Atlante geopolitico

da | 20 Ott 2004 | Geopolitica | 1 commento

Globalizzazione

La mappa politica dopo la Guerra Fredda

All’inizio del XXI secolo, il sistema politico internazionale può essere definito come un insieme multiforme composto da circa 200 stati e un numero d’organizzazioni internazionali, inter-governative e non governative in continua crescita.

La rappresentazione del mondo continua a definirsi intorno alla “onnipresenza dello Stato”, apparendo perciò come una successione di Stati e territori chiaramente divisi tra di loro; quindi gli Stati sono ancora al centro del nostro modo di pensare e rappresentare il mondo.

Rifacendoci al periodo della guerra fredda bisogna dire, che se fuori dell’Europa, l’emergere di USA e URSS come nuove potenze mondiali favorì la dissoluzione degli imperi coloniali europei, in Europa in questo periodo si produsse l’effetto contrario per via del riassorbimento dei Paesi baltici da parte dell’URSS e perché il timore di innescare un’escalation incontrollabile congelò questa situazione per circa 40 anni.

Tutte le regioni che compongono, agli inizi del XXI secolo, il sistema internazionale devono la propria configurazione a processi di frammentazione verificatisi nell’ultimo secolo, e ciò ci permette di capire anche perché molti di questi Stati siano ancora alle prese con la costruzione di un assetto istituzionale stabile e un’identità nazionale riconoscibile, innescando anche una serie interminabile di conflitti di successione che hanno segnato il dopo-Guerra Fredda.

Nell’Ottocento si ebbe la svolta verso una unificazione del sistema e della società internazionale, infatti: il sistema internazionale si consolidò come sistema di dominio delle potenze europee sul resto del mondo, la società internazionale si sviluppò in maniera più controversa, a man mano che le diverse regioni si uniformavano alle istituzioni, alle regole, alle procedure e persino ai linguaggi dell’esperienza europea.

L’economia mondiale

Con la fine della Guerra Fredda è venuta meno quella pesante contrapposizione del mondo in due blocchi separati, quello americano e quello sovietico, distinti oltre che dalle diverse ideologie, anche dai sistemi economici differenti: di mercato (quello americano) pianificato (quello sovietico).

La Guerra Fredda si è conclusa con la sostanziale vittoria dell’ideologia americana, che si è diffusa anche in alcuni paesi dell’ex blocco sovietico (la cosiddetta “occidentalizzazione”).

È su questa tendenza che si impernia la globalizzazione dei mercati, fenomeno nato durante la Guerra Fredda, ma che solo dopo la caduta dell’URSS ha potuto dispiegarsi pienamente.

In meno di un decennio post Guerra Fredda, molti Paesi, in particolare dell’Est Europeo, hanno adottato l’economia di mercato, aprendosi agli scambi con l’estero.

Tra i diversi modelli di economia, possiamo analizzare:

  • il modello rappresentato dagli Usa, dove l’intervento dello Stato sulle questioni economiche è piuttosto limitato, lasciando ampio spazio alle libere forze del mercato. Ciò si è tradotto, almeno fino agli ultimi anni ’90, in una forte crescita economica e basso tasso di disoccupazione, anche se un welfare state molto debole crea un gruppo piuttosto ampio di esclusi;
  • il modello seguito dai Paesi dell’UE, anch’esso fondato essenzialmente sulle forze di mercato, ma qui il ruolo dello Stato nell’economia è piuttosto ampio, partecipandovi attivamente anche con proprie imprese. Questo approccio crea delle inefficienze nella misura in cui lo Stato non interviene solo nella fase di redistribuzione della ricchezza prodotta (tassazione), ma anche nei meccanismi di allocazione dei fattori produttivi tra i vari settori (per la teoria economica compito delle forze del mercato). Tale approccio se ha portato a livelli di disoccupazione più elevati di quelli degli Stati Uniti, è stato controbilanciato da un forte welfare state che ha evitato l’innescarsi di tensioni sociali.

I FATTORI DI UNITA’

Il villaggio globale delle informazioni e dei trasporti

Il Novecento si è chiuso come è cominciato, ossia nel segno di una contrazione delle distanze, data la formidabile accelerazione tecnologica nel campo dei trasporti e delle comunicazioni.

Tale trasformazione ha inizio già negli ultimissimi anni dell’800 e inizi del ‘900, con l’introduzione di una serie di innovazioni, come nuovi mezzi di locomozione (ad esempio l’aeroplano), e nuove tecnologie per la comunicazione elettromeccanica (ad esempio il telefono), trasformazione che investì tutti gli spazi sociali, permettendo da una parte l’allargamento dell’orizzonte individuale, e dall’altra gettando le basi per l’intensificazione e ramificazione dei flussi commerciali, finanziari e migratori. Tutto ciò è quella che viene definita prima “globalizzazione”.

Alla fine del ‘900, i progressi tecnologici nel campo dell’informatica e della comunicazione hanno contribuito ulteriormente alla contrazione delle distanze, aprendo uno spazio elettronico (cyberspazio) di condivisione e trasmissione di dati e informazioni, su cui si è riarticolata l’economia e la finanza internazionale. Questa, invece, viene definita “seconda globalizzazione”.

