Commercio internazionale e Conclusioni
Indice
Capitolo quarto
IL COMMERCIO INTERNAZIONALE
1 – Fao: alimentazione e commercio internazionale
Il commercio [56] è essenziale per la sicurezza alimentare mondiale. Senza di esso i paesi dipenderebbero esclusivamente dalla loro produzione interna; le entrate complessive sarebbero considerevolmente più basse, la scelta dei prodotti minore e la fame aumenterebbe. Mentre questi aspetti sono ben evidenti, specialmente per quanto concerne il commercio interno, il legame tra il commercio e la sicurezza alimentare pone una serie di questioni complesse che verranno esaminate più avanti.
[56] Fao,1996c, cap. 12.
Il volume del commercio di beni e servizi ha raggiunto i 5190 miliardi di dollari nel 1994, dei quali 485 miliardi per il commercio agricolo e 266 per quello alimentare. Dalla Conferenza mondiale sull’alimentazione del 1974 il volume degli scambi agricoli è aumentato del 75% e il loro valore si è più che triplicato. Anche il commercio alimentare ha triplicato il suo valore. A causa dei cicli successivi di liberalizzazione, il commercio mondiale si è espanso ad un ritmo maggiore di quello della produzione. Di conseguenza l’economia mondiale è oggi molto più integrata di quanto lo sia mai stata: i paesi dipendono sempre più dal commercio come fonte di profitti e di approvvigionamenti. La crescente integrazione dell’economia mondiale è parte integrante della tendenza alla globalizzazione.
Il commercio mondiale influenza la sicurezza alimentare sotto diversi punti di vista. In primo luogo, permette che il consumo alimentare superi il livello di produzione nei paesi dove questa sia limitata. Nei 93 paesi in via di sviluppo considerati dallo studio FAO del 1995 Agricoltura mondiale: obiettivo 2010 (WAT 2010), il consumo di prodotti agricoli è cresciuto del 10% più rapidamente rispetto alla produzione, nel periodo che va dal 1970 al 1990. Il fabbisogno alimentare viene generalmente soddisfatto in modo più economico ricorrendo alle importazioni che dipendono unicamente dalla produzione nazionale. Se per alcuni paesi possono esistere delle ragioni specifiche per mirare all’autosufficienza alimentare, è generalmente conveniente dal punto di vista economico seguire una politica di autonomia alimentare più flessibile, a condizione che gli importatori possano contare sul mercato mondiale, come fonte affidabile ed efficiente di approvvigionamento, e gli esportatori dispongano di un mercato in espansione per i loro prodotti. Nonostante l’obbligo di notifica e di consultazione imposto ai membri dell’Organizzazione mondiale per il commercio (WTO) sulle restrizioni all’esportazione, i paesi importatori temono il rischio di possibili embarghi commerciali e si chiedono se le importazioni saranno disponibili secondo le loro necessità. In una certa misura, l’espansione del commercio cerealicolo mondiale dovrebbe dissipare i timori sull’adeguatezza dell’approvvigionamento complessivo, ma gli importatori continuano a preoccuparsi delle misure restrittive per le esportazioni.
Per quanto concerne il ruolo del mercato mondiale come fonte di entrate per i paesi in via di sviluppo, la forte espansione nel volume del loro commercio si è accompagnata ad un ribasso delle condizioni di scambio per i loro prodotti, il che ha ridotto considerevolmente i possibili profitti. Inoltre, la capacità di importazione è stata frequentemente limitata dalla necessità di ammortizzare gli ingenti debiti.
Il commercio alimentare ha un ruolo decisivo anche nel processo di stabilizzazione degli approvvigionamenti e dei prezzi interni. Senza il commercio, le fluttuazioni della produzione interna dovrebbero venir compensate attraverso un adeguamento del consumo e/o delle giacenze. Il commercio consente di ridurre le fluttuazioni del consumo e libera in parte il paese dal fardello di dover creare delle giacenze. L’instabilità dei prezzi internazionali può creare problemi non solo agli importatori (e gli esportatori) regolari, ma anche ai consumatori, ai produttori, agli industriali ed ai governi.
Il commercio internazionale, data la sua influenza sui redditi e sull’occupazione, agisce in modo determinante sull’accesso al cibo. Mentre le politiche commerciali più liberali contribuiscono con il tempo alla crescita economica (anche se tale punto è materia di dibattito), la questione principale sollevata dalla sicurezza alimentare riguarda la possibilità che questa crescita raggiunga o meno i poveri. Nonostante vi siano indicazioni che nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo le industrie che esportano impiegano più mano d’opera di quelle sostitutive delle importazioni e che l’occupazione tende a crescere nelle economie orientate verso l’estero, le relazioni tra il commercio, la crescita, l’occupazione e la povertà non sono chiaramente definite, dal momento che ciascuna di queste variabili viene a sua volta influenzata da altri fattori.
Purché le politiche interne garantiscano che i proventi del commercio raggiungano i poveri e li salvaguardino da possibili impatti negativi, la liberalizzazione del commercio può giocare un ruolo importante per il miglioramento della sicurezza alimentare anche se potrebbero presentarsi problemi di adattamento al nuovo regime commerciale. Sebbene le stime sull’impatto della liberalizzazione commerciale, incluso l’Accordo Uruguay Round, variano in modo considerevole, gli studi prevedono dei significativi aumenti dei redditi nei prossimi anni. Considerando anche gli effetti, non facilmente quantificabili, del miglioramento delle normative commerciali e dell’Accordo Uruguay Round sui servizi, l’impatto complessivo di quest’ultimo dovrebbe fornire quanto necessario a migliorare i livelli di reddito e quindi la sicurezza alimentare. Le difficoltà che i paesi potrebbero esseri costretti a fronteggiare sono state riconosciute e ai paesi in via di sviluppo è stato garantito un trattamento speciale e differenziato, soprattutto sotto forma di periodi di adattamento più lunghi e di impegni di riduzione meno gravosi. L’Uruguay Round riconosce, inoltre, che durante il processo di riforma i paesi meno sviluppati e quelli importatori netti di prodotti alimentari potrebbero risentire di effetti negativi, quali una diminuita disponibilità di generi alimentari di base importati a condizioni ragionevoli. Di conseguenza, viene data una grande importanza alla rapida applicazione delle decisioni dell’Uruguay Round sulle misure riguardanti i possibili effetti negativi del programma di riforma nei paesi meno sviluppati ed importatori netti di prodotti alimentari.
