Economia agroalimentare
Economia agroalimentare: una tesi di laurea sulle analisi e le prospettive del problema della sicurezza alimentare nei paesi in via di sviluppo

da | 2 Feb 2005 | Economia politica | 0 commenti

La popolazione

Capitolo secondo

LA POPOLAZIONE

1 – Necessità alimentari e incremento della popolazione

La Fao [15] stima una popolazione di circa 5,8 miliardi nel 1996, prevedendone un incremento fino a 8,3 miliardi nel 2025, e un equilibrio demografico intorno al 2050. L’aumento demografico rappresenta la causa primaria, tra tutti gli altri fattori, dell’accrescimento complessivo del fabbisogno alimentare. Si prevede che la produzione alimentare possa procedere sostanzialmente di pari passo con la domanda, comportando, perciò, ulteriori pressioni sulle risorse agricole, economiche e ambientali. Questa situazione desta particolari preoccupazioni per alcune regioni africane. Esistono, tuttavia, strategie per rallentare questa prevista crescita demografica, specie a lungo termine (a beneficio del raggiungimento della sicurezza alimentare e degli obiettivi per la produzione alimentare); si tratta di programmi volti ad elevare il livello educativo (in particolare nel settore femminile) e a stimolare l’uso di metodi contraccettivi.

[15] Fao, 1996a, cap. 4.

2 – Un esame delle cifre: passato, presente e futuro

Nei 2 milioni di anni trascorsi dalla comparsa dell’uomo sulla terra, il numero di esseri umani era molto basso. Circa 12.000 anni fa, all’inizio della pratica agricola era di 5 milioni. All’inizio dell’era cristiana la popolazione mondiale è cresciuta a circa 250 milioni. Dall’anno 1 d.C. all’inizio della rivoluzione industriale, attorno al 1750, divenne 2 volte più numerosa. Dal 1750 al 1950 si accrebbe di altri 1,7 miliardi di individui. Questa accelerazione proseguì sino agli anni ’70: il tasso di crescita della popolazione raggiunse un massimo con il 2,3% e una popolazione di poco più di 3,6 miliardi (divisi in 2,628 miliardi nei PVS e di 1 miliardo nei paesi sviluppati). Nel 1990 la popolazione complessiva era di 5,286 miliardi (con i PVS di 4,2 miliardi e i paesi sviluppati con più di 1 miliardo). Le stime delle Nazioni Unite sono, se questo trend continuerà, di circa 6,1 mld nel 2000 e di 8,3 mld nel 2025.

Per quanto riguarda la data di stabilizzazione della popolazione mondiale ci sono diversi punti di vista: la Fao prevede tale stabilizzazione intorno al 2050, mentre altri intorno al 2100, 2110.

Forse l’aspetto meno compreso della crescita demografica è la sua tendenza a continuare anche dopo una consistente diminuzione dei tassi di natalità. La crescita demografica, ha la tendenza endogena (inerzia) a proseguire per decenni dopo la caduta dei tassi di natalità. Ci sono due ragioni fondamentali che spiegano questa inerzia nascosta:

  1. Gli alti tassi di natalità non possono essere ridotti dalla sera alla mattina. Quindi, potranno essere necessari anche molti anni prima che essi diminuiscano e, quindi, il tasso di fertilità avrà bisogno di molto tempo prima che possa giungere ai livelli desiderati.
  2. La struttura per fascia di età della popolazione nei PVS spiega l’inerzia. I paesi con alti tassi di natalità hanno una elevata percentuale di bambini e adolescenti che a volte raggiunge il 50%. In queste popolazioni con un elevato tasso di fertilità il numero dei giovani supera notevolmente quello dei genitori. Ciò significa che quando i giovani raggiungeranno l’età adulta, il numero dei potenziali genitori sarà inevitabilmente maggiore. Ne segue un avanzamento della crescita della popolazione, prima di un definitivo assestamento, anche se questi nuovi genitori avranno solo una quantità di figli sufficiente a rimpiazzare se stessi, (2 per coppia invece di, ad esempio, 4 come i loro genitori), dato che il numero di coppie con 2 figli sarà comunque molto più grande del numero di coppie che in precedenza ne avevano 4.

Secondo alcuni [16], la data prevista di stabilizzazione della popolazione si aggira tra i 50 e i 75 anni dopo il punto in cui il tasso di fertilità di un paese è appena sufficiente (nel senso di una madre che genera una figlia) a rimpiazzare la popolazione presente.

[16] Hogendorn, 1990, p. 270.

Occorre sottolineare che ogni ritardo non previsto nella riduzione della natalità, si rifletterà nell’anno in cui si raggiungerà il livello di rimpiazzo della crescita della popolazione. Ciò comporta una notevole differenza nella dimensione prevista della popolazione: differenze, ad esempio, di uno o due lustri nel livello di rimpiazzo stimato potrebbero comportare un aumento della popolazione anche di miliardi!

Probabilmente le stime della Fao sono molto ottimistiche perché, se è vero che la data di stabilizzazione della popolazione mondiale avviene tra i 50 e i 75 anni dopo il punto in cui si è raggiunto il livello di rimpiazzo, si dovrebbe assumere, per raggiungere la stabilizzazione demografica intorno al 2050, che:

  • tra i due valori si prenda il più piccolo e cioè 50,
  • che tutti i paesi in via di sviluppo raggiungano il livello di rimpiazzonel 2000.

3 – Esplosione demografica

• Perché i tassi di natalità sono alti

I tassi di natalità dei paesi in via di sviluppo sono molto più elevati di quelli dei paesi sviluppati. Ad esempio, in un rapporto della Banca Mondiale del 1986 [17] si evidenzia un tasso di natalità in questi paesi che raggiunge il massimo livello del 50 per mille contro un tasso del 10-16 per mille nei paesi sviluppati. Sebbene le statistiche siano soggette ad un ampio margine di errore, sicuramente il dato che si può trarre è quello di un notevole differenziale nei tassi tra i paesi sviluppati e i paesi in via di sviluppo.

[17] Hogendorn, 1990, p. 258.

Vi possono essere ragioni microeconomiche che incoraggiano o meno la natalità.

