Rivoluzione verde e ambiente
Indice
Capitolo terzo
LA RIVOLUZIONE VERDE E L’AMBIENTE
1 – Le stime della Fao: tra produzione alimentare, rivoluzione verde e impatto ambientale
Secondo la Fao [34], la popolazione mondiale aumenterà dagli attuali 5 miliardi e 800 milioni agli 8,3 miliardi nell’anno 2025, mentre la disponibilità pro capite di terra per la produzione alimentare continuerà a diminuire; la capacità scientifica ed i mezzi tecnologici per ottenere cibo per tutti ci sono, ma politiche governative miopi e la ineguale distribuzione della ricchezza e delle risorse hanno condotto in diversi casi ad impatti ambientali che avrebbero potuto essere evitati.
La “rivoluzione verde”, iniziata negli anni ’60, è generalmente considerata una realizzazione tecnologica mondiale i cui effetti si fanno ancora sentire. L’aumento su vasta scala della produzione alimentare e della produttività è stata resa in parte vana dall’aumento demografico e dalla riduzione delle terre agricole disponibili e, quindi, la sfida è volta a continuare l’aumento della produttività e a dare ai paesi più poveri che soffrono di insicurezza alimentare i mezzi necessari per farlo.
[34] Fao, 1996 b, cap. 6 e 11.
La Fao sostiene che le popolazioni di questi paesi non sono in grado né di produrre in quantità sufficiente né di comprare da altri produttori, perché il loro potere d’acquisto è scarso. Nei periodi di dissesto i viveri possono non essere semplicemente disponibili, a qualsiasi prezzo. Le preoccupazioni di preservare l’integrità degli habitat naturali, che freneranno sensibilmente l’espansione delle terre riservate all’agricoltura, renderà necessario trovare altri modi per nutrire la popolazione mondiale. Sono stati proposti diversi possibili “scenari” (McCalla, 1994). Essi costituiscono due gruppi distinti:
- la prima prospettiva, suppone l’avanzamento dei negoziati dell’Accordo generale sulle tariffe doganali e il commercio (WTO). In questa prospettiva, la crescita sostenuta dal commercio mondiale permetterà ai paesi del Sud con deficit alimentare di produrre ed esportare beni industriali e servizi, che consentiranno loro di procurarsi, importanti quantità di viveri presso i paesi del nord, che ne hanno in eccedenza. Un buon numero di questi paesi sviluppati, ricchi, hanno un potenziale produttivo considerevole non sfruttato, nonostante le capacità tecniche e le infrastrutture commerciali. Per far sì che le derrate alimentari arrivino realmente alle popolazioni in situazione di insicurezza alimentare nei paesi poveri, sarà necessario elaborare delle politiche efficaci in materia di sicurezza alimentare, che garantiscono ai poveri delle campagne, come delle città, un migliore approvvigionamento alimentare per la creazione di nuove possibilità di reddito e d’impiego, fornendo loro un migliore accesso alla nutrizione. Se gli scambi Nord-Sud sono suscettibili di miglioramento, la sicurezza alimentare nazionale dei paesi in via di sviluppo potrà migliorare ma non è detto che i gruppi più poveri ne saranno i beneficiari, a meno che non si intervenga a tal fine;
- la seconda prospettiva, che molti analisti (come peraltro la Fao) stimano più realistica, suggerisce che i paesi svantaggiati del Sud accrescano considerevolmente la loro produzione alimentare e in proporzioni che permettano di ridurre particolarmente l’insicurezza alimentare. Per raggiungere questo obiettivo, possono essere proposti diversi meccanismi:
- moltiplicare le attività di ricerca e di sviluppo agricolo, intesi ad accrescere la produttività per ettaro di terreno e per unità di lavoro;
- migliorare, tramite l’intermediazione di organizzazioni governative e non, i servizi di divulgazione che permettano agli agricoltori di trarre profitto dai risultati di ricerca e dai progressi tecnologici;
- migliorare le infrastrutture e il contesto socioeconomico, adottando alcune politiche (per esempio, in materia fiscale, di fondi di gestione, di partecipazione popolare, nel campo del credito e del rafforzamento istituzionale) grazie alle quali l’insieme della comunità potrà accrescere la produzione per un periodo di lunga durata.
I punti salienti tracciati dalla Fao possono essere riassunti così:
- durante il periodo 1963-1983 (gli anni chiave della rivoluzione verde), la produzione totale di riso, grano e mais dei PVS è aumentata rispettivamente del 3,1%, 5,1% e 3,8%. Nel corso dei dieci anni successivi (1983-1993), la crescita di questa produzione è rallentata, passando rispettivamente a 1,8%, 2,5% e 3,4%;
- le tecnologie della rivoluzione verde hanno comunque posto dei problemi, anche se varietà di piante ad alto rendimento hanno spesso rimpiazzato vecchie colture e non è certo che il mondo abbia realmente sofferto di un’erosione genetica significativa;
- la diminuzione dei prezzi reali è scesa negli ultimi trenta anni ed ha aiutato più i poveri che i ricchi;
- la rivoluzione verde ha consentito una maggiore produzione nelle aree rurali;
- la nuova tecnologia e le nuove strutture economiche hanno modificato il ruolo tradizionale delle donne all’interno dei sistemi agricoli;
- studi compiuti da Lipton rimuovono le affermazioni di Freebairn (“con la rivoluzione verde c’è stato un aumento delle ineguaglianze nel reddito”), sottolineando che il peggioramento delle diseguaglianze nel reddito non dipendono dalla nuova tecnologia;
- l’aumento dell’urbanizzazione unita all’espansione dei mercati, e la crescente presa di coscienza politica dell’aumento del numero di individui in situazione di insicurezza alimentare in Africa sembrano offrire, ora, condizioni più favorevoli per l’elaborazione e l’applicazione delle tecnologie nuove e appropriate;
- compete ai servizi nazionali di divulgazione mettere in pratica le condizioni che incoraggeranno le organizzazioni non governative (ONG), le industrie agroalimentari, i media, le istituzioni scolastiche e i gruppi di coltivatori a mettere a punto sistemi complementari per la diffusione delle innovazioni e della capacità tradizionale rimessa in uso. Sarà necessario elaborare formule nuove per migliorare l’efficacia e la pertinenza dei servizi di divulgazione nei PVS.
La nuova rivoluzione verde si pone come obiettivo anche quello di ridurre gli scarti di rendimento e le perdite importanti, registrate durante e dopo le operazioni di raccolto (e che determinano un’ulteriore diminuzione – da un decimo a un terzo secondo le colture, il costo e i materiali – della produzione di viveri destinati al consumo). Per poterlo raggiungere confiderà in nuovi mezzi per comunicare con i coltivatori, nella modernizzazione dei sistemi di divulgazione e nella revisione delle politiche seguite in questo campo. In particolare, gli sforzi intesi a ridurre la povertà incoraggeranno gli agricoltori privi di risorse ad investire nei sistemi di preservazione del suolo e dell’acqua. Le misure realizzate con l’aiuto dei divulgatori hanno dato dei buoni risultati a livello delle attività di divulgazione e converrà continuare questo percorso.
Il rapporto della Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo (1987) (la Commissione Brundtland) e l’Agenda 21 della Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo (UNCED) (1992) hanno riconosciuto che l’agricoltura e lo sviluppo rurale sono questioni prioritarie da risolvere per conseguire uno sviluppo sostenibile. Per un uso sostenibile delle risorse naturali è necessario che il progresso tecnologico abbia come supporto politiche ambientali e sociali. Si dovrebbero modificare i modelli di sfruttamento del suolo, utilizzando alcune terre in modo più intensivo ed altre meno. In generale, i paesi dovrebbero sfruttare le terre a più alto potenziale per la produzione alimentare e cercare di distribuire equamente i benefici.
Una larga parte delle scienze e delle tecnologie disponibili per la produzione alimentare sono state sviluppate in paesi (o in centri di ricerca) che hanno condizioni ambientali, sociali ed economiche diverse da quelle in cui vengono oggi applicate. Quindi, sebbene esistano tecnologie che consentano di aumentare la produzione senza danneggiare l’equilibrio ambientale, molte di queste richiedono dei cambiamenti radicali dei meccanismi utilizzati per svilupparle e trasmetterle agli agricoltori.
Un aumento della produttività unito alla salvaguardia ambientale è necessario e realizzabile attraverso l’uso di appropriate combinazioni di strumenti biologici, sociali, tecnologici ed economici per la pianificazione dell’uso partecipativo della terra, la conservazione del suolo e dell’acqua, il controllo degli sprechi, l’adozione di sistemi integrati di produzione, i collegamenti tra la ricerca, l’educazione ed i servizi di consulenza agricola, ed una riforma dell’amministrazione della terra.
Per un’agricoltura compatibile con la salvaguardia dell’ambiente, diventa prioritaria l’adozione di sistemi di produzione più integrati, uniti ai meccanismi che consentano loro di funzionare e ad un uso migliore dei mezzi di produzione esterni. Sebbene questi ultimi implichino un certo rischio di degrado ambientale, se utilizzati in modo appropriato possono potenzialmente accrescere la produttività e la sicurezza alimentare e, al contempo, diminuire la pressione esercitata sulle altre terre. L’irrigazione, le varietà migliorate e gli agenti agrochimici contribuiscono in modo sostanziale alla produzione alimentare – il 36% di tutti i raccolti ed il 50% di quelli cerealicoli provengono da terre irrigate. Non è stata, tuttavia, sufficientemente sottolineata l’importanza dei meccanismi che mettono in grado i fruitori di gestire i mezzi di produzione esterni in modo sicuro. E’, quindi, necessario ribadire l’importanza della formazione e dell’educazione degli agricoltori, del sostegno tecnico e delle relative infrastrutture, per ridurre al minimo gli impatti ambientali negativi.