Va sottolineato che l’applicazione dell’Uruguay Round potrebbe non modificare sostanzialmente il volume degli aiuti alimentari dal momento che, mentre la parte legata allo smaltimento delle eccedenze potrebbe diminuire, quella relativa all’assistenza inclusa nelle decisioni di cui sopra potrebbe aumentare. I paesi che non forniscono aiuti in natura dovrebbero considerare seriamente la possibilità di ricorrere a transazioni triangolari per l’aiuto alimentare e ad altri mezzi di assistenza finanziaria o tecnica per aumentare la produttività nei paesi in difficoltà.
E’ improbabile che la liberalizzazione commerciale, come delineata dall’Uruguay Round, abbia grandi ripercussioni sulla disponibilità netta di prodotti alimentari a livello mondiale, dal momento che una ridotta produzione nei paesi dove i costi sono elevati verrà generalmente compensata da un accrescimento produttivo negli altri paesi. In previsione della probabile evoluzione a medio termine dei relativi prezzi dei prodotti alimentari, i paesi dovrebbero prendere in considerazione la prospettiva di rivedere le loro politiche agricole e di far sì che gli aumenti dei prezzi mondiali si ripercuotano sui loro settori interni in modo da stimolare l’investimento nella produzione alimentare. Gli effetti dell’Uruguay Round sulla stabilità dei prezzi mondiali dei prodotti alimentari sono incerti. Quattro sono i principali fattori in gioco: l’effetto positivo della “tarifficazione”, l’effetto negativo della diminuzione delle riserve alimentari mondiali, l’impatto positivo della gestione di una maggior parte delle riserve da parte del settore privato e l’effetto incerto del cambiamento dei luoghi di produzione.
Complessivamente, incoraggiando la crescita delle entrate, ampliando la gamma e la varietà dei prodotti alimentari disponibili sui mercati locali, riducendo i rischi che derivano dalle fluttuazioni della produzione interna e consentendo un efficace sviluppo della sicurezza alimentare mondiale, la liberalizzazione del commercio contribuisce a migliorare la sicurezza alimentare nelle sue tre dimensioni: l’accesso, la disponibilità e la stabilità. Tuttavia, la liberalizzazione del commercio ha suscitato preoccupazioni sulla possibilità che le modifiche strutturali che si accompagnano alla crescita economica riducano la sicurezza alimentare dei paesi molto poveri e delle famiglie che non sono in grado di trarre vantaggio dalle nuove opportunità commerciali; che le importazioni di prodotti alimentari rincarino; che l’instabilità dei prezzi dei prodotti alimentari a livello mondiale aumentino se le riserve mondiali calano; e che vengano colpiti alcuni ambiti esterni al commercio, quali l’ambiente e l’autosufficienza di alcune comunità rurali. Ciascun paese dovrebbe garantire che questi eventuali problemi siano debitamente affrontati dalle politiche nazionali.
Anche il commercio, l’ambiente, la sostenibilità e la sicurezza alimentare sono strettamente collegati. A lungo termine, la sicurezza alimentare mondiale dipende dal mantenimento e dalla conservazione della base delle risorse nazionali per la produzione alimentare. Il commercio influenza l’ambiente in tre modi: fa aumentare i redditi e, quindi stimola la domanda di beni ambientali e lo sviluppo dei mezzi necessari per soddisfarla; sposta i luoghi di produzione e di consumo; e l’attività commerciale in sé stessa utilizza le risorse e potrebbe provocare sprechi o altri danni ambientali.
C’è, inoltre, una crescente preoccupazione per l’impatto che norme ambientali più rigide potrebbero avere sul commercio agricolo e quindi sui proventi delle esportazioni e la sicurezza alimentare dei paesi in via di sviluppo. La comunità internazionale sta sviluppando nuove politiche da applicare in quest’area. Tali questioni saranno indubbiamente prioritarie nelle future trattative commerciali multilaterali.
L’argomento su cui si fonda un’ulteriore liberalizzazione commerciale è che, nonostante vi siano stati progressi significativi, il protezionismo agricolo è ancora molto diffuso. L’Accordo Uruguay Round sull’agricoltura ha certamente riconosciuto che l’obiettivo a lungo termine di ridurre sostanzialmente e progressivamente il sostegno e la protezione, per dar luogo a riforme di fondo, è un processo ancora in corso. I negoziati per il perseguimento di questo obiettivo inizieranno nel 1999.
2 – L’agricoltura nell’Accordo conclusivo dell’Uruguay Round
2.1 – I punti qualificanti dell’ “Accordo sull’agricoltura”
Il 15 Aprile 1994 [57], si è concluso l’Uruguay Round. L’ ”Accordo sull’agricoltura”, che costituisce il terzo capitolo dell’appendice 1A del testo, prevede per le nazioni che lo hanno sottoscritto impegni in tre aree distinte:
- la riduzione del sostegno interno;
- una maggiore apertura del mercato interno alle importazioni;
- la riduzione delle politiche di sussidio delle esportazioni.
[57] Giovanni Anania, p.1.
Il testo dell’Accordo fissa gli impegni dei paesi firmatari soltanto in termini generali, mentre gli impegni specifici assunti da ciascun paese sono descritti in dettaglio in una lunga serie di “prospetti” (le schedules, nella terminologia del GATT). L’insieme dei “prospetti” dei paesi firmatari costituisce parte integrante dell’Accordo, cioè con la sottoscrizione di quest’ultimo sono stati accettati dai paesi contraenti come legittima applicazione da parte degli altri paesi del testo letterale dell’Accordo stesso, con la conseguenza che gli impegni che in essi sono descritti non potranno essere oggetto di dispute.
L’Accordo prevede un “periodo di implementazione” della durata di sei anni, dal 1995 al 2001 (per i PVS esso è pari, invece, a dieci anni). Gli impegni previsti riguardano tanto i risultati da raggiungere alla fine di tale periodo, che quelli da conseguire in ciascuno degli anni tra il 1995 e il 2001.
• Gli impegni per la riduzione del sostegno interno
Questa parte specifica dell’ “Accordo sull’agricoltura” è il risultato del negoziato che ha avuto come oggetto la riduzione degli effetti distorsivi sulla produzione e sugli scambi internazionali di prodotti agricoli degli interventi interni di ciascun paese.
Quindi, oggetto del negoziato (e dell’Accordo che lo ha concluso) non sono state soltanto le misure di politica commerciale – quali le tariffe, le barriere all’importazione non tariffarie o i sussidi all’esportazioni – ma, almeno in via di principio, tutte le politiche che, direttamente o indirettamente, hanno effetti sulle importazioni o sulle esportazioni di un paese. Quindi, alla lettera equivarrebbe a dire che oggetto del negoziato sono tutte le misure di politica economica che direttamente o indirettamente concorrono a determinare l’ammontare delle sue importazioni e delle sue esportazioni.