L’ambiente sociale può costituire un incentivo a famiglie numerose. Si pensi al concetto di “machismo” o di virilità nell’America Latina che comporta l’attribuzione di un alto valore personale alla dimensione della famiglia in quanto prova di virilità. Oppure si rifletta sul fatto che nelle zone rurali dei paesi in via di sviluppo si ritiene che i guadagni assicurati dalla nascita di numerosi figli (utilizzo come forza lavoro nell’agricoltura, o come assicurazione per la vecchiaia o per l’inabilità) siano superiori ai costi sopportati per i figli (beni e servizi, salari perduti per la madre). A loro volta la generazione successiva conterà sui nipoti per le stesse ragioni. In queste condizioni si può ben comprendere come la disponibilità di mezzi contraccettivi e a buon mercato non risolve il problema demografico fino a quando esiste una motivazione intrinseca ad avere famiglie di ampie dimensioni.

• Perché i tassi di mortalità sono diminuiti

Mentre i tassi di natalità sono rimasti alti, i tassi di mortalità sono diminuiti drasticamente, passando ad esempio in Guinea, da un tasso di mortalità del 35 per mille nel 1960 ad un tasso del 26 per mille nel 1984. Comunque nei paesi in via di sviluppo i tassi di mortalità si stanno avvicinando al valore del 9 per mille che è la media dei paesi sviluppati.

In tutti i paesi in via di sviluppo i tassi di mortalità sono diminuiti soprattutto per diminuzione di carestie e di epidemie che hanno caratterizzato questo secolo.

• Perché i tassi di natalità diminuiscono. La caduta del desiderio di procreare

Ci si può domandare la ragione per cui in un paese che intraprende un processo di sviluppo, il tasso di natalità diminuisce. Indubbiamente, le tecniche di controllo delle nascite hanno un ruolo efficace nella diminuzione della popolazione, ma occorre spiegare il motivo della scelta di queste tecniche.

La risposta deve essere ravvisata nell’aumento dei costi-benefici, siano essi monetari o non monetari, che tendono a crescere con il progresso tecnologico. Dall’analisi emerge che [18]:

  1. avere molti figli comporta una tensione nervosa nelle case moderne, che hanno una struttura molto piccola. Le famiglie moderne di un paese sviluppato economicamente, tendono a trasferirsi da un luogo ad un altro per ragioni di lavoro. Il risultato è che lo stress mentale è più elevato;
  2. ci sono molti beni ”sostitutivi” dei figli come fonte di piacere come i viaggi, la musica, i films, la televisione, in genere i beni di consumo che funzionano come alternativa alle gioie della paternità e della maternità;
  3. i figli perdono il ruolo intrinseco di sicurezza sociale quando, con il progresso economico, lo stato assume il controllo di questa funzione. In un test proposto in Giappone nel 1950, il 55% degli intervistati ha risposto positivamente alla domanda:” Lei si aspetta di poter esser sostenuto in vecchiaia da suo figlio?”; ma nel 1961 la percentuale di risposte positive alla stessa domanda è scesa al 27%;
  4. il costo netto per allevare un figlio aumenta con lo sviluppo. Più alti standards educativi diventano la regola quando i genitori preferiscono la qualità alla quantità;
  5. la variazione nello status sociale delle donne ha un impatto significativo. Una maggiore emancipazione permette di diventare parte integrante della forza lavoro e di ricevere un’educazione che comporta una miglior conoscenza dei metodi di controllo delle nascite, un ritardo nel matrimonio ed un più alto costo-opportunità dell’avere figli in quanto la potenziale madre ha più opportunità di occupazione [19];
  6. i paesi che si sforzano di attenuare le disuguaglianze nella distribuzione del reddito, o che, alternativamente, cercano di diffondere i benefici della crescita economica a un settore più vasto della popolazione, possono dare inizio a una diminuzione dei loro tassi di natalità più facilmente di quei paesi nei quali i benefici della crescita sono distribuiti in maniera più diseguale, anche se questi ultimi possono avere livelli e tassi di crescita del reddito più elevati.

Tuttavia, data una politica di sviluppo orientata verso una distribuzione dei redditi più equa, è probabile che maggiori tassi di crescita del PNL abbiano come risultato un’ancora più accentuata diminuzione della fertilità.

[18] Todaro, 1981, p. 205 e ss.

[19] Hogendorn, 1990, p. 265.

4 – Strategie per rallentare la crescita demografica

La Fao nel suo documento ha considerato delle strategie per rallentare la crescita demografica, specie a lungo termine, ossia programmi per elevare il livello educativo e per stimolare l’uso dei metodi anticoncezionali.

A ben vedere, l’uso di queste strategie per frenare la crescita demografica sembra abbastanza esiguo e, soprattutto, non si prende in considerazione uno strumento come l’aborto legale, ritenuto fondamentale per diminuire il tasso di crescita, come dimostrato dalla “legge eugenetica” del 1948 in Giappone. Il metodo contraccettivo, in questo paese è stato incoraggiato e insegnato, ma non ha raggiunto i risultati ottenuti, invece, dall’aborto. Inoltre, l’accrescimento del livello educativo potrebbe determinare una notevole migrazione dalle campagne alle città. Questo punto è importante perché politiche differenti vanno valutate tenendo presente che gli obiettivi sono spesso diversi e tra loro alternativi. Ciò non significa non migliorare l’istruzione, soprattutto delle donne, ma sicuramente adottare delle misure tali da non provocare una ulteriore migrazione dalle campagne alle città (v. infra paragrafo 6).

4.1 – Programmi governativi di pianificazione familiare

In quasi tutti gli studi è evidente in modo netto che i programmi ufficiali di pianificazione, insieme a migliorate condizioni sociali ed economiche che comportino una diminuzione dei benefici ed un aumento nel costo dei figli, rinforzano la flessione nei tassi di natalità.

Un’indagine recente su 63 paesi, riportata dalla Banca Mondiale, fa notare che i tassi di natalità sono diminuiti in misura maggiore nei paesi in cui gli obiettivi erano annunciati ed in cui esistevano programmi ufficiali di pianificazione familiare, in misura minore laddove esistevano questi programmi ma non obiettivi specifici, ancor meno quando non c’era alcun programma di pianificazione familiare.

