villaggio, né ospedali nei dintorni, il reddito degli abitanti può ancora essere incrementato addizionando il loro potere d’acquisto in relazione ai beni che sono disponibili sul mercato. Ma questo aumento del reddito può non essere affatto in grado di rispondere adeguatamente al soddisfacimento delle attribuzioni relative ai servizi scolastici o sanitari, poiché di per sé non li garantisce.
In generale, un numero reale che rifletta una qualche misura aggregata del potere di mercato non può rappresentare in modo adeguato una nozione così complessa come quella di attribuzione. Il potere delle forze di mercato dipende dai prezzi relativi: nel momento in cui i prezzi di alcuni beni aumentano, l’effetto del reddito nelle attribuzioni corrispondenti si indebolisce. In assenza di commerciabilità, esso decresce ugualmente. Nel caso estremo, ad esempio, l’attribuzione relativa al vivere in un ambiente in cui non vi sia malaria non è affatto indicativa del potere d’acquisto del reddito.
Nel trattare i casi di carenza di cibo e di fame, le centralità del reddito, per quanto insufficiente, non è interamente deviante, ed è certamente meglio rispetto a quella della produzione alimentare e delle dimensioni della popolazione. Il sistema ponderato che connette reddito reale e costo della vita presta sufficiente attenzione al problema del cibo in una comunità povera, e consente di rendere il reddito reale una “proxi” abbastanza significativa per rappresentare l’attribuzione relativa al cibo nella maggior parte dei casi [14].
[14] Tuttavia l’indice del reddito reale continuerà a differire da quello dell’attribuzione relativa al cibo, poiché i deflattori impliciti non sono gli stessi, pur muovendosi spesso in sintonia. Un problema di tipo diverso sorge poi dalle differenze nel consumo intrafamiliare di cibo, come risultato congiunto del fatto che sia il reddito reale che l’attribuzione relativa al cibo di una famiglia possono essere indicatori piuttosto fuorvianti della situazione nutrizionale di alcuni membri della famiglia stessa.
Ma il reddito si fa distante mille miglia da questa funzione quando si tratta di salute, istruzione, uguaglianza sociale, rispetto di sé, libertà da vessazioni sociali.
Le attribuzioni, anche se essenzialmente connesse ad aspetti economici, come per esempio nel caso dell’alimentazione, richiedono che ci si sforzi di andare al di là dei ristretti confini dell’economia pura.
Si consideri, ad esempio, il caso in cui si vogliano mitigare gli effetti di una carestia. Una persona affamata e indigente ha l’attribuzione relativa all’alimentazione se esiste un sistema di assistenza che gliela garantisce: il fatto che un individuo che muore di fame possa godere di una tale attribuzione dipende dall’effettiva attivazione di una confacente politica di assistenza pubblica. Questo tipo di provvedimento è in parte un problema di pressione sociale: il cibo è come se venisse “acquistato”, in questo contesto, non con il reddito ma con la pressione politica. Gli irlandesi, ad esempio, nel 1940 non ebbero la forza politica necessaria a tal fine, e nemmeno gli abitanti del Bengala in occasione della grande carestia del 1943, né gli etiopi del Wollo nel 1973. D’altro canto vi sono moltissimi esempi nel mondo in cui politiche pubbliche tempestive hanno completamente evitato gli effetti di una carestia imminente.
Finora è stata affrontata la problematica dei denutriti cronici. Analizzando le stime della Fao, si possono avanzare alcune obiezioni:
- il calcolo dei denutriti cronici non è rilevato sui paesi sviluppati e sui paesi dell’ex URSS;
- gli indici utilizzati sono “indiretti”, presentano numerosi difetti e l’unico pregio di poter essere facilmente disponibili;
- gli 800 milioni di denutriti cronici sono calcolati tenendo conto di un valore soglia che oscilla tra le 1720 e le 1960 Calorie/giorno/persona. Essendo, questo dato considerato dalla Fao, valido per tutte le popolazioni del mondo, occorre precisare che la nutrizione delle persone non dipende meramente dalla disponibilità di cibo pro capite nella comunità, ma anche, da un lato, da considerazioni di distribuzione, e dall’altro da fattori quali:
- età e sesso della persona (e se donna, dal fatto che possa essere in cinta o in allattamento);
- metabolismo e corporatura;
- livelli di attività;
- condizioni sanitarie (inclusi l’assenza o la presenza di parassiti nello stomaco);
- condizioni climatiche;
- bisogni sociali di svago e di relazione all’interno della comunità di appartenenza (incluse l’offerta e la condivisione di cibo);
- istruzione in generale, e, in particolare, conoscenza dei principi nutrizionali e igienici;
- accesso ai servizi medici e capacità di utilizzarli;
- l’adattamento biologico, fattore importantissimo e di difficile misurazione, variabile da paese a paese.
Tutto questo induce a pensare che la falsa precisione dei dati, sconsigliabile quando si ha a che fare con fenomeni molto variabili e per di più descritti in modo approssimativo, sia utile alla Fao di fronte all’opinione pubblica e soprattutto di fronte ai suoi finanziatori, ma non alla verità.
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