E’ stato ampiamente dimostrato che le innovazioni vengono accettate rapidamente se gli agricoltori le trovano vantaggiose. La sfida da affrontare è, quindi, quella di concepire innovazioni e incentivi che siano economicamente remunerativi per i singoli produttori e al contempo non danneggino l’ambiente e risultino vantaggiosi per la società nel suo insieme. La lotta biologica integrata (IPM) ed il sistema integrato per il nutrimento delle piante (IPNS) sono chiaramente in linea con questi criteri, ma richiedono un attivo coinvolgimento da parte degli agricoltori, degli addetti ai servizi di consulenza agricola e degli scienziati.
I governi devono gestire questo complicato processo utilizzando tutti i mezzi a loro disposizione, incluse le tecnologie e gli appropriati strumenti politici, per incoraggiare gli agricoltori, i mercati, le industrie alimentari, gli istituti di ricerca, i consumatori ed altri a rendere lo sviluppo agricolo un’attività compatibile con l’ambiente.
E’ possibile stimolare una presa di coscienza e raccogliere consensi sui metodi di produzione compatibili con l’ambiente attraverso:
- l’adozione di terminologie locali per dare consigli agli agricoltori e a coloro che usufruiscono della terra;
- l’organizzazione di seminari per identificare i problemi e intensificare lo scambio di informazioni tra agricoltori ed amministratori;
- l’instaurazione di un dialogo attivo con gli agricoltori sull’uso della loro terra;
- lo stanziamento di un budget operativo adeguato per l’educazione agricola e per dei migliorati metodi di produzione alimentare;
- la formazione del personale addetto ai servizi di consulenza agricola, affinché promuova dei sistemi di produzione integrati ed un uso della terra compatibile con l’ambiente.
I governi dovrebbero collaborare con gli agricoltori e con gli altri produttori di generi alimentari, con le imprese e le istituzioni non governative per aumentare la quantità e la qualità del cibo disponibile per i contadini poveri. Questo obiettivo si può concretizzare:
- favorendo pratiche compatibili con l’ambiente attraverso incentivi che promuovano un uso efficiente dei mezzi di produzione e la consapevolezza ambientale, attraverso l’educazione e la formazione;
- evitando di adottare politiche miopi che incoraggino i produttori ad utilizzare metodi di produzione non sostenibili e sviluppando, invece, delle politiche che sostengano le migliori pratiche di sfruttamento della terra ed una più equa distribuzione delle risorse;
- trasformando la piccola azienda agraria in un’impresa competitiva e produttiva, concentrando la produzione alimentare in aree ad alto potenziale, sviluppando le zone rurali e promuovendo la diversificazione del reddito, attraverso lo sviluppo dell’agroindustria, della bioenergia e dell’acquacoltura;
- valutando il potenziale di produttività alimentare all’interno ed intorno ai centri urbani e realizzando dei “progetti pilota” per produrre più cibo vicino al luogo in cui viene consumata una maggiore quantità;
- migliorando le infrastrutture per sostenere le imprese agricole affinché impieghino efficientemente per la produzione alimentare sementi di qualità, fertilizzanti e attrezzature, e rafforzando e attrezzando il personale addetto ai servizi di consulenza agricola affinché promuova pratiche di gestione dell’ambiente.
E’ essenziale che i metodi migliori e tutte le condizioni necessarie ad una produzione alimentare sostenibile si diffondano e vengano adottati rapidamente. Quest’obiettivo dipende da tre elementi decisivi: un efficiente uso delle risorse, l’esistenza di strutture per la pianificazione e la realizzazione ed una corretta amministrazione.
Gli obiettivi dell’Agenda 21 verranno realizzati soltanto se la tecnologia e la politica si uniranno alla volontà di partecipazione, all’equità ed al dialogo, creando meccanismi di sostegno, attribuzione di poteri e misure incentivanti. Questa strada condurrà ad uno sfruttamento dell’agricoltura compatibile con l’ambiente e alla sicurezza alimentare. Senza il rispetto di questi principi, gli importanti strumenti politici e tecnologici disponibili non potranno avere alcun effetto positivo duraturo.
2 – Cos’è la “rivoluzione verde”
Nel 1944, in Messico, un team di esperti cercò di selezionare alcune varietà di piante con una resa più alta. Già nella metà degli anni ’50 si ebbero dei buoni risultati. La ricerca sulla “pianta ad alta resa” (HYV: high yielding variety) ha condotto a due scoperte che hanno portato aumenti nei rendimenti tanto rilevanti da giustificare il termine “rivoluzione verde”.
La prima fu del Dr. Norman Borlaug dell’Università dello Stato di Iowa che operava presso il centro internazionale per il mais e il grano (CIMMYT), finanziato dalla fondazione Rockfeller e Ford, in Messico. Questi, infatti, nel 1970 vinse il Premio Nobel per la pace per la scoperta del grano messicano a stelo corto (che non si piega dopo un abbondante applicazione di fertilizzanti). Questa varietà di grano ha permesso anche di sconfiggere la ruggine che provocava la malattia della pianta. La ricerca originaria doveva essere applicata soltanto in Messico, ma i minuscoli geni, denominati “Norman 10”, importati dal Giappone attraverso gli Stati Uniti si sono ben presto adattati alle condizioni climatiche e ambientali dei vari continenti. Infatti, in più di tre quarti degli acri coltivati a grano è attualmente adottata la nuova varietà. L’India è diventata autosufficiente nella produzione di grano mentre poco tempo prima ne era il secondo paese importatore.
La seconda scoperta fu la coltura di riso ad alta resa avvenuta presso l’IRRI (International Rise Research Institute) nata sempre da un progetto congiunto della fondazione Rockefeller e Ford. Si cercava una varietà ibrida che avesse diversi attributi: in particolare una precoce maturazione (in modo da poter ottenere due o tre raccolti l’anno invece di uno o due); e una conformazione diversa (la pianta doveva essere a stelo corto e più robusta in modo da sopportare un maggior peso del riso). Con l’ampia applicazione di fertilizzanti e abbondante irrigazione, la vecchia pianta di riso, sottile e alta, tendeva a crollare non appena aumentava il peso e a marcire nell’acqua sottostante. La soluzione fu raggiunta dopo lunghissimi tentativi, come prova il nome attribuito all’ibrido che ne è derivato. Presso l’istituto, l’ottavo incrocio nella duecentottantesima fila, della pianta numero tre (IR-8-288-3), fu realizzato da Hank Beachell del Beaumont (Texas) da una varietà indonesiana chiamata peta e da un’altra proveniente dall’isola di Taiwan chiamata dee go woo gen. Quest’incrocio fu ottenuto nel 1966. Con la giusta applicazione di acqua e fertilizzante la resa era da tre ad otto volte superiore. Alla versione IR-8 si è aggiunta una nuova versione migliorata IR-20. La nuova varietà colturale ha apportato un considerevole profitto nel bilancio annuale dell’IRRI di 15 milioni di dollari, che (nel 1984) ha finanziato ulteriori programmi di ricerca con l’occupazione di 44 scienziati senior.
I risultati sono stati sorprendenti. In Pakistan ed in Turchia, ad esempio, la produzione di grano è cresciuta al tasso dell’8% ed anche più, superando di molto il tasso di crescita demografico. I coltivatori pakistani hanno verificato che i loro rendimenti sono aumentati del 90% nel periodo 1965-80, dopo quindici anni di rendimenti decrescenti. La stima mondiale totale della piantagione delle nuove varietà di grano era pari a 200 acri nel 1965, 31 milioni nel 1968, e 50,5 milioni nel 1971. Nel 1980 il grano ad alta resa copriva il 70% della superficie coltivata in India, e raggiungeva l’82% in Pakistan. Le vecchie abitudini di raccolto sono state infrante. In India sono stati registrati numerosi casi di furto di nuovi semi, un aumento di quindici volte nell’uso di fertilizzanti (dal 1960 ad oggi), meritando un commento molto appropriato del Ministro per l’Agricoltura, il Dr. Subramaniam, secondo cui il contadino indiano considerato così attaccato alle sue tradizioni aveva mostrato di saper reagire al mutamento [35].
Il successo di questi istituti è stato di guida alla creazione di altri centri internazionali di ricerca che alla fine degli anni ’80 erano circa 13 volti a migliorare l’agricoltura nel Terzo Mondo, sponsorizzati particolarmente da fondazioni e agenzie governative.
La notevole velocità con cui le varietà di frumento e di riso si sono sviluppate nel Terzo Mondo è stata chiamata da William S. Gaud, amministratore della US Agency for International Development, “rivoluzione verde” [36].
[35] Hogendorn, 1990, p. 343 ss in nota 51, il quale, tuttavia, sottolinea
che la maggior parte degli studi ora riportati tendono ad esagerare gli
aumenti di ricavo prodotti dalle varietà ad alta resa nella misura in cui
citano i dati sperimentali dimostrativi anziché i dati tratti sul campo.
[36] Phillips Foster, 1992, p. 152 ss.
3 – La relazione tra “rivoluzione verde” e ambiente
• Effetti sulle componenti naturali, l’alimentazione e la salute
La “rivoluzione verde” [37] ha comportato innovazioni tecnologiche a livello meccanico, chimico, biologico ed agronomico, con le seguenti conseguenze:
[37] Marzano, Mellano, Tenenbaum, 1994, p. 242 ss.