I programmi di pianificazione familiare prevedono generalmente cinque approcci differenti [20], che sono adottabili in una qualsiasi combinazione o addirittura congiuntamente:

  1. sostenere un obiettivo attraverso un’abile campagna di propaganda,
  2. innalzare l’età minima legale per contrarre matrimonio,
  3. legalizzare l’aborto,
  4. promuovere la contraccezione
  5. offrire incentivi finanziari alle famiglie piccole e sanzioni per quelle grandi.

[20] Hogendorn, 1990, p. 272.

1. OBIETTIVO E PROPAGANDA – E’ da tutti riconosciuto che un obiettivo nazionale, reclamizzato da un abile programma di marketing, può stimolare un atteggiamento favorevole allo sviluppo economico e mutare le attitudini che si nutrono verso la dimensione familiare. Prima di tutto si fissa l’obiettivo ad esempio abbassare il tasso di natalità dal 50 al 36 per mille. Dopo la pubblicazione dell’obiettivo si inizia la diffusione attraverso i mass media. Messaggi come “un figlio solo è meglio” oppure “Due o tre figli e basta!” o ”Ascolta il tuo dottore, lui lo sa” sono stati gli slogan usati dall’India e dalla Cina nei loro programmi di pianificazione e ripetuti attraverso la radio, il cinema, la televisione, nei cartelli pubblicitari o sulle scatole dei fiammiferi.

2. ETA’ MINIMA DI MATRIMONIO – Campagne pubblicitarie finalizzate ad alzare l’età minima richiesta per contrarre matrimonio hanno prodotto un qualche effetto. Nella Cina, ad esempio, si sono avuti dei vantaggi.

3. L’ABORTO – L’aborto legale può sicuramente giocare un ruolo decisivo sul controllo demografico, come l’esperienza del Giappone ha dimostrato.

Il Giappone è il paese emblematico per la riduzione dei tassi di natalità. Quella dei tassi giapponesi, rispetto agli alti livelli del periodo precedente, è stata una delle riduzioni più rapida mai registrata sino ad ora. Infatti, aveva un tasso di natalità di circa il 35 per mille nel 1920-24 sceso al 30 per mille nel 1940, al 19 per mille nel 1960 e al 13 per mille nel 1980 [21].

In verità, in Giappone nel 1948 si è avuto un aumento dal 30 per mille nel 1940 al 33,7 nel 1948 [22], ma questo aumento di natura transitoria e non strutturale viene spiegato considerando che le cifre delle nascite erano aumentate a causa del ritorno dei soldati e dei prigionieri.

La causa di questa forte diminuzione è stata rinvenuta soprattutto nell’aborto. Il numero di aborti legali è andato di pari passo con il numero di diminuzione delle nascite, come evidenziato nella tabella 1.

Tabella 1
Anno
Diminuzione delle nascite in rapporto al 1949
Numero degli aborti legali
1949
– – – – – –
246.104
1950
360.000
489.111
1951
559.000
636.524
1952
692.000
798.193
1953
835.000
1.068.066
1954
932.000
1.143.059
1955
970.000
1.170.143
1956
1.037.000
1.159.288
1957
1.097.000
1.150.000
 
FONTE: Sauvy, 1960, p. 285.

 

Questo confronto non lascia molto spazio alle pratiche anticoncezionali. A conferma di questa tesi, le autorità Giapponesi riconoscono che la causa della diminuzione delle nascite è dovuta all’aborto. Il direttore dell’istituto degli studi demografici, A. Okasaki scrive: ( Histoire du japon: l’économie et la population ed. l’INED, Parigi 1958) “La pratica della limitazione delle nascite si diffuse nelle città e nelle campagne. Ma poiché il modo di applicarla non era ancora diffuso, l’efficacia dei preparati venne ad essere ridotto e il numero delle nascite non desiderate aumentò. Questo fa pensare che queste nascite furono soppresse, nella maggior parte dei casi dall’aborto… e quindi aumentò in modo inatteso il numero degli aborti. In fin dei conti, il più grande freno della natalità giapponese fu, contrariamente ad ogni aspettativa, l’aborto e non l’anticoncezionale”.

[21] Hogendorn, 1990, p. 292, nota 22.

[22]Sauvy, 1960, p. 286.

Questo esempio, come altri, vuole evidenziare che la disponibilità di mezzi contraccettivi efficaci e a buon mercato non risolve in alcun modo il problema demografico, se non è affiancato da altri strumenti che empiricamente si sono distinti per la loro efficacia.

La scarsa considerazione in cui è tenuto l’aborto in molti paesi e culture determina, in ogni caso, l’improbabilità che esso sia il mezzo prevalente di controllo demografico in larga parte del mondo. Spesso non è legale nei paesi poveri, ad eccezione della Cina e dell’India. Anche per i cattolici è illegale l’aborto (anche se non sempre vero come accade in Italia). Anche gli Indù si oppongono all’aborto per motivi religiosi. Ed è anche vero, perciò, che nel mondo ci sono milioni e milioni di aborti illegali ogni anno.

Alla Conferenza Internazionale sulla Popolazione delle Nazioni Unite, tenuta a Città del Messico nell’agosto del 1984 [23], scoppiò, per così dire, una “bomba”. La delegazione americana prese posizioni rigide: avrebbe smesso di aiutare ogni Organizzazione Internazionale che avesse offerto fondi per l’aborto, sostenendo questa posizione con severi regolamenti messi in atto nel 1985. Per finanziamento non si intendeva i fondi americani per l’aborto, dal momento che ciò non era permesso sin dagli anni ’70, né l’attività diretta all’aborto delle agenzie internazionali, cosa che le agenzie negano con forza. Si intendeva qualsiasi collegamento indiretto, quale, ad esempio, il finanziamento per una pubblicità di pianificazione familiare in un paese che permette l’aborto. Le nuove regolamentazioni americane investono un ampio raggio d’azione. Si prenda in considerazione, a titolo di esempio, un comitato americano che riceva ufficialmente dollari e aiuti per un gruppo di pianificazione familiare in India, che a sua volta sostenga una clinica locale. Qualora questa utilizzi anche tutti i fondi indiani per praticare aborti, allora gli aiuti americani al gruppo privato cesserebbero. In virtù di tali disposizioni è stata intrapresa nel 1985 un’azione per abolire i contributi ufficiali alla Federazione Internazionale di Paternità e Maternità Pianificante (il più grosso dei gruppi privati) e per abolire gli aiuti americani al Fondo delle Nazioni Unite per le attività relative ai problemi demografici (United Nations Fund for Population Activities, UNFPA), che costituiscono attualmente un quarto del budget di quella agenzia. La Cina era il principale obiettivo della presa di posizione americana, e la potente coalizione americana del “diritto alla vita” sosteneva che le donne cinesi fossero costrette all’aborto e alla sterilizzazione contro la loro volontà. La Cina ha reagito duramente nel 1985, negando che fosse stata esercitata coercizione e sostenendo (con l’UNFPA) che i fondi internazionali non erano collegati agli aborti. Ciò, però, non ha sortito alcun effetto: nell’agosto del 1986 gli Stati Uniti hanno annunciato il taglio completo dei loro contributi all’UNFPA.

