Nuova macroeconomia classica e aspettative razionali

da | 24 Feb 2003 | Economia politica | 0 commenti

Introduzione storica

Per oltre 30 anni la teoria di Keynes e dei suoi seguaci, i post-keynesiani, ha rappresentato la spiegazione economica più convincente dell’andamento delle forze di mercato e delle regole di funzionamento dei sistemi economici. Essa è stata anche un validissimo strumento di ausilio per le scelte di politica economica, che i governi dei paesi con economia di mercato hanno dovuto adottare, al fine di fronteggiare i cicli e le congiunture economiche.

Il crollo di questa teoria e dell’opportunità di utilizzarla come strumento di supporto della PE centrale, si è avuto negli anni ’70. In quegli anni si è verificato, per la prima volta nei sistemi di mercato, un nuovo ed imprevedibile fenomeno economico: la stagflazione.

La stagflazione consiste nella contemporanea presenza, nel mercato, dei due grandi mali delle economie occidentali: la stagnazione (o recessione, e quindi disoccupazione dei lavoratori) e l’inflazione.

Nella visione di Keynes la disoccupazione è causata da un insufficiente livello della domanda aggregata. Viceversa, l’inflazione (cioè la crescita dei prezzi dei prodotti) è giustificata nella teoria keynesiana solamente quando il mercato raggiunge il pieno impiego. Solo allora l’eccesso della domanda aggregata rispetto all’offerta (che ha raggiunto il massimo livello, in termini reali), non potendo riversarsi sulla quantità reale (già al massimo), si riversa sui prezzi, determinandone un incremento e, quindi, un aumento del PIL nominale (dei prezzi, non delle quantità).

La teoria keynesiana non è più in grado di spiegare questo nuovo fenomeno della stagflazione, perché essa non ammette la presenza contemporanea di disoccupazione ed inflazione. Per Keynes, infatti, una situazione di disoccupazione è incompatibile con prezzi in aumento, bensì, al contrario, con prezzi in diminuzione, per effetto appunto della recessione.

Questo spiega anche il motivo delle politiche economiche completamente sbagliate e oltretutto destabilizzanti, che furono praticate in quegli anni. Infatti, sulla scia di Keynes, in un primo tempo, furono adottate politiche economiche (monetarie e fiscali) fortemente espansive. Ma gli effetti sui prezzi dei beni, di queste scelte politiche, furono quantomeno devastanti, perché aggravarono ulteriormente la tendenza al rialzo dei prezzi già in atto all’interno dei sistemi economici, senza peraltro grossi rientri della disoccupazione, come invece speravano i governi.

La verità è che la filosofia keynesiana non era più in grado di spiegare l’economia, in presenza di fenomeni, come la stagflazione, tipici dei paesi occidentali moderni. E quest’amara constatazione fu presto alla portata di tutti.

In una siffatta situazione economica, molti economisti abbandonarono l’idea keynesiana, che fino ad allora era riuscita a spiegare e giustificare validamente i fenomeni economici di mercato.

Si formarono, di conseguenza, diverse correnti di pensiero, sostenitrici delle più svariate teorie economiche, ma in generale ci fu un grande ritorno alle convinzioni “classiche” del pensiero economico.

Nuovi macroeconomisti classici

In un mercato in cui le politiche economiche adottate dai governi, anziché risanare i mali, aggravavano le situazioni patologiche già in atto (inflazione e disoccupazione), è facile capire come il pensiero classico dell’economia abbia avuto un grande “revival”.

I c.d. nuovi macroeconomisti classici degli anni ’70 e ’80 ripresero le convinzioni degli economisti del secolo precedente e, sia pur con varie differenze concettuali al loro interno, iniziarono a predicarle al mondo intero, dopo averle adattate ai nuovi contesti economici che si erano formati nel corso di più di 100 anni.

I capisaldi dei nuovi macroeconomisti classici, sia pur con varie sfumature, erano e sono i seguenti:

• Il sistema economico è in grado da solo di ritornare alla piena occupazione, senza gravi conseguenze in termini di inflazione

• Il governo e la Banca centrale devono astenersi dal compiere qualsiasi operazione di politica economica (rispettivamente fiscale e monetaria)

• Gli interventi di PE da parte della PA (Pubblica Amm.zione) sono generatori di destabilizzazione e provocano essi stessi le fluttuazioni del ciclo economico (recessione e ripresa)

• In particolare, è da evitare la politica monetaria (PM), perché una quantità eccessiva di offerta di moneta provoca inflazione

• È da evitare la politica fiscale, perché i suoi effetti sul sistema economico sono efficaci nel breve periodo, in quanto aumentano i consumi, ma sostanzialmente neutri ed anzi destabilizzanti nel lungo periodo, in quanto provocano il fenomeno dello spiazzamento, cioè la diminuzione del consumo privato dei beni destinati alla produzione

• Bisogna lasciare che le forze di mercato, della domanda e offerta, agiscano liberamente, in modo che il mercato vada da solo verso il suo equilibrio

• Alcuni macroeconomisti neoclassici, adattando le vecchie teorie classiche, affermano che l’equilibrio che il mercato raggiunge da solo, liberamente, potrebbe non coincidere con la piena occupazione delle risorse, ma questa disoccupazione “organica” sarebbe fisiologica, cioè ineliminabile dal sistema, e, quindi, da accettare così com’è.