- l’introduzione di HYV ha comportato rischi di impoverimento della varietà del patrimonio colturale indigeno a causa dell’abbandono repentino delle varietà locali: almeno in un primo tempo si è verificata una maggiore vulnerabilità agli attacchi dei parassiti rispetto alle varietà indigene (anche per la diffusione della monocultura) e, quindi, una maggiore esposizione al rischio di perdite del raccolto; di conseguenza si è avuta un’ulteriore spinta a favore dell’uso massiccio di pesticidi; la forte propensione alla produzione di cereali ha comportato la sostituzione di queste colture a danno di altre importanti dal punto di vista alimentare, in particolare delle leguminose, determinando un calo nell’apporto proteico nelle diete per larghi strati di popolazione in Asia e America Latina, con conseguenze per la salute soprattutto dei bambini (Colombo e Triolo, 1987); la pressione sulle risorse naturali (acqua e terra) è notevolmente aumentata; l’incidenza di fenomeni di erosione dei suoli aumenta nelle aree coltivate, soprattutto se prevale la monocultura;
- l’uso massiccio di prodotti chimici come pesticidi (diserbanti, insetticidi, ecc.) ha comportato effetti sulle componenti ambientali (inquinamento delle acque e del suolo) e sulla salute umana sia per contaminazione diretta dovuta ad inadeguata protezione durante l’utilizzo delle sostanze (non di rado di nocività tale da essere state bandite nei paesi industrializzati) sia attraverso l’alimentazione. Particolarmente esposti risultano essere i bambini e le donne nella fase di allattamento, sia a causa di pratiche quali l’irrorazione non controllata, sia della concentrazione di residui chimici nel latte materno. L’uso indiscriminato di DDT e altri insetticidi ha operato una selezione nelle popolazioni di insetti che hanno sviluppato resistenza a tali sostanze, comportando a volte un aumento dell’incidenza di malattie come la malaria.L’impiego massiccio e prolungato di fertilizzanti può avere effetti negativi sulla fertilità del suolo e causare inquinamento delle acque; in particolare, l’azoto contenuto nei fertilizzanti è soggetto a trasformazioni quali la nitrificazione e la denitrificazione [38]. Durante questi processi avviene la formazione di N2O (ossido nitroso) e N2, l’ossido nitroso può essere rilasciato nell’atmosfera o raggiungere acque di superficie o di falda attraverso la percolazione. Byrnes rivela che l’inquinamento delle falde da nitrati ha interessato principalmente le regioni contraddistinte, oltre che da una particolare consistenza dei terreni, da alti tassi di fertilizzazione o concimazione in aree soggette a consistenti precipitazioni o intensa irrigazione. Fra le aree agricole dei PVS interessate da questo problema egli indica il Punjab e Giava (Byrnes, 1990). Inoltre, i fosfati contenuti nei fertilizzanti possono determinare l’eutrofizzazione di corsi d’acqua e provocare eccessive assunzioni di cadmio (con effetti dannosi sulle funzioni renali) da parte delle popolazioni. Si segnalano anche problemi di impoverimento dei suoli connessi al drenaggio delle riserve di zolfo contenute nei terreni attraverso l’aumento delle rese ottenuto grazie all’uso di fertilizzanti contenenti potassio, fosforo e azoto ma, per l’appunto, privi di zolfo (Craswell e Karjalainen, 1990); lo stesso fenomeno è stato osservato con riferimento a vari micronutrimenti quali zinco, rame, ferro mobildeno, manganese ed altri, la cui carenza può determinare cali di rese (Shiva, 1991). Crescente attenzione viene inoltre dedicata al contributo all’inquinamento atmosferico delle emissioni di NOx indotte dai fertilizzanti, con particolare riguardo alle questioni connesse con “l’effetto serra”.[38]Col termine “nitrificazione si intende una serie di reazioni mediante le quali alcune specie di batteri ossidano lo ione ammonio (NH4+) a nitrito (NO2-) o il nitrito a nitrato (NO3-). Il processo inverso con cui i nitriti o i nitrati sono ridotti a composti gassosi come azoto molecolare (N2) o protossido d’azoto (N2O) si chiama denitrificazione”.
Contaminazioni accidentali causate da sostanze chimiche per uso agricolo avvengono non solo durante le fasi di utilizzo dei prodotti ma anche di trasporto, immagazzinamento e produzione, riguardo anche agli ambiti domestici e coinvolgendo fasce di popolazione di varia ampiezza; nonostante l’uso di tali sostanze sia molto più diffuso nei paesi industrializzati, i PVS registrano la quasi totalità dei casi di morte per intossicazione acuta da pesticidi. Inoltre, la carenza e la scarsa accessibilità di strutture sanitarie contribuiscono ad aggravare la situazione e caratterizzano le intossicazioni da pesticidi come uno dei maggiori problemi sanitari per tali paesi, basti pensare che l’Indonesia e il Brasile hanno registrato negli anni ottanta rispettivamente il 28% e il 16% del totale dei casi di intossicazione acuta da pesticidi, a fronte del 5% del Regno Unito e dello 0,8% degli USA. Solo alcuni tra i PVS hanno avviato programmi industriali per la produzione di tali sostanze (fra questi India, Cina, Indonesia e Brasile), ma l’inadeguatezza delle misure, sia per quanto riguarda le condizioni di lavoro che la localizzazione e manutenzione degli impianti, è spesso causa di gravi incidenti (esemplare è il caso di Bhopal) e, in generale, di un’alta incidenza delle malattie professionali.
Quindi, le nuove coltivazioni, richiedono un attento e pesante impiego di fertilizzanti per i quali l’analfabetismo rappresenta un handicap come i costi [39];
[39]Hogendorn, 1990, p. 349.
- la diffusione dell’irrigazione è stata accompagnata da effetti dannosi sulla fertilità del suolo a causa dei depositi di sale, favorendo in certi processi di desertificazione; effetti sulla salute sono derivati dalla realizzazione di bacini, con la creazione di specchi d’acqua permanenti, di altre opere per l’irrigazione che hanno determinato forti aumenti nella diffusione di malattie come la malaria, la schistosomiasi, l’oncocercosi e la malattia del sonno [40]. Tali effetti possono essere derivati da insufficienze sia nella progettazione di canali, (ad esempio non considerando gli effetti dell’inclinazione dei canali per l’irrigazione sulla velocità dell’acqua e quindi sulla possibilità di riproduzione degli insetti nocivi), che nella manutenzione e pulizia degli stessi. Inoltre, tali opere, riducendo la diversità degli habitat, possono favorire una specie di zanzare piuttosto che un’altra, con il rischio in taluni casi di trasformare una malattia stagionale, come la malaria, in una malattia permanente (UNEP, The State of the Environment, 1986);[40]Marzano, Mellano, Tenenbaum, 1994, p. 242 ss.
- i processi di modernizzazione dell’agricoltura influiscono su molteplici istituzioni locali, in particolare nelle aree contrassegnate da un forte dualismo del settore agricolo dove l’economia di sussistenza riguarda ampie fasce di popolazione, ma allo stesso tempo operano aziende orientate alla produzione per il mercato, spesso con colture destinate all’esportazione. Nell’ambito dell’economia di sussistenza le istituzioni di proprietà comune rappresentano un elemento strettamente connesso con la qualità ambientale, poiché caratterizzano i modelli di sfruttamento delle risorse naturali, sia a livello locale dell’economia di villaggio, che a livello interregionale come avviene a volte per le attività legate al nomadismo e all’uso di risorse idriche. Esse contraddistinguono una situazione diversa da quella del puro e semplice libero accesso alle risorse senza restrizioni di sorta, in quanto implicano un insieme di regole che specificano i diritti d’uso.Il processo di modernizzazione legato alla “rivoluzione verde” può influire su tali istituzioni creando conflitti tra usi collettivi e privati delle risorse, specialmente acqua e terra, ad esempio attraverso un’espansione della domanda di terre per uso agricolo e di acqua per l’irrigazione. Tali conflitti, oltre ad opporre gruppi sociali diversi, in molte società possono riguardare gruppi tribali ed etnici tradizionalmente legati all’esercizio di una particolare attività. Le convenzioni e gli usi locali che regolano l’accesso e la proprietà comune delle risorse possono venire modificati da tali trasformazioni con esiti non definibili a priori per quanto riguarda la pressione sulle risorse stesse e la loro conservazione (Runge, 1986).
• Effetti sul reddito e l’occupazione
Le trasformazioni socioeconomiche possono avere conseguenze rilevanti per l’ambiente [41], soprattutto in paesi densamente popolati in cui le attività agricole rappresentano la principale fonte di occupazione e, a maggior ragione, se alla pressione sulle risorse e gli equilibri naturali di carattere endogeno si aggiunge quella esercitata da prodotti, tecnologie e modelli produttivi e culturali maturati in condizioni ambientali completamente differenti.
[41] Marzano, Mellano, Tenenbaum, 1994, p. 247.
L’adozione di HYV determina effetti sull’occupazione a livello aziendale, extra-aziendale e macro-economico, come segnalato da Lipton, aumentando il prodotto per raccolto e il numero dei possibili raccolti, richiedendo di conseguenza maggiori input di lavoro e capitale, provocando aggiustamenti dei fattori produttivi, modificando le funzioni di offerta e domanda delle merci e quindi del lavoro nonché la propensione al consumo, aumentando il prodotto nazionale lordo.
Occorre comunque considerare che in genere non si tratta unicamente della modifica di un input (HYV), ma dell’adozione di un pacchetto tecnologico le cui parti possono essere più o meno sviluppate a seconda dei casi, con effetti variabili sull’occupazione. Ad esempio un maggiore ricorso alla meccanizzazione e ai diserbanti può contrastare l’incremento di domanda di lavoro.