Questa presa di posizione da parte degli Stati Uniti rappresenta una delle tante imposizioni (politiche) dei propri valori su altre, di differenti culture mascherate dietro slogan come i gruppi del “diritto alla vita”, che vanificano i risultati delle pianificazioni familiari e, ovviamente, incidono sulla mancata diminuzione del tasso di natalità.

[23] Hogendorn, 1990, p. 275.

4. CONTRACCEZIONE – La promozione della contraccezione si è sviluppata attraverso cliniche di controllo delle nascite e un’ampia distribuzione, a basso prezzo o gratuita, di materiale contraccettivo. Però spesso, le cliniche presentano problemi e, altrettanto spesso, sono sottoutilizzate o persino ignorate, specialmente nelle aree rurali. Talvolta, vengono intraprese da queste cliniche solo limitate forme di propaganda nel timore di recare offesa a qualcuno. Altre volte esse sono situate nelle aree urbane o nel centro delle aree rurali, a scarso raggio d’azione e senza nessun ricercatore sul campo. Spesso, non c’è nessuna visita di controllo, e questo, come si può immaginare, è un grosso errore. Il controllo è di grande importanza quando la motivazione a ridurre la natalità non è forte. Talvolta si trovano a confronto, in tali cliniche, un dottore istruito e acculturato, spesso di sesso maschile, e una ragazza povera, timida e priva di educazione scolastica. Il divario culturale è reale e richiede un altrettanto reale sforzo per colmarlo. Molti paesi, al fine di superare tale divario, hanno utilizzato staff paramedico, ostetriche e donne del luogo come operatori della clinica.

Anche una clinica ben organizzata avrà uno scarso risultato se la domanda di pianificazione familiare è bassa. E’ necessario, quindi, adottare metodi ingegnosi per far sì che sempre più numerose siano le persone che si sottopongono a visita medica.

Un altro problema è il costo. I paesi dove il materiale contraccettivo viene pagato, anche a tassi agevolati, possono non raggiungere i gruppi a più basso reddito. La distribuzione gratuita o a bassissimo costo di contraccettivi ai gruppi a più basso reddito è chiaramente necessaria per una campagna efficace di controllo delle nascite.

La pillola anticoncezionale richiede un considerevole grado di alfabetizzazione e una familiarità con il calendario. Per ovviare tale inconveniente alcuni propongono, seguendo l’esempio bizzarro di un paese islamico, di utilizzare una sirena che suona alle cinque del pomeriggio e ricorda alle donne di prendere la pillola [24].

I farmaci contraccettivi per uomini mostrano, allo stato attuale, di provocare troppi effetti collaterali perché se ne faccia un uso collettivo.

Il profilattico è poco costoso e non ha effetti collaterali. Tuttavia, i vantaggi provenienti dal basso prezzo praticato e dall’agevole distribuzione sono sostanzialmente erosi dalla necessità di un costante impegno all’obiettivo di limitazione delle nascite. Ogni singolo rapporto sessuale richiede, infatti, una decisione. In ciò consiste il grande punto debole di questo metodo di contraccezione.

Il problema può essere superato con la sterilizzazione. La vasectomia è una operazione poco costosa e non ha controindicazioni sebbene ci siano problemi sulla reversibilità dell’operazione. E’ divenuto uno dei principali mezzi utilizzati da alcuni programmi ufficiali nei paesi sovraffollati come ad esempio l’India. Paure profonde hanno mantenuto basso il numero di volontari. Ci si è orientati, quindi, verso la sterilizzazione obbligatoria, destando, perciò, perplessità nell’opinione pubblica.

[24] Le Scienze, 1996b.

5. INCENTIVI FINANZIARI – Le tasse e i sussidi volti a promuovere la pianificazione familiare, rari in passato, col tempo sono divenuti assai più comuni, come dimostrato dagli sforzi compiuti dalla Cina e Singapore.

Tuttavia tassare le famiglie numerose potrebbe finire per danneggiare i bambini già nati.

Un’ulteriore misura da adottare potrebbe consistere nell’abolizione dell’impiego dei fanciulli nell’industria. Ciò, infatti, può indurre a pensare che è antieconomico avere una prole numerosa proprio perché non rappresenta più una fonte di guadagno. Questo obiettivo e la legge del maggiorasco rientrarono tra i punti salienti della riforma che fece contrarre il tasso di natalità in Francia dopo il 1804 [25].

[25] Olivetti, 1963, p. 14.

5 – Aumento del tasso di mortalità

Inserire il tasso di mortalità all’interno di un programma di pianificazione familiare è sicuramente considerato, dall’opinione pubblica e da una parte degli esperti, come politicamente e moralmente impossibile. Ma è anche fuorviante pensare che l’inerzia nei confronti dell’aumento dei tassi di mortalità significhi far morire migliaia e migliaia di persone.

Si è potuto constatare che paesi, come l’India, economicamente arretrati, per anni e anni non hanno affrontato il problema demografico nella giusta misura. Il risultato è stato un aumento della popolazione in misura sconvolgente che ha inciso sul livello di vita, con strutture mediche ospedaliere insufficienti, precarie condizione igieniche e via di seguito.