L’Accordo prevede una riduzione del 20% in sei anni del sostegno di cui godono i produttori agricoli. Tale riduzione è calcolata utilizzando la cosiddetta “Misura Aggregata del Sostegno Complessivo” (MASC). Il “valore base” rispetto al quale è stata calcolata nei “prospetti” di ciascun paese la riduzione del 20% della MASC è dato dalla media di questa negli anni 1986-88. La riduzione del 20% deve essere realizzata attraverso riduzioni progressive di uguale ammontare in ciascuno dei sei anni del periodo di implementazione dell’accordo, dal 1995 al 2001.
La MASC è definita come il livello del sostegno annuo di cui godono complessivamente i produttori agricoli, espresso in termini monetari. Essa è data dalla somma di tre componenti:
- la somma dei sostegni direttamente attribuibili a ciascun prodotto (misurati utilizzando misure aggregate del sostegno specifiche per prodotto);
- il sostegno che deriva da politiche i cui benefici non possono essere attribuiti specificatamente ad un prodotto (misurato attraverso una misura aggregata del sostegno non attribuibile specificatamente a questo o a quel prodotto);e per i casi in cui il calcolo di una misura aggregata del sostegno non sia praticabile,
- il sostegno misurato utilizzando le cosiddette “Misure Equivalenti del Sostegno”.
Il calcolo delle misure aggregate del sostegno specifiche per ciascun prodotto è realizzato considerando sia le politiche interne di sostegno del prezzo, comprese quelle a livello regionale, che tutte le altre politiche per le quali sia possibile quantificare i benefici specifici che da esse derivano per i produttori del prodotto considerato.
Nel calcolo delle misure aggregate di sostegno – sia di quelle relative al sostegno specificatamente attribuibili a ciascun prodotto che di quelle per le quali ciò non è possibile – sono anche inclusi gli effetti delle misure che hanno come destinatarie le imprese che producono beni che contengono materie prime agricole. In questo caso, per calcolare il sostegno è necessario determinare l’ammontare dei benefici che i produttori agricoli indirettamente traggono da tali misure.
Per le politiche di sostegno di prezzo, la misura del sostegno è data dalla differenza tra il prezzo interno ed un prezzo di riferimento, moltiplicata per la quantità prodotta che potenzialmente beneficia del sostegno di prezzo [58].
[58] Il prezzo esterno di riferimento, in generale, è dato per i paesi esportatori netti dal valore unitario medio f.o.b. nel “periodo base” (cioè negli anni tra il 1986 e il 1988), e per i paesi importatori netti da quello c.i.f. .
Quando il sostegno è calcolato come differenza tra un prezzo interno ed un prezzo di riferimento esterno, nel calcolo della MASC non vanno considerate le spese di bilancio sostenute per gli investimenti che fanno sì che si abbia quel dato prezzo interno (se così non fosse lo stesso sostegno sarebbe, evidentemente, considerato due volte nel calcolo della MASC).
Per le politiche di sussidio diretto viene invece considerata, a seconda dei casi, o la relativa spesa di bilancio; o il mancato introito da parte dello stato (se si tratta, ad esempio, di una politica di sgravi fiscali); o il valore dei beni distribuiti, se il sussidio è in natura; o la differenza tra il prezzo interno ed il prezzo esterno di riferimento (determinata con le modalità viste sopra) moltiplicata per la quantità potenzialmente beneficiaria del sostegno. La stessa procedura si segue nel caso di politiche che determinano una riduzione dei costi per i produttori dei fattori produttivi impiegati (o dei servizi utilizzati): il contributo alla misura aggregata del sostegno è dato dalla relativa spesa di bilancio o, nel caso in cui tale procedura non rifletta pienamente l’effetto del sussidio in questione, dalla differenza tra un prezzo medio rappresentativo ed il prezzo sussidiato del fattore produttivo, moltiplicato per la quantità impiegata del fattore.
Nel caso in cui non sia possibile misurare il sostegno per via diretta, si ricorrerà ad una “Misura Equivalente del Sostegno” il cui calcolo è basato sul prezzo che è il risultato della politica realizzata e sulla quantità del prodotto che ne beneficia; nel caso in cui anche tale strada non sia praticabile, la Misura Equivalente del Sostegno è data dalla spesa a carico del bilancio per sostenere il prezzo del prodotto in questione.
Dalla MASC devono essere detratte eventuali tasse o prelievi a carico dei produttori che siano specifici dell’agricoltura. Sull’efficacia dell’Accordo nel portare ad un’effettiva riduzione del sostegno accordato all’agricoltura che deriva da politiche interne è però lecito sollevare qualche dubbio.
Una prima osservazione di carattere generale riguarda l’ampiezza del ventaglio delle politiche che non debbono essere considerate nel calcolo della MASC. La “scatola verde” è stata costruita di dimensioni sufficientemente ampie da lasciare la possibilità a ciascun paese – se ciò fosse necessario – di redistribuire le risorse impiegate tra i diversi strumenti di intervento che in essa ricadono in modo da soddisfare i vincoli dell’Accordo, lasciando allo stesso tempo sostanzialmente immutato il sostegno accordato agli agricoltori.
E’ difficile immaginare una misura di politica economica che non abbia effetti sugli scambi internazionali di un paese. Non è, quindi, una sorpresa che l’elenco delle politiche fatte rientrare nella ”scatola verde” ne comprenda diverse che sono certamente lontane dal non avere – come il testo dell’Accordo vorrebbe – effetti distorsivi sulla produzione e sugli scambi, o dall’avere, al più, effetti distorsivi minimi.
L’Accordo raggiunto prevede che non debbano essere considerate nel calcolo della MASC quelle politiche interne di sostegno “che non abbiano effetti distorsivi sulla produzione e gli scambi, o che, al più, abbiano effetti distorsivi minimi. In particolare, per poter essere escluse dal calcolo della MASC tali politiche interne (a) devono essere realizzate utilizzando fondi pubblici (non devono, quindi, prevedere alcun sostegno indiretto dei produttori agricoli a carico dei consumatori), e (b) non devono determinare alcun sostegno del prezzo alla produzione.
Tra le politiche che possono non essere considerate nel calcolo della MASC troviamo (a patto che siano soddisfatte le condizioni indicate sopra):
- le politiche legate all’offerta di servizi generali a favore dell’agricoltura (sempre che esse non prevedano pagamenti diretti ai produttori o ai trasformatori), quali, ad esempio, la ricerca, la formazione professionale, la divulgazione, i servizi di controllo della produzione (controlli sanitari, ma anche controlli degli standards qualitativi), le politiche di promozione commerciale e di marketing e le opere infrastrutturali;
- le politiche per la costituzione di ammassi pubblici specificatamente destinati a garantire la sicurezza delle disponibilità alimentari del paese;
- le politiche di aiuto alimentare a favore di consumatori interni bisognosi;
- le politiche che prevedono pagamenti diretti ai produttori agricoli, sempre che si tratti di politiche:
- che prevedano pagamenti a sostegno del reddito “disaccoppiati”, cioè non legati al volume della produzione realizzata, o che abbiano come obiettivo:
- la garanzia di redditi minimi nell’eventualità in cui si sia avuta una loro caduta pari ad almeno il 30%, o
- il sostegno dei redditi aziendali nel caso del verificarsi di calamità naturali (o l’assicurazione contro l’eventualità di calamità naturali), o
- l’aggiustamento strutturale attraverso la riduzione delle risorse impiegate nel processo produttivo, aiuti all’investimento, o incentivi al prepensionamento, o
- la salvaguardia ambientale, o
- l’assistenza a favore di aree svantaggiate.