Per quanto riguarda gli effetti distributivi dell’adozione di HYV e relativi inputs tecnologici, sono possibili varie osservazioni. In particolare:
- sono risultati sfavoriti i paesi, le regioni, le aziende con dotazione di risorse agricole minori per quantità e/o qualità, i quali hanno visto peggiorare la loro posizione relativa; altrettanto si è verificato per i paesi e le regioni svantaggiate dal punto di vista della dotazione di tutte le strutture e infrastrutture necessarie alla conservazione e commercializzazione dei prodotti;
- le HYV, aumentando il prodotto totale anche a parità di altri input, migliorano le condizioni assolute sia dei consumatori poveri che degli agricoltori poveri che producono per l’autoconsumo (che possono quindi ottenere più prodotto per unità di terra, di fertilizzante o di acqua impiegata, purché siano in grado di garantire i livelli minimi richiesti dalle nuove varietà), consentendo una maggiore disponibilità di alimenti pro-capite (o mantenendola inalterata a fronte di aumenti della popolazione) in maniera diretta o indiretta attraverso una diminuzione dei prezzi. Questo risultato dipende però, come avverte Griffin, dagli effetti sull’andamento della produzione agricola totale. Egli sottolinea come in India fra il 1964 e il 1969 soltanto la produzione di grano, fra le principali colture, fosse cresciuta ad un tasso superiore a quello della crescita demografica, rivelando una situazione di sostanziale stagnazione del settore agricolo nel suo complesso (Griffin, 1974);
- le HYV hanno in molti casi contribuito a peggiorare la situazione dei piccoli coltivatori rispetto ai grandi: (a) a causa delle differenti possibilità di accesso agli inputs o ai finanziamenti necessari per acquistarli; (b) a causa delle minor capacità di affrontare i rischi dell’innovazione e/o di una differente percezione soggettiva di tali rischi, che ha portato ad un ritardo nell’adozione. Su questo punto Griffin dissente da interpretazioni psicologiche o “culturali” sottolineando il ruolo delle diseguaglianze nella distribuzione della terra e nell’accesso agli inputs e come siano tali condizioni di diseguaglianza ad influenzare l’atteggiamento dei diversi gruppi di coltivatori nei confronti del rischio e non viceversa (Griffin, 1974); (c) a causa delle differenze nell’accesso alle informazioni (agronomiche, tecniche, finanziarie, economiche); (d) a causa del deprezzamento della terra conseguente ai peggiori risultati ottenuti dagli agricoltori che non hanno adottato le innovazioni (o che lo hanno fatto solo parzialmente). Tale situazione può anche determinare un peggioramento in senso assoluto delle loro condizioni, facilitando l’acquisizione delle terre da parte dei latifondisti e/o dei maggiori imprenditori;
- peggioramenti relativi ed assoluti per quanto riguarda il reddito reale dei lavoratori agricoli possono essersi verificati a causa della spinta che le innovazioni inducono nel settore agricolo in favore di un maggiore orientamento imprenditoriale e di mercato, determinando modificazioni nelle consuetudini che regolavano precedentemente i rapporti tra i proprietari e lavoratori a svantaggio di questi ultimi; ad esempio, l’eliminazione dei pagamenti in natura ha creato, in certe regioni del Punjab indiano, difficoltà ai contadini sia per il reperimento di foraggio che di combustibile che formavano precedentemente parte del salario, così come la scomparsa di condizioni di prestito più favorevoli da parte dei proprietari terrieri ha svantaggiato i dipendenti: “i rapporti monetari hanno sostituito la tradizione, e così facendo la sussistenza dei contadini è stata messa in forse” (Griffin, 1974).
Eccettuato il caso delle aree sfavorite dal punto di vista delle risorse e dei fattori pedoclimatici, gli effetti negativi sul reddito e l’occupazione vanno ricondotti soprattutto alle politiche a livello economico, finanziario e di assistenza attuate dai governi dei singoli paesi, dalle istituzioni internazionali, dalle compagnie multinazionali.
In ogni modo l’effetto finale sull’occupazione e il reddito viene determinato dall’insieme delle caratteristiche socioeconomiche di ciascun paese. Nel caso della Turchia, Bayri e Furtan hanno osservato che per il periodo 1960-83 la crescita del prodotto, in particolare del grano che rappresenta la coltura principale (9 milioni di ettari su un’area totale coltivata di 17 milioni nel 1983) e una componente fondamentale dell’alimentazione (oltre 200 Kg pro capite nel 1983), ha determinato un aumento dell’occupazione e dei salari reali senza migliorare la remunerazione in termini relativi del fattore lavoro.
Essi indicano come cause di tali fenomeni l’aumentata profittabilità del grano che avrebbe sostituito colture a più alta intensità di lavoro, l’alto tasso di crescita demografica e il basso rapporto terra/lavoro. Inoltre, l’incremento nella domanda di grano per il consumo interno, avrebbe impedito ai consumatori di cogliere l’effetto che l’aumento della produzione avrebbe potuto avere sui prezzi (Bayri e Furtan, 1989).
Nel caso della produzione di riso nelle Filippine, Herdt segnala invece, nella sua analisi relativa al periodo 1965-1982, come l’aumento della produzione abbia beneficiato principalmente i consumatori, nonostante il reddito reale dei lavoratori agricoli sia cresciuto in termini assoluti e relativi sia per la maggior richiesta e intensità di lavoro che per l’aumentata efficienza produttiva nel caso di pagamenti in natura e, nonostante gli aumenti nel reddito reale degli operatori agricoli, per via dei differenti andamenti dei prezzi al consumo in generale e del prezzo del riso (Herdt, 1987). Il ruolo giocato da altri fattori specifici delle realtà esaminate, quali la realizzazione di riforme agrarie e il comportamento degli agricoltori (che hanno fatto ricorso alle nuove tecnologie, adottandole come singole componenti più che come “pacchetti”), mostra ancor una volta la necessità di tener conto delle caratteristiche peculiari di ciascun esperienza.
4 – Critiche radicali alla “rivoluzione verde”
Una critica radicale alla “rivoluzione verde” viene mossa da uno studio realizzato da Shiva nella regione indiana del Punjab.
Shiva sostiene che il venir meno di un input (concimi, antiparassiti, erbicidi, acqua d’irrigazione) rende le varietà selezionate molto meno produttive di quelle tradizionali. A tal riguardo, in sostituzione alla definizione ufficiale di High Yielding Varieties, Shiva (1991) propone quella di High Responsive Varieties, in quanto “gli elevati rendimenti non sarebbero intrinseci ai semi, ma sono una funzione della disponibilità degli inputs” e, nella maggior parte dei casi, “il guadagno in termini di output appare insignificante se paragonato all’aumento dell’uso degli inputs”.
Inoltre, sorgono perplessità dal punto di vista ecologico e nutritivo quando si considera il prodotto complessivo dei sistemi agricoli tradizionali rispetto a quelli della rivoluzione verde. Mentre nei primi il momento produttivo non si separa dal mantenimento delle future condizioni di produzione, nei secondi sono trascurati sia i danni prodotti all’ambiente che incideranno sui futuri raccolti, sia la perdita di autonomia dei produttori che sostituiscono inputs rinnovabili autoprodotti (semi, concime naturale) con inputs non rinnovabili acquistati sul mercato [42].
[42] Marzano, Mellano, Tenenbaum, 1994, p. 250.
Il degrado può essere visto come fenomeno fisico, sociale e politico [43].
[43] Zappacosta, 1995, p. 29.
Dal primo punto di vista, vengono in considerazione le modificazioni quantitative e qualitative delle risorse naturali. La distruzione delle foreste o l’inquinamento delle falde acquifere sono esempi di degrado ambientale di tipo fisico.
Nella seconda accezione, si intendono non solo la qualità degli elementi naturali, ma anche i fenomeni che interessano più direttamente la sfera sociale. L’attività agricola in sé può essere annoverata tra le turbative principali degli equilibri naturali. Il processo di addomesticazione di piante e animali è una forte sollecitazione a cui è sottoposto il sistema naturale.
Il degrado ambientale viene visto come problema sociale quando l’entità degli effetti negativi modifica le strategie di consumo, di produzione e di investimento delle popolazioni. Ciò significa che si assumono due condizioni implicite: in primo luogo, che il fenomeno sia percepito e, in secondo luogo, che il soggetto percettore abbia una certa capacità di giudizio. Quindi, il degrado sociale è impregnato di soggettivismo e di ideologismo. Questo significa che differenti gruppi sociali, differenti popolazioni, generazioni e studiosi hanno una diversa percezione dei problemi e, quindi, tendono ad esporre alcuni aspetti e non altri. Ad esempio, la sostituzione della foresta con la savana viene giudicata in modo diverso da un pastore o da un cacciatore; l’agricoltore non considera degrado la sostituzione di foreste con suoli arabili.
La genesi di conflitti d’interesse che si manifesta in seguito a modifiche dell’ambiente naturale e le disparità di potere tra le classi sociali fanno sì che in molti casi il degrado ambientale da problema sociale diventi un problema politico. La capacità di risposta a situazioni di degrado ambientale da parte delle popolazioni è, infatti, vincolata dalla loro forza economica e politica: se, da un lato, i gruppi egemoni sono in grado di sfuggire agli effetti dannosi del degrado ambientale, traendone a volte anche diretto vantaggio, dall’altro, i gruppi sociali più deboli non sono nelle condizioni di rispondere in modo adeguato e sono spesso costretti ad adottare strategie che si rivelano nel tempo ancora più dannose, sia per sé stessi che per l’ambiente.
6 – Il processo di “greening” dello sviluppo economico
Il modo di affrontare le problematiche che legano ambiente e sviluppo, così come si percepisce analizzando i principali documenti ufficiali, ha subito nel corso degli ultimi trentacinque anni repentini cambiamenti. Le diverse posizioni che si sono via via susseguite in 25 anni, da Stoccolma a Rio, hanno dimostrato a volte una evoluzione organica di pensiero, integrandosi l’un l’altra, mentre a volte hanno manifestato tra di loro chiari punti di frattura.
La nascita dell’era dello sviluppo (inizialmente intesa solo come crescita) viene da alcuni identificata con una data ben precisa, il 20 gennaio 1949, allorché il presidente degli Stati Uniti, Harry Truman, pronunciò il discorso del suo mandato. In tale discorso le aree dell’emisfero del sud furono definite “sottosviluppate” in contrapposizione al mondo sviluppato, “capace” di svolgere un ruolo guida nel sistema economico mondiale. Nacquero, così, le definizioni di Primo, Secondo e Terzo Mondo [44].
[44] Zappacosta, 1995, p. 31.
Se era necessario ricorrere a delle definizioni per far capire a tutti questo sentirsi “sviluppati”, certamente sarebbe stato preferibile usare delle sigle come PPSE (paesi più sviluppati economicamente) e PMSE (paesi meno sviluppati economicamente). Infatti, non tutti i popoli pongono al centro della propria vita quelle aspirazioni materiali che, secondo il sistema occidentale, sono assolutamente necessarie. Probabilmente per i poveri (economicamente) paesi del Terzo Mondo (l’uso di questi termini è necessario in questo elaborato per la presenza di numerose fonti bibliografiche) i paesi occidentali sono “sottosviluppati” spiritualmente, ma questo poco interessa a quest’ultimi.