L’India è stato il primo paese tra i PVS ad avere un programma di pianificazione familiare, ed è stato anche il primo ad includere coercizioni fisiche nel suo programma di controllo. La coercizione fisica attraverso la vasectomia ebbe i suoi effetti riducendo il tasso di natalità dal 48 per mille nel 1960 al 33 per mille nel 1976.

Senz’altro, si impone una riflessione in ordine alla costrizione di milioni di persone alla vasectomia, venendo in questo modo a ledere la libertà e l’integrità fisica dell’individuo. I morti causati dalla ribellioni di milioni di persone contrarie ha dimostrato come questa non possa essere una via percorribile politicamente.

Occorre aggiungere, inoltre, che in India nel secondo piano quinquennale furono stanziati 10 milioni di dollari per la pianificazione della popolazione contro i 50 e più milioni di dollari per i programmi sanitari che inevitabilmente servono a non pianificare la popolazione. Infatti, lo stanziamento per la lotta contro la malaria fu di 14 milioni di dollari: sembra assurdo spendere 14 milioni in una misura che avrebbe provocato, come poi è accaduto, un aumento della popolazione e solo 10 milioni di dollari per tutte le misure miranti a ridurla [26].

[26] Olivetti, 1963, pp. 111, 112.

6 – L’urbanizzazione

Un altro fattore di natura demografica che potrebbe risultare importante nella sfida alimentare dei prossimi decenni è l’urbanizzazione.

L’emigrazione interna fino a pochi anni fa era vista favorevolmente da una parte degli economisti. Si riteneva che sottrarre la forza lavoro eccedente dalle campagne per garantire la manodopera allo sviluppo e alla crescita urbana fosse un processo naturale. Quest’ultimo era considerato socialmente vantaggioso, perché le risorse umane venivano spostate da collocazioni in cui il loro prodotto marginale sociale era spesso ipotizzato uguale a zero, a posti di lavoro in cui il prodotto marginale era non solo positivo, ma in rapida crescita come risultato dell’accumulazione di capitale e del progresso tecnologico. Questo era il processo formalizzato dalla teoria dello sviluppo di Lewis [27].

Per questo motivo si è iniziato a trascurare il settore agricolo ad eccezione del fisco, che ha utilizzato le agenzie di marketing (marketing boards) e gli enti parastatali per sottrarre reddito da questa accessibile fonte di entrate statali. La politica ufficiale era di solito marcata da una propensione a favore delle aree urbane, il cui finanziamento era ottenuto dalle imposte sull’agricoltura. I prezzi dei generi alimentari nelle città venivano mantenuti bassi grazie a sussidi e severi controlli dei prezzi. Il privilegiato settore manifatturiero era spesso protetto da alte barriere tariffarie, e ciò provocava il rialzo dei prezzi dei suoi prodotti per i residenti delle zone rurali. Le politiche protezionistiche attuate dallo Stato hanno abbassato le importazioni, riducendo pertanto la domanda di valuta estera e provocando così una sopravvalutazione del tasso di cambio. Ciò a sua volta ha scoraggiato le esportazioni agricole e incoraggiato le importazioni di prodotti agroalimentari. I paesi che hanno affrontato una spesa elevata per le importazioni di prodotti alimentari hanno incontrato difficoltà nel reperire valuta estera per il processo di sviluppo industriale al quale davano priorità rispetto all’agricoltura. Queste politiche di bassi prezzi in agricoltura furono incoraggiate anche perché si credeva che la produzione rurale fosse scarsamente reattiva alle modifiche nei prezzi; argomenti dimostratisi, peraltro, sbagliati anche se il dibattito su questo punto è ancora aperto [28].

[27]Todaro, 1981, p. 302.

[28]Hogendorn, 1990, pp. 329, 330.

Anche la “politica” è un altro obiettivo: con i prezzi bassi ci si assicura il consenso della popolazione urbana o quanto meno si riduce il rischio di sommosse popolari.

Occorre, tuttavia, considerare l’estrema difficoltà e pericolosità di un’eventuale inversione di tendenza, cioè l’applicazione di una politica di prezzi agricoli più elevata al produttore. Il problema centrale di questo tipo di politica consiste nel valutare “gli effetti positivi di lungo periodo sull’offerta agricola di livelli più elevati di prezzi e le perdite in termini di benessere dei consumatori, ovvero l’impatto di alti prezzi degli alimenti sulla povertà” (Cuffaro, 1988), effetti che ovviamente variano anche molto in funzione del tipo di situazione economica, politica e sociale del PVS interessato.

Dunque, è opportuno non abbandonarsi a facili entusiasmi riguardo all’efficacia della politica dei prezzi nei PVS (Lipton, 1986): l’aumento dei prezzi al produttore può si incentivare la produzione, ma nel contempo è capace di creare, nel breve periodo, grossi problemi agli strati più poveri della società, soprattutto nelle città, ma anche agli agricoltori, “acquirenti netti” di alimenti, o ai salariati agricoli senza terra; l’effetto positivo sulle produzioni può, inoltre, essere fortemente attenuato in considerazione del fatto che le produzioni agricole alimentari sono destinate in prevalenza all’autoconsumo (pertanto svincolate dall’andamento dei prezzi) e che gli agricoltori stessi possono interpretare il rialzo dei prezzi soltanto come fatto temporaneo (vista anche l’instabilità politica ed economica di molti PVS). L’obiettivo primario dell’agricoltore che opera in condizioni ambientali difficili e in un’economia di sussistenza non coincide infatti con la mera massimizzazione del profitto del modello neoclassico: prima di ogni altra cosa, vi è il raggiungimento della sicurezza alimentare, per cui la funzione di orientamento delle produzioni attribuita alla variabile “prezzo di mercato” finisce con l’indebolirsi.

Nel lungo periodo la reattività dell’offerta dipende anche dalle strutture agricole, dal mercato del lavoro, dal grado di “apertura dell’agricoltura”, ovvero dai possibili mercati alternativi disponibili (Pinsdtrup-Andersen, 1986), e da tradizioni sociali consuetudinarie, fattori, questi, che nei PVS agiscono in genere nel senso di irrigidire ulteriormente la funzione di offerta aggregata.

