L’impresa familiare è disciplinata dall’art. 230 bis del codice civile e richiamata dall’art. 5 4°comma del TUIR (D.P.R. 22/12/1986 n. 917) ed è contemplata dal nostro ordinamento giuridico con l’avvento della riforma del Diritto di famiglia avvenuta nel 1975 (l. 19/5/1975 n. 151).
Detto articolo disciplina i rapporti che nascono all’interno di una famiglia o di un ‘impresa qualora un familiare presti in modo continuativo la propria attività lavorativa in seno alle stesse, lo stesso così recita “salvo che sia configurabile un rapporto diverso,il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine dell’avviamento commerciale,in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.”
Di seguito vengono poi elencati una serie di diritti (decisioni)che spettano ai familiari partecipanti all’impresa stessa in merito all’impiego di utili, degli incrementi, alla gestione straordinaria e nonché alla cessazione dell’impresa, infine stabilisce cosa si intende per familiari(coniuge, parenti entro il 3°grado,affini entro il secondo artt.74, 75, 76, 77, 78 cc ).
Ora sotto un aspetto prettamente “civilistico” diverso da quello fiscale che vedremo in seguito, sembra che l’articolo 230 bis dia adito a svariate interpretazioni in merito alla natura del rapporto intercorrente tra l’imprenditore (?!) e i familiari collaboratori.
Lo stesso articolo esordisce mettendo subito in evidenza il fatto che affinché si possa parlare di Impresa familiare non deve configurarsi un rapporto diverso da quello prettamente di collaborazione continuativa(non prevalente) in seno alla stessa, per tanto da una attenta lettura del suddetto articolo constatati i diritti decisionali attribuiti ai collaboratori è da escludere categoricamente la configurazione di un rapporto di lavoro subordinato.
Semmai, il dubbio può sorgere laddove si possa configurare una sorta di impresa collettiva gestita congiuntamente vista la possibile ingerenza dei familiari collaboratori nella gestione straordinaria dell’impresa, cosa che normalmente avviene nelle società di persone ed in particolar modo nella società in accomandita semplice dove i soci accomandanti hanno poteri sulla gestione straordinaria.
Non ultimo in ordine di importanza, è il fatto che l’articolo del CC cita la circostanza di prestare attività lavorativa nell’impresa familiare e non nell’impresa del titolare, per cui in merito alla titolarità dell’impresa la stessa non può essere solo suffragata dalla semplice intestazione delle autorizzazioni amministrative ad una sola persona, le quali autorizzazioni pongono si l’intestatario quale titolare dell’impresa nei confronti di terzi ma non necessariamente nei rapporti interpersonali tra i componenti, ed a volte anche nei confronti di terzi si è ipotizzata l’estensione delle responsabilità non solo personali ma anche di natura patrimoniale dei partecipanti all’impresa nei confronti di questi ultimi, a seguito di contratti conclusi anche verbalmente e quindi di ingerenze nella gestione ordinaria tali da indurre i terzi al convincimento di contitolarità.
Per questo motivo buona parte della dottrina si è proposta di considerare i componenti l’impresa familiare come contitolari o cogestori, e la stessa impresa familiare come un organismo di tipo societario, circostanza recepita anche dalla legislatura (art. 29 L. 30 Dicembre 1991, n. 413, trasformazione agevolata delle imprese familiari in società di persone).
Unico punto fermo dell’art. 230 bis che farebbe cadere l’ipotesi di un rapporto societario di fatto è quello che i partecipanti all’impresa familiare partecipano solo agli utili e non alle perdite come avviene nelle società.
Fatte queste necessarie premesse possiamo così sintetizzare l’Impresa familiare in base all’articolo 230 bis del cod. civ.:
- l’impresa è formata dall’imprenditore titolare e dai familiari che ne partecipano
- sono considerati familiari, il coniuge, i parenti entro il terzo grado (genitori, figli, fratelli, nipoti diretti o nipoti, figli di fratelli) gli affini entro il secondo grado (suoceri, generi, nuore, cognati fratelli del coniuge)
- i familiari hanno diritto di mantenimento e partecipano agli utili in proporzione alla quantità e qualità dell’opera prestata, nonché ai beni acquistati con essi e agli incrementi dell’azienda, e decidono a maggioranza ( si presume numerica e non percentuale di partecipazione non essendo contemplata) sulla destinazione degli stessi
- l’impresa familiare viene a cessare dal momento che vengono meno gli elementi essenziali per i quali è stata concepita, e possono essere molteplici quali la cessione o cessazione dell’attività,il divorzio nel caso di impresa composta da soli coniugi,il recesso di un componente sempre nel caso sia composta da soli due soggetti, ecc…
In caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell’azienda i partecipi hanno diritto di prelazione sull’azienda stessa.