Certo, si tratta anche di politiche i cui effetti distorsivi sono meno diretti (e, per questo più tollerabili) di quelli determinati dalle politiche di sostegno “accoppiato” dei prezzi, cioè di politiche i cui benefici sono direttamente legati al volume prodotto. Ma ciò non esclude che si tratti di politiche che utilizzano risorse pubbliche al fine di sostenere il sistema agricolo nazionale ed accrescere la sua competitività relativa rispetto a quella dei suoi concorrenti sui mercati internazionali. Se, dunque, i paesi non decideranno di ridurre il sostegno interno per motivi che prescindono dagli impegni che derivano loro dall’Accordo, non è difficile immaginare nei prossimi anni una tendenza generalizzata ad accrescere il ricorso alle politiche contenute nella “scatola verde”.
Tra le politiche il cui sostegno non è da includere nel calcolo della MASC ci sono quelle che incentivano il ritiro di superfici dalla produzione, cioè di set aside. Se è vero che tali politiche contribuiscono a ridurre le frizioni tra i paesi sui mercati internazionali sostenendo al contempo i redditi degli agricoltori, è anche vero che tale risultato è ottenuto al prezzo dell’introduzione di nuovi rilevanti (e, per quanti auspicano un recupero di efficienza nella strumentazione utilizzata a sostegno del settore agricolo, anche preoccupanti) distorsioni nei mercati, non certo con “una mossa” nella direzione di una loro liberalizzazione.
Una seconda osservazione riguarda la clausola detta de minimis, cioè l’esclusione dal calcolo della MASC delle misure il cui sostegno non superi il 5% dei ricavi dei produttori. Destano, infatti, perplessità le ampie possibilità che essa introduce di soddisfare il vincolo di riduzione del 20% della MASC senza ridurre affatto il sostegno accordato al settore. Non sembra infatti difficile ipotizzare situazioni in cui il soddisfacimento di questo vincolo venga ottenuto grazie ad una riduzione di una misura di sostegno e l’attivazione “compensativa” di più misure nuove, anche “accoppiate”, il cui sostegno non superi la soglia del 5%, ma tali da garantire, nel complesso, agli agricoltori un sostegno analogo a quello di cui godevano prima. Ad esempio, nel caso dell’Unione Europea sembrerebbe possibile immaginare (ammesso che ciò sia necessario) che ad una eventuale riduzione del sostegno accordato a livello di Unione corrisponda, in applicazione del principio della “sussidiarietà”, l’attivazione di un nutrito numero di politiche nazionali o regionali, il cui sostegno rimarrebbe al di sotto della soglia del 5% dei ricavi dei produttori agricoli dell’UE, ma tali da compensare i produttori della riduzione del sostegno legato alle politiche sovranazionali.
Una terza considerazione, sempre di ordine generale, è quella relativa alle oggettive difficoltà di calcolo della MASC e, quindi, soprattutto, alle difficoltà di verifica dei valori della Misura Aggregata del Sostegno Complessivo proposti da ciascuno degli altri paesi. Non sembra assurdo sottolineare che in più di un punto la definizione della MASC rimane piuttosto ambigua, in altri praticamente di impossibile applicazione. In questo senso l’esempio più evidente è senz’altro quello della “definizione” della Misura Equivalente del Sostegno da utilizzare quando non sia possibile quantificare il sostegno altrimenti. Ma anche quando la misurazione del sostegno sarebbe possibile, resta il dubbio che non siano stati inclusi nella MASC i benefici che derivano da ciascuna delle politiche rilevanti utilizzate in ogni paese. Ad esempio, è difficile immaginare che esista qualcuno che, dopo un rapido sguardo ai prospetti dell’UE ed alla relativa documentazione esemplificativa, sia disposto a sostenere che la MASC dell’Unione Europea sia effettivamente comprensiva – così come si evincerebbe dalla lettera dell’Accordo – non solo delle politiche dell’Unione, ma anche di tutte quelle nazionali e regionali.
La scelta di includere come parte integrante dell’Accordo sottoscritto i “prospetti” (dove sono specificati sia l’ammontare della MASC nel periodo “base” che quelli da non superare in ciascuno dei sei anni della fase di implementazione) ha di fatto eliminato la possibilità dell’insorgere di qualsiasi conflitto sulle modalità di calcolo della MASC: come rilevato più volte, la firma dell’Accordo, infatti, ha determinato la definitiva accettazione dei “prospetti” degli altri paesi firmatari. Considerato il ritardo con cui molti “prospetti” sono stati resi disponibili e il tempo che sarebbe stato necessario – data la mole di informazioni e la complessità delle elaborazioni – per verificare le procedure e la correttezza delle informazioni utilizzate, sembra lecito ritenere che ciascun paese sia stato in grado di assicurarsi una scelta delle proprie politiche da far ricadere nella “scatola verde” ed un livello della MASC nel “periodo base” tali da far sì che il soddisfacimento del vincolo di riduzione del 20% in sei anni non costituisca un problema.
L’ultima osservazione di ordine generale su questa parte dell’Accordo è relativa al fatto che gli impegni di riduzione della MASC sono definiti in termini nominali e, in generale, nella moneta del paese. Ciò vuol dire che in presenza di inflazione i vincoli da rispettare sugli ammontari massimi della MASC non verranno toccati. Pertanto, in via di principio, la conseguente riduzione della MASC che avrà luogo risulterebbe in termini reali tanto maggiore di quella in termini nominali, quanto più è alto il tasso di inflazione. Il testo dell’Accordo lascia aperta una via di uscita a questo problema, prevedendo (all’articolo 18) che, nell’ambito del monitoraggio dell’applicazione dell’Accordo, la Commissione per l’Agricoltura “darà la considerazione dovuta agli effetti di tassi di inflazione eccessivi sulla capacità di ciascun paese membro di soddisfare i suoi impegni in termini di sostegno interno”. Resta però difficile prevedere sin d’ora quale sarà la decisione della Commissione su cosa debba intendersi per tasso di inflazione “eccessivo” e, quindi, quale sarà il costo aggiuntivo in termini di maggiore riduzione della MASC per quei paesi nei quali si sia avuta una lievitazione del livello generale dei prezzi negli anni compresi tra il “periodo base” e la fine della fase di implementazione dell’Accordo.