Benché indispensabile la politica dei prezzi non può, quindi, essere attuata, se non in connessione con altri strumenti di politica economica e agraria [29].

[29] Cecchi, Cianferoni, Pacciani, 1991, p. 63.

L’esperienza recente nei PVS ha mostrato che i tassi di migrazione rurale-urbana continuano ad essere superiori ai tassi di creazione di occupazione urbana e a superare ampiamente le capacità di assorbimento sia dell’attività produttiva che dei servizi sociali delle città. L’immigrazione, ora, non viene più vista dagli economisti come un fattore positivo. Al contrario, viene considerato, oggi, come il fattore principale che provoca l’onnipresente fenomeno del surplus di forza lavoro urbana, una forza che continua ad esacerbare i già gravi problemi di disoccupazione urbana causati dagli squilibri economici e

strutturali tra aree urbane e rurali.

Si possono illustrare alcune stime (tabella 2 e 3) del terrificante sviluppo delle città dovuto al processo di migrazione interna.

Tabella 2
Alcune città del Terzo Mondo (1975) e le relative previsioni di crescita al 2000
Città
Poplazione nel 1975 (milioni)
Popolazione al 200 (proiezioni)
% di crescita 1975-2000
Pechino
8,7
19,9
129
Bombay
7,0
17,1
144
Bogotà
4,0
11,7
193
FONTE: Todaro, 1981, pag. 292.

 

Tabella 3
Il ruolo dell’emigrazione campagna-città come causa della popolazione urbana in alcuni PVS (anni ’70)
Paese
Crescita urbana annua (%)
Quota di crescita dovuta all’immigrazione (%)
Argentina
2,0
35
India
3,8
45
Nigeria
7,0
64
FONTE: Todaro, 1981, pag. 294.

 

Alla rapida diffusione dell’urbanizzazione si è accompagnata la proliferazione di enormi “slums” e baraccopoli. Questi agglomerati improvvisati raddoppiano la popolazione ogni 5-10 anni. La maggior parte di questi insediamenti sono privi di acqua potabile, fognature ed elettricità. E’ evidente, non per tutti, che l’acritico adeguamento alle strategie di sviluppo ortodosse degli ultimi anni, con la loro enfasi sulla modernizzazione industriale, la sofisticazione tecnologica e la crescita metropolitana, ha portato a un grave squilibrio nelle opportunità economiche e ha contribuito notevolmente alla costante crescita del flusso di immigrati nelle città.

E’ evidente la necessità di un insieme diversificato di politiche demografiche e di sviluppo che riportino un equilibrio tra settore urbano e settore rurale.

S’impone la necessità di una strategia complessiva volta a migliorare la grave situazione migratoria e occupazionale del Terzo Mondo. Gli elementi chiave sono:

  1. La creazione di un appropriato equilibrio economico tra campagne e città – Al fine di alleviare i problemi di disoccupazione sia urbani che rurali nei paesi in via di sviluppo e per rallentare il ritmo dell’emigrazione campagna-città sembra essere necessario un migliore equilibrio tra le opportunità economiche rurali e delle città. Lo sforzo dovrebbe essere rivolto allo sviluppo integrato del settore rurale, alla diffusione di industrie su piccola scala nelle campagne e al riorientamento verso le aree rurali delle attività economiche. E’ di importanza vitale minimizzare tale squilibrio. Permettere ai salari urbani di crescere a un tasso più elevato del salario medio rurale stimola ulteriore emigrazione campagna-città, malgrado crescenti livelli di disoccupazione urbana. Il massiccio afflusso nelle aree urbane non solo crea problemi socioeconomici nelle città, ma anche problemi di scarsità di forza lavoro nelle aree rurali, specie durante le stagioni di massima attività. Quindi, sono necessarie politiche che agiscano non solo da lato della domanda (sussidi ai salari, assunzioni dirette da parte del governo, incentivi fiscali per i datori di lavoro ecc..), ma anche volte a regolare l’offerta di lavoro nelle aree urbane.
  2. Espansione delle attività industriali su piccola scala, ad alta intensità di manodopera – L’espansione di questo tipo di attività industriali, in gran parte operanti su piccola scala e con alta intensità di lavoro, nelle aree sia rurali che urbane può essere ottenuta in due modi: direttamente per mezzo di incentivi e di investimenti governativi, specie a favore delle attività del settore urbano informale, e indirettamente per mezzo della redistribuzione del reddito (sia direttamente o dalla futura crescita) a favore dei poveri delle campagne la cui domanda di consumo richiede minor intensità di importazioni e più alta intensità di lavoro di quella dei ricchi. La crescita del settore informale comporta dei vantaggi: innanzitutto crea surplus che potrebbe dare impulso alla crescita dell’economia urbana; in secondo luogo, offre la possibilità di risparmi notevoli ai paesi in via di sviluppo spesso affetti da scarsità di capitale; in terzo luogo, offre opportunità di addestramento e di apprendistato e, quindi, ha un importante ruolo nella formazione di capitale umano; quarto, il settore informale [30] crea domanda di lavoratori semispecializzati e non specializzati che cresce in termini assoluti ed è quindi, improbabile che vi siano assorbimenti dal settore formale con la sua crescente domanda di forza lavoro specializzata; in quinto luogo, è più probabile che il settore informale usi tecnologie appropriate e utilizzi risorse locali, permettendo una più efficiente allocazione delle risorse; inoltre, il settore informale svolge un ruolo importante nel riciclaggio dei materiali di scarto, i quali vengono ceduti al settore industriale o costituiscono beni di prima necessità per i poveri; in ultimo, la promozione del settore informale garantirebbe un aumento o nella distribuzione dei benefici dello sviluppo ai poveri, molti dei quali sono concentrati nel settore informale.Non mancano, tuttavia, degli svantaggi. Infatti incoraggiare la creazione di opportunità di reddito e di occupazione nel settore informale potrebbe aggravare il problema della disoccupazione urbana attirando più forza lavoro di quanta il settore formale e quello informale possano assorbire. Peraltro destano preoccupazione le conseguenze ambientali di attività informali che potrebbero causare inquinamento e congestione del traffico. Inoltre, l’aumento della densità di popolazione negli “slums” e nei quartieri a basso reddito, unito alla scarsità di servizi pubblici, potrebbe generare enormi problemi nelle aree urbane.I governi, quindi, dovrebbero abbandonare l’atteggiamento ostile nei confronti del settore informale e cercare di attuare politiche volte a migliorare le infrastrutture, l’accesso a tecnologie migliori e censire queste piccole imprese per una programmazione di sviluppo e di accesso a capitali per espandersi.
  3. Eliminazione delle distorsioni nei prezzi dei fattori – Esistono molte esperienze che dimostrano come l’eliminazione delle distorsioni nei prezzi dei fattori, specie per mezzo dell’eliminazione dei vari sussidi al capitale e con il blocco della crescita dei salari urbani, aumenti le opportunità di occupazione e faciliti un miglior uso delle scarse risorse di capitale esistente. Ma non è chiaro quanto in fretta e fino a che punto queste politiche funzionino; inoltre, il loro effetto sui flussi migratori deve essere ancora accertato.
  4. Scelta di tecnologie di produzione appropriate ad alta intensità di lavoro – Uno dei fattori che impedisce il successo di ogni programma a lungo termine volto a creare occupazione, sia nell’industria urbana che nell’agricoltura, è la pressoché totale dipendenza tecnologica delle nazioni del Terzo Mondo da macchinari e impianti importati dai paesi sviluppati (normalmente costruiti per risparmiare lavoro). Sforzi interni e internazionali devono essere fatti per ridurre questa dipendenza, sviluppando negli stessi paesi in via di sviluppo la ricerca e le capacità di adattamento delle tecnologie. Questi sforzi potrebbero essere legati soprattutto allo sviluppo di imprese su piccola scala, ad alta intensità di forza lavoro, sia rurali che urbane. La ricerca locale potrebbe anche incentrarsi sullo sviluppo di tecniche a basso costo e ad alta intensità di forza lavoro per costruire infrastrutture rurali come strade, sistemi di irrigazione e drenaggio e per erogare i servizi sanitari e di istruzione essenziali. Evidentemente, questo è un campo in cui l’assistenza scientifica e tecnologica dei paesi sviluppati potrebbe dimostrarsi estremamente utile.
  5. Modifica della stretta relazione attualmente esistente tra istruzione e occupazione – L’emergere del fenomeno dei “disoccupati istruiti” in molti paesi in via di sviluppo sta mettendo in discussione la correttezza di una massiccia espansione quantitativa del sistema scolastico, specie ai livelli più alti. L’istruzione formale è diventata il filtro di selezione attraverso il quale tutti coloro che vogliono aspirare a un posto di lavoro devono passare. Dato che i posti lavoro nel settore moderno crescono più lentamente del numero di coloro che terminano l’iter scolastico, diventa necessario aumentare il grado d’istruzione obbligatoria e applicare un criterio maggiormente selettivo al termine degli studi.
  6. Riduzione della crescita della popolazione tramite riduzione della povertà assoluta e della diseguaglianza insieme a una maggior disponibilità di servizi per la pianificazione familiare e di servizi sanitari rurali – Chiaramente, ogni soluzione a lungo periodo dei problemi di occupazione e di urbanizzazione del Terzo Mondo implica una riduzione degli attuali alti tassi di crescita della popolazione. Anche se le dimensioni della forza lavoro dei due prossimi decenni sono già state determinate dagli attuali tassi di natalità, “la forza d’inerzia” della crescita della popolazione si applica anche alla crescita della forza lavoro.

[30] Il settore informale è caratterizzato da un gran numero di attività di produzione e prestazioni di servizi su piccola scala, svolte individualmente da imprese familiari e che utilizzano tecnologie semplici e ad alta intensità di forza lavoro. Es. esibizione di serpenti ammaestrati, affilatura di coltelli ecc..

7 – Ruolo della donna

Alla Conferenza di Pechino nel 1995 furono presentate le valutazioni dell’ONU; ebbene, su un miliardo e 200 milioni di persone che vivono al di sotto del livello di sussistenza due terzi sono donne. Esse costituiscono il 50% degli emigrati e l’80% dei rifugiati (stime UNHCR). Nei paesi in via di sviluppo le bambine dispongono solo di un quinto delle risorse alimentari dei loro coetanei maschi; perché pregiudizialmente un figlio è considerato una futura fonte di reddito mentre lo stesso non si può dire di una figlia. Per lo stesso motivo, tra le donne si annovera anche il 70% degli analfabeti [31]. Anche al Summit della Fao è stato ripreso il tema del ruolo della donna. L’obiettivo 1.3 del Piano d’azione esplicitamente pone l’obiettivo di “assicurare l’uguaglianza dei sessi e il potenziamento del ruolo delle donne”.

[31] Le Scienze, 1996 b, p. 12.

Il ruolo della donna è cruciale. In Africa, dove predomina l’agricoltura di sussistenza e la “coltura mobile” rimane importante, quasi tutti i compiti collegati alla produzione di cibo sono eseguiti dalle donne. Mentre gli uomini della famiglia di solito eseguono i lavori iniziali di taglio degli alberi e dei cespugli su un appezzamento di terra coltivabile, le donne sono responsabili di tutte le fasi successive, che includono la rimozione e la distribuzione con il fuoco degli alberi abbattuti, la messa a dimora delle piante o la semina dell’appezzamento, il diserbo, la mietitura e, infine, la preparazione del raccolto per l’immagazzinamento o il consumo immediato. Secondo Boserup le donne africane eseguono la maggior parte dei lavori agricoli; in alcuni casi la percentuale svolta dalle donne è di circa il 70% e in altri l’80%. Inoltre, contribuiscono anche alla produzione di raccolti destinati alla vendita, di solito nelle piantagioni. Sono spesso forza lavoro di riserva disponibile per i lavori agricoli stagionali o a tempo parziale come il diserbo e il raccolto. Generalmente, la loro funzione si esplica nelle piantagioni al fine di soddisfare i bisogni di sussistenza, mentre gli uomini lavorano nelle piantagioni circostanti o nelle città per cercare di ottenere redditi monetari.