6.1 – Stoccolma e gli approcci neomalthusiani
Nel 1972 a Stoccolma le Nazioni Unite organizzarono la Conference on Human Environment dove venne affrontato per la prima volta il problema ambientale a livello globale [45], considerato però più nella forma che nei contenuti: la conferenza fu voluta soprattutto dai paesi scandinavi, che temevano il fenomeno delle piogge acide capaci di oltrepassare i confini nazionali. Quindi, vennero presi in considerazione i problemi dei paesi occidentali, trascurando quelli di interesse globale. Nonostante ciò, la nozione di “crisi globale”, introdotta negli anni ’60, ha contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema ambientale e sulla necessità che sia l’ecologia che l’ambientalismo, per essere operativi, devono essere inseriti in uno scenario di politica economica internazionale.
[45] Zappacosta, 1995, p. 32.
La letteratura di quell’epoca si fonda su posizioni neomalthusiane. Si afferma che la minaccia al futuro del pianeta è rappresentato dagli elevati tassi di crescita demografica. Si sostiene il principio per cui, quando la popolazione comincia ad esercitare una pressione eccessiva sulle risorse naturali, vengono ad instaurarsi automaticamente dei meccanismi di controllo “naturali” i quali, riducendo la stessa crescita demografica, allenterebbero di conseguenza la pressione sulle risorse. A sostegno di tale ipotesi viene utilizzato il concetto di carrying capacity secondo cui ogni ecosistema, sia esso naturale o prodotto dall’uomo, possiede una capacità limitata di sostenere qualsiasi forma di vita, il cui superamento determina in breve tempo il collasso dell’intero sistema.
A tale concetto si associa spesso quello di lifeboat ethics che utilizza la metafora di una scialuppa di salvataggio i cui passeggeri sono in soprannumero rispetto alle provviste: ogni tentativo di somministrare gli alimenti all’intero equipaggio sarebbe un grave errore, in quanto determinerebbe, prima o poi, la morte di tutti non potendo soddisfare nessuno. Con tali presupposti, è agevole per i sostenitori di tale etica dimostrare che l’aiuto alimentare a popolazioni che non manifestano un evidente rallentamento nella loro crescita demografica dovrebbe essere negato; esso non farebbe altro che interferire con l’azione di quei meccanismi “naturali” che dovrebbero portare la popolazione mondiale al suo livello di carrying capacity ed agevolerebbe, invece, lo svilupparsi di meccanismi di natura opposta in una sorta di circolo vizioso.
6.2 – La World Conservation Strategy
Il primo documento che ha dato una forte risonanza internazionale al concetto di sostenibilità è la World Conservation Strategy (WCS) del 1980 [46]. Obiettivo di tale documento, preparato dalla International Union for Conservation of Nature and Natural Resources (IUCN), è quello di dimostrare come la conservazione delle risorse naturali sia funzionale allo sviluppo e come quest’ultimo, allo stesso tempo, possa essere considerato tra gli strumenti principali per conseguire la conservazione e non solo come un ostacolo.
[46] Zappacosta, 1995, p. 38.
Il primo obiettivo sottolinea la necessità del mantenimento dei cosiddetti “processi ecologici essenziali”, quali il suolo agricolo, le foreste, i litorali e gli ecosistemi marini, auspicando una più razionale pianificazione ed allocazione nell’uso delle superfici.
Il secondo obiettivo riguarda la salvaguardia della diversità genetica, la quale viene vista sia sotto forma di “assicurazione” (ad esempio, nella lotta ai parassiti delle coltivazioni), che di “investimento” (ad esempio, nell’uso in futuro di biotecnologie): a tal proposito, è considerata necessaria la protezione degli ecosistemi locali e la creazione di banche di materiale genetico.
Infine, il terzo obiettivo propone l’utilizzo delle risorse naturali in modo “sostenibile”, ossia che si adottino strategie il cui tasso di utilizzazione delle risorse non ecceda mai la loro intrinseca velocità di rigenerazione. L’accezione utilizzata di sostenibilità si riferisce ad un concetto di natura essenzialmente “tecnica”, il quale si adatta particolarmente bene per le risorse naturali rinnovabili e che, pur essendo indubbiamente corretto, risulta fortemente limitante nel caso di analisi di tipo economico-sociale.
Un indubbio merito della WCS è stato quello di aver contribuito a collocare la necessità dell’uso sostenibile delle risorse al centro del dibattito di politica internazionale. Purtroppo, la WCS, limitandosi ad affermare i principi tecnologici della gestione delle risorse rinnovabili, ha fallito nel tentativo di calare il tema della sostenibilità nel contesto socio-economico. Infine, un ulteriore limite della WCS va individuato nel fatto che tale documento svolge essenzialmente un’analisi dal lato dell’offerta: assumendo la domanda come variabile indipendente ed autonoma, non sottolinea in modo adeguato che, per conseguire un modello di società sostenibile, è necessario un suo profondo ed immediato cambiamento, sia nel livello che nella struttura.
La WCS non ha rappresentato solo il tentativo di mettere insieme temi di sviluppo con idee e principi ambientalisti: può essere inquadrata in quella corrente di pensiero che va sotto il nome di “ecosviluppo” (ES). L’ES è considerato “un approccio allo sviluppo mirante ad armonizzare obiettivi sociali ed economici attraverso una corretta gestione dell’ambiente, in uno spirito di solidarietà con le generazioni future”[47].
[47] Zappacosta, 1995, p. 42.
Tra i suoi obiettivi, si rinviene la necessità di soddisfare i bisogni essenziali delle società più povere e l’importanza della partecipazione delle popolazioni locali al processo di sviluppo. Una delle caratteristiche più tipiche del pensiero dell’ES è, infatti, la centralità di uno sviluppo di tipo bottom-up, che tragga origine nelle persone che ne subiscono più direttamente i programmi, affinché si sentano attivamente coinvolte nei cambiamenti economici e sociali. Più che la necessità di un another development, viene messa in discussione l’esistenza di un sistema gerarchico tra i paesi secondo cui alcuni sono elevati a modello, mentre altri sono indotti a cercare in questi l’immagine del proprio futuro.
Una delle caratteristiche principali dell’ES, a differenza della WCS, è considerare l’impatto del problema ambientale sulle strutture economiche e sociali e sul sistema politico dei paesi del Terzo Mondo, nonché sottolineare l’importanza di un’analisi della disponibilità locale di capitale, forza lavoro e conoscenze tecniche. In particolare, viene per la prima volta posta in evidenza la necessità di includere nelle analisi la variabile “potere”: specie nel Terzo Mondo, molti progetti di ecosviluppo incontrano serie difficoltà ad essere messi in atto perché spesso intaccano gli interessi di potenti lobbies economiche e politiche.
Nonostante le novità introdotte dall’ES rispetto agli approcci tradizionali, i suoi effetti pratici sono stati molto limitati. L’ES ha dovuto pagare per del suo carattere estremamente normativo, per cui parte dei suoi obiettivi sono stati considerati utopistici e di difficile realizzazione pratica e, anche nei casi in cui sono stati recepiti in modo formale dalle agenzie internazionali, essi hanno avuto di fatto poco riscontro nella realtà.
La WCS e l’ES sono stati un “fallimento”, soprattutto per la loro natura essenzialmente teorico-normativa e scarsamente applicativa.
Alla fine degli anni ’80, è stato pubblicato il Rapporto Brundtland (RB) con il titolo Our Common Future [48]. Fa parte di una serie di studi commissionati dalle Nazioni Unite ed aventi come caratteristica comune un approccio di tipo one world system. Globalità, multilateralismo, interdipendenza tra le nazioni sono le principali parole chiave attorno a cui ruota il RB. Ciò significa aver inserito lo sviluppo sostenibile in una cornice intersettoriale, interdisciplinare ed internazionale.
[48] Zappacosta, 1995, p. 44.
Viene così apertamente auspicato che le politiche pro ambiente non siano solo ex-post, come i frequenti interventi in aree del Terzo Mondo finalizzati a riforestazione, rigenerazione dei suoli, ricostruzioni degli ecosistemi, ma che siano considerate allo stesso tempo e nella stessa misura delle altre politiche.
In secondo luogo, viene sottolineato il legame esistente tra sviluppo e degrado ambientale ed, in particolare, la rilevanza della componente politica di tale relazione. Si afferma nel RB che “la distribuzione del potere all’interno della società è al cuore di molte sfide tra ambiente e sviluppo”, ed in seguito viene sottolineata la necessità di affrontare i due gruppi di problemi simultaneamente: “l’ambiente è dove tutti noi viviamo; mentre lo sviluppo e ciò che tutti noi facciamo nel tentativo di migliorare la nostra condizione all’interno di tale cornice. Le due cose sono inseparabili”.
Fulcro della discussione del RB è la crescita economica, considerata non solo come principale soluzione dei problemi ambientali, ma anche come “vittima” di un ecosistema sempre più degradato: “Nel passato ci si è preoccupati dell’impatto della crescita economica sull’ambiente. Adesso, invece, bisogna essere preoccupati per l’impatto dello stress ecologico sulle nostre future prospettive economiche”.
Nelle pagine del RB viene in rilievo una definizione di sviluppo sostenibile, quale tipo di sviluppo in grado di soddisfare le necessità delle generazioni presenti, senza compromettere l’idoneità delle generazioni future a soddisfare le proprie. Questa definizione sembra basarsi essenzialmente su due concetti: la presenza di un problema intergenerazionale e l’esistenza implicita di limiti all’espansione dell’attività economica. Si tratta di limiti imposti dallo stato della tecnologia e delle organizzazioni sociali sulla capacità dell’ambiente di soddisfare le necessità presenti e future.