Non vi è, invece, via di uscita apparente ai problemi legati agli effetti sul vincolo di riduzione della MASC di variazioni nei tassi di cambio. In tutti i casi in cui una parte almeno del sostegno sia calcolata come differenza tra il prezzo interno ed il prezzo esterno di riferimento, una variazione del tasso di cambio determinerà una variazione anche della MASC. Una svalutazione della moneta del paese farà salire il prezzo di riferimento esterno espresso nella moneta nazionale e, di conseguenza, farà diminuire la MASC. Il contrario si avrà nel caso di una rivalutazione della moneta del paese. Se è vero che una variazione nel tasso di cambio modifica il sostegno in termini reali dei produttori interni rispetto a quelli del resto del mondo, è anche vero che la variazione del tasso di cambio certamente non rispecchierà soltanto mutate condizioni all’interno del settore agricolo nazionale rispetto a quello di altri paesi. Di conseguenza, gli effetti che essa avrà sulla MASC saranno certamente distorti rispetto alla (eventuale) variazione che si è avuta nel sostegno in termini reali dei produttori agricoli del paese.
Passando a considerare, invece, più nello specifico i meccanismi di calcolo della MASC, possiamo fare un’osservazione.
Il calcolo del sostegno basato sulla differenza tra il prezzo interno ed un prezzo di riferimento esterno sembra ignorare che quest’ultimo non è affatto fisso, ma è funzione delle politiche realizzate dal paese considerato come di quelle degli altri paesi. Ciò vuol dire che, anche in assenza di una “compensazione” tra sostegno “interno” e sostegno che deriva dalle politiche commerciali mediante una modifica delle politiche alla frontiera utilizzate, un paese potrebbe soddisfare il suo vincolo di riduzione del 20% del sostegno… senza fare assolutamente nulla! Si consideri, ad esempio, il caso di un paese importatore che utilizzi come unica misura di sostegno un’integrazione di prezzo – cioè un sussidio variabile alla produzione che garantisce agli agricoltori un prezzo non inferiore ad un dato livello prestabilito – e che ci si trovi in presenza di un mercato internazionale in cui i paesi esportatori intervengano con sussidi all’esportazione ed i paesi importatori con barriere all’importazione. Se la MASC è calcolata sulla base della produzione interna e della differenza tra il prezzo interno alla produzione e quello sul mercato mondiale, essa si ridurrà se gli altri paesi, ottemperando a quanto previsto dalle altre parti dell’Accordo, ridurranno le loro barriere all’importazione ed i loro interventi di sussidio delle esportazioni. Infatti, tali modifiche nelle politiche commerciali degli altri paesi avranno come conseguenza quella di far salire il prezzo sul mercato mondiale e, per questa via, di ridurre la differenza tra questo ed il prezzo interno garantito alla produzione (che, invece, così come la quantità prodotta, rimane invariato), differenza che è alla base del calcolo della MASC. Così questa si ridurrà senza che il paese in questione abbia in alcun modo mutato il livello del sostegno garantito ai suoi produttori. Nel caso in cui il sussidio fosse relativamente contenuto rispetto agli interventi di natura commerciale realizzati dagli altri paesi, potrebbe anche accadere che la riduzione da parte di questi ultimi dei sussidi all’esportazione e delle barriere all’importazione sia tale da determinare una riduzione della MASC superiore al 20%: in questo caso, il paese potrebbe addirittura lecitamente aumentare il livello del prezzo minimo garantito ai produttori con l’integrazione di prezzo.
• L’aumento delle opportunità di accesso ai mercati: “tarifficazione” delle barriere non tariffarie, riduzione delle tariffe e quote di accesso minimo
L’Accordo prevede la sostituzione con delle tariffe di tutte le barriere all’importazione di tipo non tariffarie, e la riduzione delle tariffe (sia di quelle derivanti da questa sostituzione, sia di quelle già esistenti).
Tra le barriere non tariffarie utilizzate più di frequente troviamo: le quote, i prelievi variabili all’importazione, le restrizioni volontarie delle esportazioni, l’imposizione di vincoli sulle modalità di confezionamento e sull’etichettatura dei prodotti.
L’impiego di strumenti di tipo non tariffario per ridurre il volume delle importazioni, sia di quelle agricole che di quelle non agricole, è una pratica il cui uso è andato rapidamente crescendo. La ragione di ciò è molto semplice: in generale le misure di tipo non tariffario sono molto più efficienti di quelle tariffarie nel raggiungere lo scopo di limitare il volume delle importazioni ed isolare il mercato interno dagli effetti delle fluttuazioni che si hanno sui mercati internazionali. Non solo, esse sono anche più difficili da contrastare per i paesi esportatori: mentre un sussidio all’esportazione è in grado di far espandere il volume delle esportazioni dirette verso un paese che protegga il mercato interno imponendo una tariffa sulle importazioni, la stessa misura sarà del tutto inefficiente se il paese importatore utilizza invece una quota, o un prelievo variabile, o impone alle sue importazioni il soddisfacimento di condizioni di qualità ingiustificatamente selettive che non possono essere soddisfatte dalla produzione del paese esportatore.
L’Accordo prevede quella che con un bruttissimo termine viene detta la “tarifficazione” (nel testo inglese tariffication) delle barriere non tariffarie, cioè la sostituzione delle barriere non tariffarie con tariffe ad esse equivalenti. Se in molti casi ha senso parlare di tariffe “istantaneamente equivalenti” – cioè di tariffe in grado di far sì che al momento della loro introduzione, il volume delle importazioni sia analogo a quello che si sarebbe avuto se fossero rimaste in uso le barriere non tariffarie che esse sostituiscono – la possibile “equivalenza” certamente svanisce quando si passa a considerare la possibilità di una tariffa tale da garantire lo stesso volume di importazioni della barriera non tariffaria anche in presenza di mutamenti degli equilibri di mercato, sia di quello interno che di quello internazionale. Quando da uno scenario rappresentato da un equilibrio statico – la fotografia di ciò che accade in un dato istante sul mercato sul quale stiamo fermando la nostra attenzione – ci muoviamo a considerare le relazioni tra equilibri sul mercato interno e sui mercati internazionali che si modificano nel tempo, la differente natura (ed efficacia come strumenti protezionistici) dei due strumenti – la barriera non tariffaria e la tariffa – emerge con tutta la sua forza, e nessuna “equivalenza” può essere ipotizzata.