Al contrario, la donna asiatica produce la quota maggiore dei prodotti commerciati e dà un contributo minore alla produzione per l’autoconsumo. Nello Sri Lanka e in Cambogia, ad esempio, le donne costituiscono più del 50% della manodopera delle piantagioni, in Malaysia e in India sono più del 40% e in Pakistan e nelle Filippine circa il 35%. La base materiale di questa inversione dei ruoli sta principalmente nei metodi differenti di coltivazione utilizzati nei due continenti. In Africa, il sistema di agricoltura mobile dà la possibilità di produrre quanto serve alla sussistenza con un minor apporto di lavoro per unità di terra; ciò consente alle donne di eseguire praticamente da sole tutte le attività agricole di sussistenza, mentre gli uomini lavorano nelle piantagioni. Nelle regioni densamente popolate dell’Asia, anche una grande quantità di lavoro umano su appezzamenti relativamente più piccoli è insufficiente a produrre abbastanza per l’autoconsumo della famiglia. Di conseguenza, tutta la famiglia deve spesso trasferirsi in una piantagione dove ogni membro abile deve lavorare nella produzione di raccolti destinati alla vendita per ottenere il reddito necessario alla sopravvivenza della famiglia stessa.

Nel settore agricolo sia africano che asiatico, pertanto, le donne devono portare un pesante fardello. Questo carico di lavoro è inoltre aggravato dalle loro responsabilità nella casa: lavori domestici, preparazione del cibo e cura dei bambini, compiti che hanno un significato ben differente da quello che noi siamo soliti considerare. “Lavoro domestico” può comprendere attività come il trasporto dell’acqua su lunghe distanze, la raccolta di pesanti carichi di legna da ardere o il lavaggio degli abiti in un corso d’acqua. La “preparazione del cibo” può voler dire molte ore di lavoro giornaliero per pulire e macinare cereali e cucinare su un piccolo fuoco con ben pochi utensili. “Curare i bambini” di solito significa badare a molti bambini in tenera età e, contemporaneamente, allattare i più piccoli. Sia in Africa che in Asia, quindi, le donne delle aree rurali lavorano per più ore degli uomini, sia dentro che fuori casa.

Una delle principali cause del pesante carico del lavoro delle donne nel settore agricolo di molti paesi in via di sviluppo è l’inefficienza relativa con cui sono costrette a svolgere i loro compiti per la mancanza di capitale e tecnologia. Sfortunatamente ben pochi sforzi vengono fatti per aumentare la produttività delle donne. La maggioranza dei programmi di sviluppo sono volti ad aumentare la produttività dei maschi nel settore agricolo. E’ agli uomini che di solito è dato accesso al credito ed è a loro che vengono insegnati i moderni metodi di produzione, mentre le donne continuano ad utilizzare metodi di coltura tradizionali [32].

[32] Todaro, 1981, p. 345 e ss.

Alla III Conferenza ONU sulla donna di Nairobi (1986), già si sottolineava la necessità di quantificare il contributo non remunerato delle donne nell’agricoltura, nella produzione di cibo, nella riproduzione e nelle attività domestiche. Addirittura cinque anni prima, nella conferenza di Copenaghen organizzata a metà del decennio dedicato alla donna, l’ONU riconosceva che la popolazione femminile svolge due terzi del totale delle ore di lavoro (remunerato e non), ricavandone soltanto il 10% dei redditi e disponendo di meno di un centesimo di proprietà delle terre. Negli ultimi anni, in seguito alle politiche di consolidamento del debito, in molti paesi del Terzo Mondo la situazione è ancora peggiorata. La donna è sempre più penalizzata nell’accesso all’occupazione e all’istruzione e, d’altra parte, sfavorita dalla riduzione delle risorse alimentari, abitative e sanitarie. Inoltre, il lavoro di sussistenza delle donne rurali che producono per il consumo familiare e quello delle donne artigiane che producono oggetti per la vita quotidiana non rientrano nei modelli di sviluppo che le potenze economiche hanno disegnato per i poveri, sicché la politica dello sviluppo ha coniugato un aumento del lavoro femminile con una diminuzione dell’occupazione e un minor accesso al reddito.

Oggi, tuttavia, qualcosa si sta muovendo anche nei paesi in via di sviluppo. Ne è testimonianza la massiccia partecipazione, alla Conferenza di Pechino, di associazioni femminili e Organizzazioni non governative anche in presenza delle donne dei paesi arabi e di quelli asiatici, che per tradizioni sociali e religiose soffrono forse in maggior misura di pregiudizi e discriminazioni.

Proprio nel doppio ruolo produttivo e domestico e, ancora più specificamente, nel riconoscimento del lavoro non retribuito (uno dei punti focali della Conferenza di Pechino), convergono realtà dalle esigenze così diverse. Secondo Andrée Michel [33], sociologa e direttrice onoraria presso il CNRS francese, “donne al Nord condividono con donne del Sud un sentimento di alienazione rispetto a questa realtà: essere il “secondo sesso” segregato e subordinato è insieme la condizione comune e un’eccellente base per un lavoro collettivo che dovrebbe consistere nello scambiarsi informazioni, nel creare gruppi di pressione capaci di influenzare i Governi e di creare scambi fra donne”.

La speranza è che le “silenziose donne del Sud” non diventino, all’interno dei gruppi di pressione, “il secondo sesso”.

[33] Le Scienze, 1996 b, p. 13.

8 – Conclusioni

Secondo alcuni, la superficie agricola è supersfruttata e non è sufficiente a sfamare la popolazione, la cui crescita è inarrestabile e causa di inquinamento e guerre.

Tale teoria tende ad estremizzare troppo il problema. Sembra dire che “il pianeta è per pochi” e che, se non si agisce sulla popolazione con strumenti adeguati (quale ad esempio, la sterilizzazione obbligatoria), il pianeta arriverà a un punto di non ritorno.

Costruire un’ideologia “contro l’uomo” è pericoloso.

Una campagna di “istruzione” dello strumento di pianificazione che garantisce la libertà nell’uso e nella scelta dei mezzi, al di là di condizionamenti politici, economici, sociali e religiosi è sicuramente espressione del più elevato principio del rispetto della persona umana.

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