Ben diverso è il trattamento riservato all’impresa familiare dall’ordinamento tributario, in cui la stessa è contemplata dall’art. 5 quarto comma del TUIR (D.P.R. 22/12/1986 n.917), il quale elenca i redditi prodotti in forma associata.
Pur richiamando nel primo capoverso del comma 4 l’articolo 230 bis del codice civile, dispone particolari condizioni tassative affinché l’impresa familiare possa avere efficacia e valenza ai fini fiscali e precisamente: “i redditi prodotti dall’impresa familiare limitatamente al 49 % dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, sono imputati a ciascun familiare che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili.”.
Da questo primo concetto è facilmente intuibile come l’amministrazione finanziaria abbia dato risalto alla figura dell’imprenditore (art. 2195 del cc.) non richiamato invece dall’art. 230 bis cc., e che la prestazione di lavoro nell’impresa deve essere oltre che continuativa anche prevalente rispetto ad altre eventuali attività.
Anche questo punto in passato è stato oggetto di contraddittorio presso le Commissioni Tributarie circa il concetto di prevalenza ed il modo di quantificarla, questo solo nel caso che un collaboratore familiare svolgesse anche un’altra attività,da una parte c’era chi sosteneva che fosse in riferimento alle ore lavorative e dall’altra chi sosteneva invece che fosse in funzione del reddito prodotto come entità numeraria.
Successivamente molteplici chiarimenti ministeriali hanno rimarcato il concetto che per attività prevalente si intende quella esclusivamente esercitata dal collaboratore in seno all’impresa familiare e che quindi non può svolgere altre attività lavorative quali lavoro dipendente, lavoro autonomo o d’impresa, mentre non sussistono cause ostative per i collaboratori titolari di redditi da pensioni, in quanto l’attività lavorativa materiale viene meno.
Tutti i familiari partecipanti all’impresa familiare devono risultare nominativamente e con l’indicazione del grado di parentela o di affinità con l’imprenditore titolare, da un atto pubblico o scrittura privata autenticata di data anteriore al periodo d’imposta e deve essere sottoscritta sia dall’imprenditore che dai familiari.
Il predetto atto deve essere registrato nei termini presso l’Agenzia delle Entrate.
Qualora l’attività d’impresa venga iniziata nel corso di un periodo d’imposta, l’atto di determinazione della quote di partecipazione agli utili può produrre effetti fiscali dal periodo stesso a condizione che esso risulti posto in essere contestualmente all’inizio dell’attività e sia debitamente registrato nei termini ordinari (C.M. 40/9/2146 del 19/12/76, Dir. Gen. Imposte).
L’imprenditore nella propria dichiarazione dei redditi deve indicare la quota di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e attestare che le quote stesse siano proporzionate alla quantità e qualità del lavoro effettivamente prestato nell’impresa, in modo continuativo e prevalente durante il periodo d’imposta, mentre i familiari devono attestare nella loro dichiarazione dei redditi di aver prestato la loro attività lavorativa alle medesime condizioni di cui sopra.
Infine anche l’amministrazione finanziaria stabilisce che ai fini delle imposte sui redditi i familiari sono considerati con i stessi criteri dell’art. 230 bis cc.
Analizzando la differenze tra le due discipline ossia quella civilistica e quella fiscale, si può notare come l’ordinamento tributario dia spiccato risalto alla figura dell’imprenditore titolare dell’impresa intesa come tale, e che solo ed esclusivamente su di lui ricadano tutti gli adempimenti e incombenze previste dalle disposizioni legislative.
Basti pensare che grava sul titolare d’impresa iscrivere i familiari collaboratori presso gli Istituti previdenziali per i contributi dovuti alla gestione autonoma commercianti e/o artigiani, così dicasi per le assicurazioni sugli infortuni qualora previste.
Va sottolineato infine che l’imputazione proporzionale degli utili ai collaboratori familiari, va effettuata sul reddito d’impresa familiare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, pertanto ne discende che l’imputazione stessa può essere fatta solo sul reddito dichiarato e non sul maggior reddito eventualmente accertato dall’ufficio, il quale andrà esclusivamente attribuito al titolare dell’impresa e non può, quindi, essere imputato pro quota agli altri familiari aventi diritto alla partecipazione sugli utili dell’impresa.(C.M. 6/9/207 del 20/02/84, Dir. Gen. Imposte).
In conclusione si può affermare che, da un punto di vista prettamente tributario, l’impresa familiare richiede sempre come elemento imprescindibile l’esercizio di un’attività d’impresa, ne consegue che non è configurabile un lavoro svolto solo nella famiglia, né tanto meno un’impresa commerciale posta in essere da un professionista con il proprio coniuge.
Puo’ un impresa famigliare avere o un dipendente non famigliare o un collaboratore esterno?
in caso di pignoramento l’impresa famigliare e pignorabile?