La differenza tra una tariffa e una barriera non tariffaria è anche marcata dal punto di vista di difesa “politica” della protezione accordata ai produttori interni dagli attacchi provenienti dagli altri paesi. Infatti, per un paese che voglia costringere un altro paese a negoziare una riduzione delle barriere al commercio internazionale sarà assai più semplice mettere in discussione il livello di una tariffa (per la flessibilità propria di una negoziazione che ha come oggetto la misura della riduzione) che non l’eliminazione di un prelievo variabile all’importazione.
Accanto alla “tarifficazione” delle barriere non tariffarie, l’Accordo prevede che ciascun paese nel corso della fase di implementazione debba ridurre del 36% la media aritmetica semplice (cioè non ponderata delle relative importazioni) delle tariffe in vigore l’1 Settembre 1986, o, nel caso in cui si sia dovuto procedere alla “tarifficazione” di barriere non tariffarie, delle tariffe così ottenute (relative al “periodo base” 1986-88).
Una questione rivelante dal punto di vista dell’applicazione di questa parte specifica dell’Accordo, ha a che fare con il “gonfiamento” (o l’”annacquamento”) delle tariffe di base indicate da ciascun paese nei suoi “prospetti” (tariffe, peraltro, implicitamente accettate dagli altri paesi con la firma dell’Accordo). C’è da dire che anche in questo caso, la ristrettezza dei tempi a disposizione per verificare le cifre riportate nei “prospetti” presentati ha consentito a tutti di applicare in maniera piuttosto elastica le procedure di calcolo delle tariffe equivalenti, descritte solo sommariamente nel testo dell’Accordo e nel documento con le “Modalità” per la preparazione dei “prospetti”.
Uno degli esempi più evidenti e, per questa ragione, citati più frequentemente, di “annacquamento” delle tariffe (o di “tarifficazione sporca”, come si usa dire) è senz’altro costituito dalla “tarifficazione” realizzata per alcuni prodotti dal “liberista” Canada. Questo paese, si è preoccupato di garantire il sostanziale mantenimento dello status quo per quelle organizzazioni di mercato (ad esempio, quelle relative ai prodotti lattiero-caseari e ad alcuni prodotti avicoli) che, attraverso efficaci politiche di contenimento dell’offerta sostenute da restrittive quote d’importazione, hanno garantito ai suoi produttori interni prezzi consistenti ed il totale isolamento dal mercato internazionale. Così il Canada per essere sicuro che, anche dopo la riduzione prevista (mantenuta, manco a dirlo, al livello minimo consentito del 15%), il mercato interno resterà sostanzialmente isolato dal mercato mondiale, ha innalzato quello che appare come un vero e proprio invalicabile “muro tariffario”, proponendo, ad esempio, tariffe “equivalenti” per il burro pari al 351%, per i formaggio al 289%, per la carne di pollo al 280%, per le uova al 192% [59]. Peraltro, l’accettazione di tali tariffe da parte degli altri paesi è stata posta dal Canada come condizione irrinunciabile per poter accettare la “tarrificazione” del sue quote.
[59] Che anche dopo la riduzione prevista le tariffe sarebbero state tali da impedire qualsiasi rischio di accesso al mercato interno dei prodotti interessati al di là delle quote di importazione già esistenti è stato, peraltro, ripetuto esplicitamente più volte sia da autorevoli membri del Governo canadese (compreso il ministro all’agricoltura Ralph Goodale), sia nelle note diffuse da Agriculture Canada subito dopo la stipula dell’Accordo, tutte volte a rassicurare i produttori canadesi prevenendo l’insorgere di “ingiustificate” preoccupazioni sui possibili effetti della sostituzione delle quote con delle tariffe.
L’Accordo comprende anche una “Clausola Speciale di Salvaguardia” che prevede eccezioni all’obbligo di riduzione delle tariffe nel caso in cui si abbia o una riduzione del prezzo all’importazione o un aumento del volume delle importazioni al di là di soglie prefissate.
Da più parti è stato sollevato il problema che un possibile frequente ricorso alla Clausola Speciale di Salvaguardia possa ridurre fortemente l’efficacia liberalizzatrice dell’Accordo. L’esigenza della presenza, all’interno dell’Accordo, di una Clausola che renda possibile la protezione dei mercati interni da andamenti particolarmente “anomali” dei mercati internazionali è fuor di dubbio: nessun paese importatore avrebbe accettato un tale Accordo, se esso non avesse previsto la possibilità di difendersi da una caduta verticale dei prezzi internazionali o da una crescita eccessivamente rapida delle importazioni. L’attenzione prestata nel definire le condizioni per poter far ricorso alla Clausola Speciale di Salvaguardia ed i limiti posti alle azioni che essa rende legittime costituiscono garanzie sufficienti rispetto a possibili tentativi di riacquistare, attraverso il ricorso ad essa, i margini di protezione svaniti a seguito della “tarifficazione” delle barriere non tariffarie e della riduzione delle tariffe.
Un altro problema riguarda i legami tra impegni da soddisfare e variazioni nello scenario macroeconomico. Così, come nel caso della riduzione della MASC, anche in quello degli impegni relativi all’accesso di mercato, l’andamento del livello dei prezzi e quello dei tassi di cambio della moneta del paese rivestono un ruolo centrale. Ad esempio, una rivalutazione della moneta determinerà una riduzione dei prezzi internazionali espressi nella moneta nazionale e, di conseguenza, una riduzione anche della protezione garantita al mercato interno dalla tariffa specificata nei “prospetti” del paese. Un effetto analogo avrà un aumento del livello dei prezzi interno che non sia associato ad una svalutazione della moneta del paese nella stessa misura.
• Riduzione della spesa per sussidi all’esportazione e del volume delle esportazioni sussidiate
Per quanto riguarda le politiche a sostegno delle esportazioni, l’Accordo prevede impegni di riduzione sia per quanto riguarda la spesa in sussidi all’esportazione che per quanto riguarda il volume delle esportazioni sussidiate. Al termine dei sei anni della fase di implementazione dell’Accordo la spesa per sussidi all’esportazione (che comprende anche le eventuali minore entrate per il governo che derivano dalle politiche di sussidio realizzate) dovrà essere ridotta del 36% e le esportazioni sussidiate del 21% rispetto alle relative medie annue nel “periodo base”, che, in questo caso, è costituito dagli anni 1986-1990.
In molti paesi il volume delle importazioni sussidiate ha continuato a crescere negli anni tra il “periodo base” e la firma dell’Accordo. Ciò vuol dire che la riduzione delle esportazioni sussidiate che dovrà aversi nel corso della fase di implementazione dell’Accordo sarà maggiore del 21%.