Le teorie neoclassiche, caratterizzate da varie correnti, esistono ancora, così come ancora ci sono economisti che ripropongono Keynes in versione aggiornata, ma l’influenza delle loro opinioni, sulle scelte politiche, è stata evidente soprattutto alla fine degli anni ’70 ed inizio anni ’80, quando i governi occidentali ridussero sensibilmente il ruolo pubblico nell’economia di mercato.

I monetaristi

Una trattazione speciale meritano i monetaristi, per l’originalità della loro visione economica, ma soprattutto per l’influenza e le conseguenze che hanno determinato nelle scelte politiche di alcuni paesi.

Punto fondamentale della loro teoria è la centralità della moneta nel funzionamento di ogni sistema economico. Per i monetaristi, la moneta (e la sua offerta da parte della BC) ha un’importanza fondamentale e da essa non si può prescindere, se si vuole capire e spiegare i fenomeni economici.

Il ragionamento dei monetaristi prende l’avvio dalla seguente uguaglianza, nota come equazione quantitativa degli scambi:

M * V = P * Q

Dove M è la quantità di moneta, V è la sua velocità di circolazione (cioè il numero di volte che la moneta è utilizzata come tale), P è il prezzo dei beni e Q la quantità di essi.

L’equazione di cui sopra si legge così. La moltiplicazione di P x Q, cioè del prezzo per la quantità, rappresenta il PIL nazionale, dato appunto dal prodotto della quantità di beni reali per il loro prezzo. Ma, per effetto dell’eguaglianza, anche M x V, rappresenta il PIL nazionale. Ciò è evidente se si pensa che il PIL di un anno in un paese, è misurato sia dalla produzione nominale (cioè a prezzi correnti) di beni e servizi nel periodo considerato, sia dal volume degli scambi di questi beni e servizi effettuati nello stesso periodo. Il volume degli scambi effettuati è appunto M x V, perché il totale degli scambi non è altro che la quantità di moneta moltiplicata per il numero delle volte che è essa è stata utilizzata nei pagamenti. Per cui possiamo dire che il PIL è rappresentabile sia in termini di beni e servizi prodotti (P x Q), sia in termini di beni e servizi scambiati (M x V).

I monetaristi ragionano in questo modo. La velocità di circolazione della moneta V è presumibile che rimanga costante nel tempo (in realtà non è così, infatti nel tempo essa aumenta, si pensi alle carte di credito che hanno sicuramente accelerato l’utilizzo di moneta in questi ultimi anni), per cui essa si può ritenere una costante. In conseguenza di ciò, la formula precedentemente vista si trasformerebbe così:

M = P * Q

In cui gli aumenti di M avrebbero conseguenze decisive sul PIL ed in particolare sul PIL monetario (i prezzi), data la non variabilità nel breve periodo di Q. Ecco dimostrato come l’offerta di moneta da parte della BC ha un’influenza diretta ed immediata sulla determinazione del PIL nazionale.

Da questa costruzione si traggono le seguenti conclusioni monetariste:

• La moneta e la sua offerta da parte della BC sono importantissime nella determinazione del reddito nazionale

• C’è una relazione diretta e strettissima fra gli aumenti di moneta M e la crescita del PIL

• La PM della BC è decisiva per l’equilibrio macroeconomico

• La PM si deve limitare a seguire una regola semplice (così la chiamano i monetaristi), cioè fissare a priori il tasso di crescita che si vuole dare alla moneta e questo tasso di crescita deve essere molto contenuto

• Se la moneta in circolazione cresce ad un tasso di crescita maggiore di quello prefissato (PM espansiva), i riflessi si avranno, anziché sulle quantità Q, sui prezzi P, con una conseguente impennata dell’inflazione

• E’ necessario strozzare l’economia fissando un’offerta di M, da parte della BC, che non cresca troppo nei vari anni e che, quindi, rispetti i tassi di crescita prefissati dalla stessa autorità monetaria. Solo così si può avere un’economia senza inflazione

• La politica fiscale, viceversa, non è in grado di correggere le fluttuazioni economiche, perché anche laddove non le provochi essa stessa (quando è utilizzata in modo sbagliato), è comunque completamente inefficace e può provocare effetti benefici solo per un breve periodo.

Le aspettative razionali

Altra corrente di pensiero economico è quella dei teoretici delle aspettative razionali.

Secondo questa teoria, che indubbiamente ha dei meriti, gli operatori economici (consumatori, imprese, investitori, finanziatori, ecc.) si formano delle aspettative o previsioni razionali, su quello che sarà il futuro scenario economico.

I sostenitori della teoria delle A.R. affermano che l’attesa di questi eventi futuri, da parte degli operatori razionali, comporta inevitabilmente il verificarsi proprio degli stessi eventi che si attendevano. Cioè sono proprio gli operatori che, attraverso il loro comportamento conseguente ad una certa aspettativa riguardo un evento futuro, provocano il verificarsi dell’evento economico che essi stessi si aspettavano.

La conclusione è che l’economia si indirizza verso quei risultati, che la maggior parte dei membri del sistema economico ritiene razionalmente che vengano raggiunti.

Tutto ciò è vero, sempre secondo i teoretici delle A.R., se gli operatori formano delle aspettative in modo razionale. Sono razionali le aspettative quando:

1) Gli operatori utilizzano al meglio tutte le informazioni disponibili sul mercato

2) Gli operatori conoscono perfettamente il funzionamento del sistema economico in cui operano

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