Il concetto di sviluppo sostenibile sembra subire una sottile, ma importante trasformazione, grazie alla quale viene spinto verso il contesto socio-economico dello sviluppo sotto forma di efficiente management delle risorse naturali.
In modo diverso rispetto alla WCS e all’ES, il RB centra l’attenzione della propria analisi esclusivamente sulla crescita economica e sul suo ruolo risolutore circa il problema della povertà, individuata come causa principale di degrado ambientale. Viene auspicata una rivitalizzazione dell’economia mondiale in una cornice ecologicamente corretta, peraltro non ben precisata nel rapporto, nell’intento di eliminare la piaga della povertà e, con essa, i suoi dannosi effetti sull’ambiente. Le soluzioni ipotizzate, senza spiegare come al loro interno si possa raggiungere il balancing trick con l’ambiente, poggiano su “una crescita economica più rapida sia nei paesi industriali che in quelli in via di sviluppo, un accesso al mercato più libero per i prodotti dei paesi in via di sviluppo, un tasso d’interesse più basso, un maggiore trasferimento di tecnologie, un flusso di capitale maggiore”. Si tratta di una ricetta di politica economica che suscita perplessità, se non addirittura una certa delusione, gettando ombra su quanto di positivo, invece, è presente nell’analisi del RB.
Il RB sembra trascurare una parte sostanziale del problema. Sono, ad esempio, accennati solo marginalmente i problemi legati all’accesso delle risorse, mentre l’attenzione si concentra quasi esclusivamente in modo semplicistico sul legame causa-effetto tra povertà ed ambiente: “la povertà è una delle principali cause e dei principali effetti dei problemi ambientali globali”.
Quindi, nel RB sembra maggiormente necessario sostenere la crescita economica che direttamente l’ambiente.
Alla fine degli anni ’80, riportando l’attenzione sulla globalità dei temi ambientali e sull’interdipendenza tra le nazioni, il RB afferma l’importanza di rimuovere la piaga della povertà, anche a fini ambientalistici, e propone la crescita economica come strategia principale.
6.5 – L’Earth Summit di Rio de Janeiro
Un’ulteriore occasione per il confronto internazionale in materia di ambiente e sviluppo è stata la United Nations Conference on Environment and Development (UNCED) tenutasi a Rio de Janeiro nel Giugno ’92 [49].
[49] Zappacosta, 1995, p, 50.
Nell’Agenda 21, il documento finale approvato dall’UNCED, sebbene non s’incontri una definizione esplicita di sviluppo sostenibile, sono presenti argomentazioni e strategie che sembrano offrire notevoli contributi su come, agli inizi degli anni ’90, viene interpretata la sostenibilità dello sviluppo.
Almeno nella forma, l’approccio proposto a Rio si presenta con caratteristiche decisamente terzomondiste: appare difatti in parte smussato l’accento sulla crescita economica, che nel RB era vista come soluzione di tutti i problemi; e viene apertamente denunciata la responsabilità del mondo industriale nella risoluzione dei problemi ambientali, sia attraverso una modifica dei propri modelli di consumo, individuati come i principali responsabili di un uso inefficiente delle risorse naturali, sia con l’obbligo di fornire i mezzi tecnologici e finanziari per porre rimedio alla situazione attuale. Viene comunque affermato il ruolo centrale del mercato nel determinare l’allocazione efficiente delle risorse naturali, ma solo dopo l’attivazione di un sistema di contabilità nazionale che rifletta il reale impatto dello sviluppo sull’ambiente ed il valore delle risorse naturali.
La rimozione della povertà assume anche nell’Agenda 21 un ruolo centrale, ma, in luogo della growthmania presente nel RB, viene in questo caso delineata la necessità di una strategia profondamente diversa. Rispolverando alcune tematiche che ricordano i contributi dell’ES, vengono proposte azioni locali e specifiche, la partecipazione di tutti gli strati sociali nelle attività decisionali, la creazione di occupazione rurale sia nell’azienda che fuori al fine di allentare la pressione sulle risorse e frenare l’esodo, lo sviluppo dei metodi tradizionali di coltivazione e dei sistemi agricoli di sussistenza, la creazione di servizi sociali. In particolare, viene sottolineata l’esigenza di migliorare il sistema educativo e la diffusione delle informazioni al fine di accelerare il cambiamento dei comportamenti umani.
Nella sua lunga trattazione, nell’Agenda 21 si sottolinea più volte il carattere multidimensionale dello sviluppo sostenibile, l’interrelazione dei problemi ambientali con quelli dello sviluppo e la complessità degli interventi da mettere in atto. Analizzando i risultati delle precedenti politiche di sviluppo, viene sottolineato, inoltre, come strategie basate su interventi isolati o di tipo ex-post si siano risolte solitamente in parziali o totali fallimenti.
Nonostante venga ribadita più volte la necessità di inserire il principio della sostenibilità a tutti i livelli decisionali, la dimensione internazionale viene identificata come prioritaria nelle strategie pro-ambiente. In particolare, sono individuati quattro settori di intervento per la creazione di una strategia di sviluppo sostenibile: il problema del debito estero di gran parte dei PVS; la distorsione nelle relazioni commerciali; il basso livello di investimenti; la produzione e l’accesso alla scienza ed alla tecnologia da parte delle popolazioni più povere e marginali.
In ultimo, viene rilevato che, per la prima volta, il problema demografico nel Terzo Mondo riveste solo un ruolo marginale.
7 – Ambiente, sviluppo e povertà
Dall’analisi dei diversi documenti in materia di ss e, in particolare, da quanto proposto durante le giornate di Rio de Janeiro nel giugno 1992, sembra chiaro che le strategie per uno sviluppo rispettoso dell’ambiente debbano sempre più fare i conti con il problema della povertà. Secondo il mainstream dello ss, degrado ambientale e povertà sarebbero legati da una relazione biunivoca di causa-effetto. Il World Resources Institute (1992) a tal proposito afferma che: “l’evidenza della povertà e della miseria umana nel mondo è indiscutibile, come allo stesso modo lo è l’evidenza del peggioramento causato dalla povertà e che è a sua volta causa di ulteriore povertà [50]”.
[50] Zappacosta, 1995, p. 87.
Tale ipotetica relazione, anche se alquanto semplicistica e parziale, può fornire interessanti spunti di riflessione.
Il ragionamento su cui poggia tale relazione è pressappoco il seguente. Da un lato, la povertà funge da agente di DA in quanto le popolazioni che si trovano in condizioni di sopravvivenza tendono a sfruttare oltremodo le risorse a loro disposizione, sacrificando nella maggior parte dei casi il benessere futuro per risolvere problemi di sopravvivenza molto più immediati. Tale logica di breve periodo induce famiglie di agricoltori marginali a comportamenti definibili “irrazionali” ed “insostenibili”, come, ad esempio, la coltivazione di superfici eccessivamente declivi o l’abbattimento delle foreste tropicali. Dall’altro lato, il DA contribuisce a perpetuare ed aggravare la condizione di povertà delle popolazioni che sono da essa interessate, sia attraverso l’impatto negativo sulla situazione igienico-sanitaria spesso già precaria, sia attraverso la riduzione della produttività delle risorse di cui dispongono tali popolazioni. Dalla circolarità di tale relazione e dalla cumulabilità dei suoi effetti, viene così ad instaurarsi una pericolosa self-feeding downward spiral (Durning, 1989) tra stenti economici e degrado ecologico.
Le soluzioni “classiche” che il mainstream propone per spezzare tale circolo sono note: stimolare la crescita economica per eliminare la piaga della povertà da un lato e, dall’altro, adottare politiche di pianificazione familiare per controllare la dinamica demografica.
E’ evidente come tale soluzione sia insufficiente a spiegare il fenomeno di circolarità di causa-effetto esistente tra sviluppo, ambiente e povertà, e come sia necessario analizzare altre variabili, quali le ripercussioni dovute alla rivoluzione verde, che hanno modificato il rapporto agricoltore-terra-ambiente (v. supra par. 3), le scelte economiche di agenti come capitalisti agrari, latifondisti, imprese multinazionali e le politiche economiche internazionali scaturite da organismi internazionali.
7.1 – Come la povertà influenza l’ambiente
Le popolazioni che vivono in condizioni di stentata sopravvivenza, spinte dalla necessità di sopperire a bisogni alimentari improrogabili, adottano strategie di produzione caratterizzate da orizzonti temporali estremamente ridotti, in molti casi alcune settimane o addirittura alcuni giorni [51]. Tale elevato tasso di preferenza temporale determina sia un rapido e consistente sfruttamento delle risorse naturali nel tentativo di soddisfare i consumi correnti, sia una scarsa attenzione agli investimenti necessari a sostenere e a conservare la produttività futura delle risorse stesse. Alcuni esempi di strategie “insostenibili”, particolarmente frequenti nel Terzo Mondo, sono il forte aumento di bestiame per unità di superficie, che spesso conduce ad una degenerazione qualitativa dei pascoli (fenomeno di overgrazing), l’intensificazione della produzione di specie vegetali annuali su superfici non sempre ad esse idonee per giacitura e pendenza e la riduzione dei periodi a maggese tra le due coltivazioni successive con la conseguente perdita di fertilità del suolo.
[51] Zappacosta, 1995, p. 90.
Allo stesso tempo, quanto più gli agricoltori sono poveri tanto meno sembrano essere interessati ad investire in attività di conservazione delle risorse naturali che hanno un lungo periodo di improduttività. Mink (1993) riporta a tal proposito l’esempio dei programmi di riforestazione i cui interventi in molti paesi del Terzo Mondo sembrano frequentemente fallire laddove le popolazioni, nell’attesa che gli alberi raggiungano la maturità e possano così essere utilizzati sotto forma di legname, non sono in grado di raccogliere alcun tipo di prodotto, mentre un discreto successo sembra essere conseguito in quei casi in cui, già nei primi anni d’impianto, è possibile ottenere alcuni prodotti, come alimenti per il bestiame.