Ovviamente, le riduzioni di cui si parla sono relative esclusivamente alle esportazioni sussidiate: non è affatto detto che tale riduzione debba tradursi in una riduzione di uguale misura delle esportazioni nel complesso. Infatti, potrebbero crescere sia le esportazioni non sussidiate sia gli aiuti alimentari; inoltre il volume delle esportazioni complessive potrebbe essere sostenuto indirettamente attraverso misure di sostegno della produzione, magari non comprese nel computo della MASC, compensative della riduzione del sostegno all’esportazione.
Le esportazioni sotto forma di aiuti alimentari non sono da comprendere tra le esportazioni sussidiate a patto che questi vengano realizzati in conformità alle direttive Fao a riguardo, che non siano in alcun modo legati ad esportazioni su base commerciale verso il paese cui esse sono diretti, e che, possibilmente, siano ceduti in forma completamente gratuita.
Inoltre, l’ “Accordo sull’agricoltura” prevede che eventuali sussidi all’esportazione diversi da quelli esplicitamente compresi tra quelli soggetti agli obblighi di riduzione non possano essere utilizzati in maniera da aggirare gli impegni previsti, e che sia a carico del paese esportatore l’onere di provare che esportazioni in eccesso rispetto al limite previsto non abbiano beneficiato di sussidi.
L’accordo prevede anche l’impegno a non introdurre nuovi sussidi all’esportazione rispetto a quelli utilizzati nel “periodo base”. Le riduzioni della spesa e delle esportazioni sussidiate dovranno essere realizzate attraverso riduzioni di uguale misura in ciascuno dei sei anni della fase di implementazione dell’Accordo.
• Gli impegni per espandere l’accesso ai mercati: l’introduzione di quote minime di importazione
L’Accordo prevede che ciascun paese debba consentire nel primo anno della fase di implementazione un accesso minimo al mercato interno pari per ciascun prodotto ad almeno il 3% del consumo interno nel “periodo base” 1986-88, per raggiungere progressivamente almeno il 5% nel 2001. Le importazioni che hanno luogo nell’ambito di tali quote di accesso minimo sono soggette ad una tariffa ridotta, pari al 32% di quella applicata sulle (eventuali) restanti importazioni.
E’ importante sottolineare che l’Accordo non prevede che ciascun Paese debba effettivamente importare una quantità di ogni prodotto maggiore o uguale alla quota di accesso minimo, ma soltanto che venga garantita la possibilità che si abbiano importazioni pari a tale quota ad una tariffa che è uguale al 32% di quella imposta sulle (eventuali) importazioni aggiuntive. Quindi se, al limite, tale tariffa – pur sensibilmente ridotta rispetto a quella applicabile alle eventuali importazioni in eccesso rispetto a quelle che possono aver luogo nell’ambito della quota di accesso minimo – non fosse tale da rendere conveniente un flusso di importazioni, la quota potrebbe restare del tutto inutilizzata senza che per questo il paese si venga a trovare in una posizione di inadempienza rispetto agli impegni sottoscritti.
Nel caso esistano già misure che garantiscono quote di accesso di mercato – sia che queste siano complessive (cioè non specifiche per paese di provenienza delle importazioni), sia che esse siano invece specificamente attribuite su base preferenziale ad uno o a più paesi esportatori – queste devono essere mantenute (e ciò anche nel caso in cui esse fossero maggiori della quota di accesso minimo). Nel caso in cui invece l’accesso di mercato venga ampliato dall’applicazione della quota di accesso minimo, questa espansione dovrà essere realizzata sulla base delle condizioni di “nazioni più favorita”, cioè dando pari opportunità di accesso a tutti i paesi firmatari dell’accordo. Peraltro, i “prospetti” dei paesi sviluppati più importanti mostrano un buon numero di quote di accesso preferenziali nell’ambito di quelle di accesso minimo anche in assenza di quote pre-esistenti (o in presenza di quote pre-esistenti molto più piccole), come risultato di infuocate negoziazioni bilaterali nelle fasi conclusive del negoziato.
2.2 – Una valutazione di sintesi
Nonostante l’ottimismo di alcune valutazioni “a caldo” che hanno salutato la stipula dell’Accordo, non v’è dubbio che esso rimanga assai lontano dal poter condurre alla liberalizzazione degli scambi internazionali di prodotti agricoli auspicata da molti (e da molti paventata) nella fase iniziale del negoziato. L’Accordo mostra evidenti i segni dei compromessi che hanno reso possibile la conclusione del negoziato. Né bisogna dimenticare che tale conclusione è da far risalire più ad una decisione presa sulla base di valutazioni politiche di natura più generale, che ad una convergenza degli apprezzamenti sul testo scaturito dal processo negoziale.
Certo, chi si attendeva una sostanziale liberalizzazione degli scambi internazionali di prodotti agricoli non potrà che dirsi insoddisfatto dall’esito dell’Accordo, e a ragione. La generosissima “tarifficazione” delle barriere non tariffarie, la riduzione soltanto del 15% in sei anni delle tariffe relative ai prodotti più sensibili, una definizione della Misura Aggregata del Sostegno Complessivo tale da consentire ogni accomodamento, la crescita delle rigidità negli scambi internazionali legata all’introduzione delle quote di accesso minimo e, nell’ambito di queste, di numerose quote su base bilaterale, sono tutti elementi che non includono certo a pensare a cambiamenti significativi nella direzione sperata negli scambi di prodotti agricoli nei prossimi anni.
Se, nel lungo periodo, l’elenco degli elementi dell’Accordo che faranno sentire i loro effetti è decisamente più lungo, nel breve periodo sembra che siano soltanto i vincoli relativi ai sussidi all’esportazione e, in qualche caso, l’introduzione delle quote di accesso minimo, a poter determinare l’esigenza di mutamenti non marginali nelle politiche economiche a sostegno dell’agricoltura.
Possiamo, quindi, affermare che la crescita sostenuta dal commercio internazionale, attraverso l’avanzamento dei negoziati dell’Accordo generale sulle tariffe doganali e il commercio, non avrà, almeno nel breve periodo, l’efficacia richiesta affinché possa consentire ai paesi del sud di migliorare il legame (almeno teorico) che c’è tra commercio, crescita, occupazione, povertà e, quindi, sicurezza alimentare.
“La povertà è una delle principali cause di insicurezza alimentare”. Per giungere a tale conclusione, scritta sulla prima pagina del documento intitolato “Dichiarazione di Roma sulla sicurezza alimentare”, dal 13 al 17 novembre del 1996, centinaia di capi di Stato, ministri e diplomatici si sono riuniti al Vertice mondiale sull’alimentazione. Le pagine che seguono sono tutto un fiorire di promesse, impegni e buone intenzioni. Certo, considerando gli impegni e le promesse del passato, sorgono dubbi sulla loro effettiva realizzazione.
Era il 1974, quando alla Conferenza mondiale sull’alimentazione, Henry Kissinger, segretario di Stato degli Stati Uniti, dichiarava che entro dieci anni nessuno avrebbe sofferto più la fame.
Gli avvenimenti successivi l’hanno smentito ampiamente, nonostante le stime della Fao rilevino una diminuzione del numero dei denutriti cronici. Spontaneamente sorge la domanda se si possa affermare con certezza che le stime sul numero dei denutriti per il 1970, il 1990 e il 2010 siano esatte. Il problema, però, non è stabilire se i denutriti cronici siano più o meno di 800 milioni, ma la loro stessa esistenza. Quindi, occorrerebbe trovare una soluzione, se questa è l’intenzione (…).
Dalla presente trattazione emerge come il punto di partenza, preso in considerazione per risolvere il problema della sicurezza alimentare, presenti già di per sé delle imprecisioni: il calcolo dei denutriti, stimato dalla Fao nel numero di 800 milioni di persone, è in realtà approssimativo, in quanto i dati utilizzati non sono completi.
Si è inoltre rilevato come gli strumenti di pianificazione familiare che consentono di incidere sull’aumento della popolazione non possono essere coercitivi, ma ne deve essere garantita la libertà di scelta al di là dei motivi politici e religiosi che possano condizionarne l’applicazione.
Gli indiscussi vantaggi apportati dalla rivoluzione verde alla sicurezza alimentare non possono, tuttavia, celare le ripercussioni negative che la stessa ha prodotto in campo economico, sociale e, soprattutto, ambientale. Si impone, quindi, un impegno da parte dei governi al fine di indirizzare i benefici della rivoluzione verde a coloro che si trovano in una situazione di insicurezza alimentare.
Il problema del degrado ambientale affrontato dalle varie conferenze è stato risolto più nella forma che nella sostanza. E’ necessario, pertanto, un approccio diverso che consideri non più e non solo la relazione biunivoca tra povertà e degrado ambientale, ma anche il ruolo delle forze economiche, sociali e politiche.
L’accordo sull’agricoltura conclusivo dell’Uruguay Round, nella pratica applicazione, non ha determinato i risultati programmati. I “timidi” passi verso la realizzazione della liberalizzazione del commercio internazionale inducono a ritenere che, nel breve periodo, l’accordo non può essere uno strumento adeguato per risolvere il problema della sicurezza alimentare nei paesi in via di sviluppo: gli interventi di natura protezionistica dei paesi sviluppati tradiscono l’intento di mantenere la propria posizione di privilegio e il perseguimento dei propri interessi, non consentendo ai PVS un’effettiva crescita economica per la soluzione del problema della denutrizione.
Probabilmente, degli effettivi risultati si potranno ottenere in seguito ad un “vero” cambiamento nella posizioni dei paesi occidentali, più precisamente, nelle loro ideologie politiche, economiche e sociali.
Si predicano sempre la democrazia e l’altruismo tra i paesi. La realtà, però, mostra una situazione diversa.
Il G-7 ha il compito di coordinare la politica economica delle potenze industriali: Stati Uniti, Germania, Giappone, Francia, Inghilterra, Italia e Canada. I tassi di interesse, le quotazioni delle valute nazionali, le politiche della Banca Mondiale e del FMI sono variabili dell’ordine mondiale economico che questo gruppo manipola.
Questo organismo, nonostante le conseguenze delle sue decisioni e lo straordinario potere che esercita, non è soggetto ad alcun controllo democratico. L’ingresso nel G-7 non avviene per elezione, ma per cooptazione, esclusivamente su invito dei membri. I membri di questo illustre club – e cioè tutti i presidenti e ministri degli esteri delle democrazie occidentali, che spesso sottolineano le virtù della democrazia – si riservano il diritto di accesso; di conseguenza, dei 178 Stati nazionali facenti parte delle Nazioni Unite, meno del 5% determina l’economia dell’umanità.
La stessa situazione è riscontrabile in altri organismi mondiali. I procedimenti di partecipazione e decisione non si reggono su principi di democrazia formale, ma, come nel G-7, sul potere reale.
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ad esempio, costituisce l’unica rappresentanza politica universale e, in effetti, ha una struttura formalmente democratica, nel senso che ogni nazione dispone di un voto. Ciò, però, non riveste grande importanza pratica, dato che l’Assemblea Generale è semplicemente un foro di dibattito pubblico, che produce e ratifica risoluzioni – e niente più. La politica reale si fa in Consiglio di Sicurezza e qui la democrazia non trova posto. I cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (Inghilterra, Stati Uniti, Francia, Russia e Cina) dispongono di un diritto di veto, il cui esercizio può bloccare qualsiasi iniziativa o attività degli altri Stati della società mondiale. Non esiste nessuna legittimazione democratica per questo strumento di potere. La presenza degli Stati privilegiati nel Consiglio di Sicurezza è il risultato della correlazione di forze tra gli alleati vittoriosi della coalizione antifascista alla fine della Seconda Guerra Mondiale, che riservò al blocco socialista il 40% del potere ed ai paesi capitalisti il 60%.
Finché il 20% della popolazione mondiale concentra e consuma l’83% del reddito mondiale, non ci possono essere miglioramenti sostanziali nel livello di vita dei “condannati della terra” (Fanon). Lo sviluppo diseguale e sfasato, tipico del capitalismo, richiede un’iniziativa politica orientata a rendere la ricchezza socialmente prodotta dal pianeta accessibile all’umanità intera. Tale iniziativa implica la democratizzazione del FMI, della Banca Mondiale, del G-7 e delle altre strutture del mondo capitalista, cioè, la loro sottomissione al controllo maggioritario dell’umanità.
A livello politico, sarebbe più opportuno che le decisioni oggi prese dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite siano affidate all’Assemblea Generale, come esige un minimo di logica della democrazia.
A livello militare, la democratizzazione del sistema mondiale imporrebbe un ripensamento sul ruolo della NATO, in considerazione degli avvenimenti che hanno profondamente cambiato la storia dei paesi dell’ex blocco socialista.
Oggi sarebbe tecnicamente possibile unificare il mondo e abolire del tutto la povertà. Ciò diventerebbe realtà se gli uomini desiderassero la felicità propria più della miseria dei loro nemici. Nel passato c’erano ostacoli fisici al benessere umano. Oggi, gli unici ostacoli si trovano nell’animo degli uomini. Soltanto l’odio, la follia e le credenze errate bloccano il nostro cammino verso il millennio. Tutto ciò, finché dura, ci tiene sotto la minaccia di un disastro senza precedenti. Ma forse la stessa gravità del pericolo, con la forza del terrore, può indurre gli uomini a far uso del senso comune.
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