Un ruolo preminente nel determinare tale ottica di breve periodo è rivestito dalle condizioni di rischio ed incertezza in cui sono costrette a vivere tali popolazioni. Sebbene non vi sia forse una consistente differenza tra l’attitudine al rischio degli agricoltori poveri e quella degli agricoltori ricchi, in quanto entrambi i gruppi sembrano essere caratterizzati da un prevalente e diffuso atteggiamento di avversione, ciò che, invece, contraddistingue quelli più poveri è la loro limitata capacità di difesa in situazioni d’incertezza. Tale situazione è, inoltre, spesso aggravata dal fatto che chi vive in condizioni di assoluta povertà ha di fronte situazioni di rischio ben più gravi rispetto a chi vive invece in condizioni più agiate.
L’identificazione della povertà come causa di DA, attraverso la sola presenza di orizzonti di breve periodo, trascura evidentemente altri elementi ugualmente importanti. In primo luogo, non si può generalizzare tale situazione in quanto non mancano casi in cui gruppi di agricoltori, sebbene caratterizzati da situazioni di povertà, adottano strategie di lungo periodo. Sono, infatti, frequenti i casi in cui comunità agricole, poggiando su intensi valori extra-economici, quali quelli culturali e religiosi, si oppongono allo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali da cui esse traggono sostentamento. Un noto esempio è quello degli indiani Chipko, il cui movimento ecologista, attualmente molto attivo in India per la salvaguardia delle economie di sussistenza, nacque come reazione al taglio dei boschi da loro considerati sacri da parte di imprese commerciali (Shiva, 1991; Adams, 1990; Redclift, 1987). Ed ancora, il caso delle comunità rurali andine, dove non esistono né gerarchie né separazioni tra la popolazione e la natura, tra gli individui e la comunità, tra la società e le divinità, l’equilibrio naturale si avvantaggia di tali rapporti di reciprocità e rispetto.
In secondo luogo, i rischi con cui le comunità rurali più povere sono costrette a confrontarsi non sono sempre dovuti soltanto alla marginalità ecologica ed economica dei loro territori, ma sono spesso il risultato di politiche mal concepite e mal attuate, che finiscono con l’incoraggiare gli sprechi ed il DA. In molti casi, gli interventi (o i mancati interventi) dei governi contribuiscono ad incrementare il clima di incertezza per i più poveri, agendo sia sul mercato dei fattori che su quello dei prodotti. Da più parti è, infatti, riconosciuto che un ruolo centrale nella creazione di tale clima d’incertezza e nell’adozione delle conseguenti strategie di breve periodo, sia rivestito dal limitato accesso alle risorse e dalla minore sicurezza del loro possesso (Lutz e Young, 1992). E’ noto che la maggior parte dei PVS e, in particolare, le aree ecologicamente fragili sono caratterizzati da regimi fondiari estremamente polarizzati, con ampie frange della popolazione escluse quasi completamente dal possesso della terra e con un ridotto numero di famiglie che invece ne detiene la stragrande maggioranza. A tale situazione si affianca spesso una legislazione in materia di affitto che non garantisce il possesso nel tempo all’affituario, frustrando in esso ogni proposito di investimento e di sfruttamento “sostenibile”.
La situazione di possesso precario è, inoltre, aggravata dalla generale riduzione delle aree con accesso comune, i cosiddetti commons, dovuta alla privatizzazione di molte superfici acquistate dal capitale nazionale ed internazionale. In realtà, le posizioni circa gli effetti dei diversi regimi di proprietà sulla situazione ambientale sono particolarmente varie e discordanti: da un lato, coloro i quali sostengono che la gestione comune delle risorse, poggiando su equilibri naturali delle popolazioni e su tecniche di coltivazione tradizionali, sia indiscutibilmente positiva per l’ambiente; dall’altro, i sostenitori della infallibilità delle leggi del mercato e del pericolo che una gestione comune sia invece dannosa a causa di strategie di free rider (Jodha, 1992). Quest’ultima posizione neo-liberista sembra però basarsi su un’incomprensione di fondo sul concetto di commons: molto spesso, infatti, il “possesso comune”, che è regolato da meccanismi informali ed interni alle comunità, viene erroneamente considerato sinonimo di “libero accesso” dove, allo stesso tempo, sono proprietari tutti e nessuno e, di conseguenza, sono possibili comportamenti di rapina (Bromley e Cernea, 1989; Giura-Longo, 1993). Stante tale distinzione, la famosa allegoria di Hardin (1968), “the tragedy of commons”, dovrebbe essere più correttamente ribattezzata come “the tragedy of open access” (Boyce, 1993).
Lo sviluppo di relazioni mercantili, oltre che interferire con i sistemi di gestione comune delle risorse, tende ad introdurre nuovi e maggiori rischi per i più poveri: alla naturale instabilità dei processi agricoli, viene ad aggiungersi quella dovuta alle ampie e frequenti fluttuazioni del sistema dei prezzi. Tale instabilità determina, nelle annate meno favorevoli, una compressione dei redditi monetari, da cui gli agricoltori sono spinti a difendersi attraverso l’aumento dell’estrazione di surplus dalle risorse naturali (Mellor, 1988).
Infine, bisogna ricordare che, anche se gli agricoltori più poveri possono essere considerati i principali responsabili del DA nei paesi del Terzo Mondo, essi non sono i soli ad avere strategie di breve periodo nell’uso delle risorse naturali. Non sono rari i casi in cui anche agricoltori che si trovano in condizioni relativamente agiate sono indotti ad avere orizzonti di breve periodo: agli inizi degli anni ’80, ad esempio, a causa del peso dei debiti contratti in seguito alla modernizzazione dei processi agricoli ed alla congiuntura sfavorevole dovuta agli alti tassi d’interesse ed al basso livello generale dei prezzi, numerosi agricoltori operanti in regioni del Terzo Mondo ad agricoltura moderna ed intensiva reagirono espandendo la coltivazione su suoli suscettibili di erosione e riducendo la spesa in fertilizzanti (Mink, 1993). In altri casi ancora, sono proprio le condizioni economiche e politiche particolarmente favorevoli che spingono per la scelta di strategie di breve periodo. Obiettivi di consenso politico e di interessi economici legano infatti ricchi agricoltori e potenti multinazionali agroalimentari con il potere centrale locale e tale relazione spesso sfocia in contratti di sfruttamento che esulano del tutto da qualsivoglia accezione di sostenibilità. Un esempio interessante a tal proposito è fornito dal fenomeno della “frontiera mobile” nelle regioni dell’Amazzonia brasiliana, dove gruppi di agricoltori capitalisti si spostano seguendo il taglio della foresta, lasciando dietro di loro superfici a bassa produttività. Grazie infatti ad un apparato legislativo particolarmente permissivo in materia di credito e ad una congiuntura economica cronicamente caratterizzata da una forte inflazione, medi e grandi agricoltori sono incentivati ad acquistare ampi tratti di foresta, disboscarli e sfruttarli in modo indiscriminato per alcuni anni. Confidando poi nel perdurare delle suddette condizioni economiche e politiche favorevoli all’indebitamento, invece di intraprendere attività di conservazione o anche di semplice concimazione, una volta che le rese si abbassano a livelli considerati non più economicamente soddisfacenti, si spostano su nuove superfici lasciando alle loro spalle suoli ormai improduttivi, future prede di allevatori e di speculatori terrieri (Blaikie, 1985; Mink, 1993).
Quindi, se in precedenza si è ricordato quanto l’insicurezza del possesso sia una delle spinte principali verso strategie individuali dannose per l’ambiente, non mancano situazioni in cui lo sfruttamento delle risorse naturali è invece legato alla situazione opposta, in quanto è proprio l’estrema sicurezza del possesso, sia presente che futura, a creare le condizioni per strategie di produzione “insostenibili”.
7.2 – Come l’ambiente influenza la povertà
E’ evidente che le classi sociali più povere, urbane o rurali che siano, sono esposte sia fisicamente che economicamente agli effetti dell’ambiente in modo maggiore rispetto a coloro i quali hanno invece la possibilità di vivere in condizioni più agiate [52]. Spesso confinati in aree particolarmente fragili dal punto di vista ambientale o già sottoposte a processi di degrado, i poveri, mancando dei mezzi economici necessari per difendersi, sono costretti a subirne gran parte degli effetti negativi.
Gli effetti diretti ed indiretti del DA sulle popolazioni meno agiate possono essere sintetizzati in un’unica risultante finale: la riduzione della produttività del lavoro.
Le precarie condizioni fisiche di tali popolazioni sono indicate nella letteratura come uno dei principali motivi di tale riduzione nella capacità produttiva (Durning, 1989; World Resources Institute, 1992; World Bank, 1992). Per la mancanza di un’alimentazione sufficiente, di acqua potabile, di aria pulita, di servizi sanitari adeguati, gli individui risultano fortemente indeboliti dagli stenti e dalle malattie [53]. Inoltre, dato che alla debolezza fisica si associa spesso un basso reddito, viene ad instaurarsi un circolo vizioso per cui i poveri “per mancanza di alimenti, non hanno energie sufficienti per lavorare e, per mancanza di lavoro, non hanno reddito sufficiente per acquisire alimenti” (Durning, 1989).
[52] Zappacosta, 1995, p. 96.
[53] L’inquinamento dell’aria, che a prima vista sembrerebbe prerogativa dei paesi industrializzati ed in particolare delle aree urbane, è un problema anche dei PVS e si riscontra qui in una forma forse ancor più pericolosa per la salute umana. Si tratta dell’inquinamento all’interno delle abitazioni dovuto alla combustione per uso cucina o di riscaldamento di materiali biologici quali il legno, residui delle coltivazioni, letame. Tali materiali, molto più economici rispetto ad altre forme di energia domestica come metano e kerosene, nonché più facilmente reperibili in aree economicamente marginali, emettono notevoli quantità di sostanze tossiche le quali contribuiscono ad elevare i rischi sanitari specialmente di donne e bambini. Nei paesi del Terzo Mondo, tale tipo di inquinamento causerebbe ogni anno tra i 300.000 ed i 700.000 decessi in età prematura (World Bank, 1992).
Il DA, oltre a minare la salute e di conseguenza la capacità di lavorare, condiziona la produzione di reddito attraverso due principali meccanismi: modificando l’allocazione della manodopera tra le varie attività di sostentamento e riducendo la produttività delle risorse naturali di base.
Quando un ecosistema, a causa del suo degrado, peggiora la capacità degli individui di espletare attività essenziali per la loro sopravvivenza, allora la divisione del lavoro dei singoli agricoltori tra le diversi attività quotidiane deve necessariamente essere modificata. Un esempio tipico di sottrazione della manodopera da attività produttive, in seguito alle precarie condizioni dell’ambiente, è offerto dalla raccolta di legna per combustione. Man mano che il processo di deforestazione procede e, di conseguenza, la disponibilità di legname si riduce in prossimità dei villaggi, il tempo di raccolta, a causa della maggiore distanza da coprire, deve necessariamente aumentare. In Nepal, ad esempio, dove il fenomeno di deforestazione è particolarmente grave, nel corso dell’ultima decade il tempo giornaliero di raccolta di legna e foraggi è aumentato in media di circa 1,5 ore per ogni individuo (Blaikie, 1985; Mellor, 1988) [54]. Tale modifica nell’impiego della manodopera ha notevoli ripercussioni negative sulla produzione agricola e sulla nutrizione della popolazione. Il tempo addizionale che tali attività di raccolta richiedono proviene spesso da lavoro femminile che viene sottratto alle aziende agricole determinando una riduzione della produttività [55] e, di conseguenza, della disponibilità di alimenti pro capite. In tale situazione, inoltre, il tempo dedicato alla preparazione degli alimenti ed alla cura della prole viene a ridursi drasticamente, determinando un ulteriore peggioramento dello stato nutrizionale e sanitario complessivo.
[54] Tra gli anni ’60 e gli anni ’80, la superficie a foresta delle colline del Nepal si è ridotta di circa il 50% (Mellor, 1988).
[55] Mellor (1988) afferma che, ad esempio, in Nepal tale riduzione di disponibilità di manodopera in azienda è pari al 24% del lavoro agricolo totale per famiglia.
In molti casi, la produttività delle risorse naturali è però danneggiata dall’azione di fattori che sono al di fuori del diretto controllo degli agricoltori, i quali, a causa delle loro condizioni di povertà, non sono in grado di mettere in atto strategie di difesa e sono pertanto costretti a subirne gran parte delle conseguenze negative. Gli esempi, a tal proposito, sono numerosi e riguardano esclusivamente quei tipi di attività produttive che sono spesso spazialmente distanti dai luoghi dove sono avvertiti i sintomi e che hanno la capacità di “esternalizzare” parte dei propri costi sull’ambiente. Tali costi, solo in apparenza evitati, subiscono in realtà solo un semplice spostamento verso aree comuni che nella maggior parte dei casi non godono di un’adeguata protezione istituzionale, danneggiando in particolar modo le popolazioni indigene che da tali aree ne traggono sostentamento. Tra le situazioni più ricorrenti si possono annoverare la distruzione del patrimonio ittico di coste e di laghi ad opera di acque reflue urbane ed industriali, il degrado di fertili pianure alluvionali in seguito allo sbarramento di corsi d’acqua, la distruzione del patrimonio forestale da parte di multinazionali del legno e di imprese zootecniche.
Infine, quando le risorse naturali subiscono un danno di tipo ecologico, oltre ad avere una minore produttività assoluta, tendono a perdere ogni caratteristica di resilienza, verificando una maggiore instabilità nei rendimenti e quindi una più acuta situazione di incertezza, a danno specialmente degli agricoltori più poveri. Un esempio classico, a tal proposito, riguarda la maggiore suscettibilità ai periodi di siccità da parte di coltivazioni in suoli dove, a causa della scarsa profondità dovuta a fenomeni di erosione e del limitato contenuto di sostanza organica in seguito a consistenti asportazioni di residui, la ritenzione dell’acqua è fortemente ostacolata (Mink, 1993).
In questo capitolo è stato analizzato il legame che c’è tra la rivoluzione verde e l’ambiente, e l’influenza della loro relazione sul problema dell’insicurezza alimentare.
L’analisi dei principali documenti prodotti da organismi internazionali e dalle principali scuole di pensiero che, negli ultimi 35 anni, si sono interessate al problema della compatibilità tra sviluppo ed ambiente ha consentito di inquadrare storicamente la nascita dello ss e di verificare la reale portata del tanto celebrato processo di greening dello sviluppo economico. Anche se con le dovute eccezioni, ciò che si è evidenziato è che il frequente tentativo di integrazione delle problematiche ambientali nelle strategie di sviluppo si limita spesso ad un’operazione più di forma che di contenuto, lasciando praticamente immutato il contesto generale da cui tali problematiche traggono origine diretta. Gran parte delle soluzioni al DA si basano, infatti, su semplici interventi di tipo managerialistico, messi in atto spesso come correzione ex-post ai danni provocati dal processo di sviluppo.
Inoltre, è stata evidenziata la relazione biunivoca tra la povertà e il DA. Il Summit della Fao ha sottolineato come la povertà sia una delle cause di insicurezza alimentare. Quindi, cercare di risolvere il problema della denutrizione significa tener presente un ulteriore fattore estrinseco che è il degrado ambientale. Dall’analisi si deduce che considerare il DA la sola causa di povertà è semplicistico e riduttivo: come, al riguardo, puntualizza Blaikie (1985), “i problemi hanno origine dal contesto, non certo dai poveri”. Quindi, riconoscere il ruolo degli agenti, cioè dei capitalisti agrari, latifondisti, imprese multinazionali (il cui comportamento insostenibile deriva spesso dall’eccessivo controllo sulle risorse naturali e dalla notevole capacità di “aggiustamento” di fronte a situazioni sfavorevoli) tutt’altro che marginale, nonché quello delle politiche economiche, nazionali e internazionali, può contribuire a spiegare meglio molte situazioni di DA, di povertà e quindi di insicurezza alimentare.
E’ stato trattato anche il tema della rivoluzione verde. Indubbiamente, grazie ad essa, la produzione agricola in molte parti del mondo è notevolmente aumentata, contribuendo ad alleviare disperate situazioni di denutrizione.
Tuttavia, non mancano risvolti negativi:
- il processo di selezione genetica, attraverso l’individuazione di linee parentali pure, se da un lato, conduce allo sviluppo del fenomeno dell’eterosi o vigore ibrido, per cui il risultato derivante da un loro incrocio risulta molto più produttivo, dall’altro lato, sottrae all’agricoltore il controllo del principale fattore di produzione: il seme. Infatti, l’uso di varietà selezionate impedisce all’agricoltore di riutilizzare per la semina dell’anno successivo parte del raccolto: il meccanismo di segregazione dei geni in seconda generazione condurrebbe ad una produzione scarsissima. Di conseguenza, l’agricoltore è costretto ogni anno ad acquistare il seme dalle imprese produttrici;
- l’espandersi delle superfici in monocultura ed in monosuccessione, a causa della maggiore profittabilità di alcuni prodotti rispetto ad altri, ha determinato una specializzazione dei parassiti delle coltivazioni ed un’alterazione degli equilibri di controllo naturali. La conseguenza è stata la necessità di ricorrere a dosi crescenti di prodotti chimici, con ripercussioni sul profitto dell’agricoltore e sulla salute del consumatore;
- il “pacchetto tecnologico” offerto dalla rivoluzione verde ha discriminato a favore degli agricoltori più ricchi e delle realtà economiche più avanzate, mal adattandosi a situazioni in cui il lavoro rappresenta ancora la risorsa più abbondante e l’accesso al capitale è estremamente limitato e difficoltoso. I forti interessi commerciali legati alla rivoluzione verde sono i motivi di base della diffusione indiscriminata di un modello di agricoltura di tipo moderno, il quale, in molti paesi dove il problema della fame ha un’importanza cruciale, non rappresenta certo la migliore soluzione in termini di sostenibilità economica, ecologica e sociale (Lipton, 1989; Shiva, 1991);
- la maggiore dipendenza dal mercato degli input e delle sementi, unita alla maggiore instabilità dei redditi dovuta alla particolare suscettibilità delle varietà selezionate agli attacchi parassitari ed alle fluttuazioni dei prezzi mondiali dei prodotti, è uno dei motivi del crescente indebitamento degli agricoltori. Tale posizione debitoria, aggravata dagli elevati tassi d’interesse imposti dal mercato informale del credito, cui gli agricoltori più poveri sono spesso costretti a rivolgersi, determina una graduale riduzione del controllo dei singoli agricoltori sulle proprie attività produttive ed induce l’adozione di modi di produzione volti a monetizzare la fertilità intrinseca delle risorse attraverso una maggiore estrazione di surplus.
Possiamo concludere rivolgendo l’attenzione a coloro che si trovano in condizioni di insicurezza alimentare. Se l’adozione delle piante ad alta resa ha avuto degli effetti negativi sulle componenti naturali, sull’alimentazione, sulla salute, sui redditi e sull’occupazione di coloro che più sono esposti ai problemi nutrizionali, si richiede l’intervento dei governi locali affinché si impegnino, da un lato, ad applicare “in campo” le attività di ricerca e di sviluppo agricolo che accrescano la produttività per ettaro di terreno e al tempo stesso tutelino l’ambiente, dall’altro, ad indirizzare tali miglioramenti a coloro i quali dovrebbero essere i soggetti “naturali” della rivoluzione verde, cioè i poveri in situazioni di insicurezza alimentare. Compito delle organizzazioni internazionali sarebbe anche quello di porsi come “garanti” dei denutriti, per far sì che i governi utilizzino tutti gli strumenti per realizzare l’equità dei profitti dovuti alla ricerca applicata all’agricoltura, e affinché l’aumento della disponibilità degli alimenti sia indirizzato alle zone dove il pericolo di miseria è maggiore.
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