Dallo spazio geografico allo spazio elettronico

Internet può essere considerata la più grande innovazione telematica di fine secolo, che affonda le radici negli anni della Guerra Fredda e nell’ambito della ricerca militare, affermandosi come strumento di comunicazione di massa solo durante il primo decennio post-Guerra Fredda.

La tecnologia Internet poté andare in contro alle crescenti richieste di infrastrutture telematiche da parte delle imprese, interessate ai vantaggi competitivi derivanti dalla condivisione intra-aziendale delle risorse informatiche e dalla possibilità di accedere agli interlocutori operanti all’esterno dell’impresa;

Al 2000, ci sono per Internet circa 400 milioni di utenti; oltre 20 milioni di siti web; l’inglese rimane la lingua più utilizzata in rete, anche se si fanno strada anche giapponese, cinese e tedesco. Infine, con lo sviluppo della linea in fibra ottica oltre ad un aumento molto consistente della velocità di trasferimento delle informazioni, ha permesso anche un notevole abbattimento dei costi.

Dallo spazio elettronico allo spazio geografico

L’infrastruttura informatica e comunicativa ha gettato basi per una riorganizzazione spaziale dell’attività produttiva, riducendo l’esigenza della mobilità fisica di cose e persone (delocalizzazione e telelavoro), ma allo stesso tempo necessitando di incrementare la rapidità e la flessibilità del trasporto merci e passeggeri (economia di flusso).

Inoltre, grazie a questo continuo flusso di comunicazioni, è possibile una distribuzione in diverse locazioni geografiche delle fasi in cui si articola il processo produttivo. Di più, nello spazio elettronico la produzione può essere modulata sulla base del flusso di ordinativi e comunicazioni che provengono dagli operatori esterni all’azienda e riorganizzata nell’istantaneità del tempo elettronico; ecco il passaggio ad una produzione “just in time”, o meglio da un sistema delle scorte (economia di stock) ad un sistema di scorte viaggianti (economia di flusso).

Ciò chiaramente deve poter contare su una capacità di rifornimento continuo delle materie prime e intermedie impiegate nella produzione, e quindi di una nuova flessibilità e rapidità nella distribuzione e consegna dei prodotti. A questa esigenza di mobilità rispondono, particolarmente, il trasporto su gomma (flessibilità) e quello aereo (rapidità). Non a caso, il traffico su gomma assorbe oramai la parte maggioritaria del trasporto di cose e persone nel mondo sviluppato e il traffico aereo è il settore che registra il tasso di crescita annuo più elevato, avvicinandosi sempre più alla quota complessiva del traffico ferroviario.

Le interdipendenze dell’economia globale

Grazie alle opportunità di mobilità offerte dalle nuove reti infrastrutturali, beneficiando del sistema della parità aurea (gold standard) e della funzione di stabilizzazione egemonica assolta dalla Gran Bretagna, i Paesi industrializzati, alla vigilia della prima guerra Mondiale, raggiunsero un rapporto tra esportazioni e PIL comparabile a quello sviluppatosi nella seconda metà del XX secolo. Ma i due conflitti mondiali e la crisi economica degli anni ‘30 portarono un ritorno ad un’elevata frammentazione del mercato mondiale.

Solo a partire dal Piano Marshall, la coesione politica del blocco occidentale si accompagnò al rinnovato sviluppo di una fitta rete di scambi ed interdipendenze sul piano dell’economia, al fine di proiettare i Paesi dell’Europa Occidentale verso i livelli produttivi equivalenti a quelli americani.

Nella seconda metà del XX secolo, non a caso, la quota di produzione nazionale destinata al commercio internazionale è cresciuta in maniera significativa in tutti i paesi industrializzati, per tutti i settori, e a ciò si aggiunge l’esplosione del commercio, dei servizi e degli ingenti e veloci movimenti di capitali, che hanno contribuito fortemente al processo di internazionalizzazione dei mercati; infatti, negli ultimi 50 anni le barriere al libero scambio si sono molto ridotte, e nei Paesi industrializzati, le tariffe medie dei dazi sono pressoché crollate.

Il mercato dei capitali

Uno degli aspetti peculiari del processo di globalizzazione è la rilevanza assunta dal mercato internazionale dei capitali. Tale mercato ha conosciuto una vera e propria spinta propulsiva a partire dagli anni ‘70, per una pluralità di motivi, e questo enorme aumento ha riguardato sia gli investimenti a breve, con carattere puramente speculativo, sia gli Investimenti Diretti Esteri (IDE), che invece hanno un carattere più durevole. Questi ultimi sono aumentati enormemente soprattutto a partire dagli anni ‘80, con tassi di crescita anche superiori a quelli del commercio internazionale e della produzione mondiale; inoltre, si sono concentrati in pochi settori (in particolare quello automobilistico e della information technology) e sono indirizzati maggiormente ai Paesi più industrializzati.

La critica che maggiormente viene mossa ai flussi di capitali, è il fatto che la loro dimensione influenzi oramai in maniera significativa i singoli Stati, e a volte le loro stesse prospettive di crescita. Ciò soprattutto per quanto riguarda gli “investimenti di portafoglio”, ossia quelli a breve durata, che dato il loro ingente ammontare e la loro natura speculativa possono far esplodere con grande velocità crisi che spesso nemmeno le banche centrali riescono ad arginare.

Le migrazioni internazionali

Alla mobilità delle merci e dei capitali nei mercati trans-nazionali, s’accompagna anche la mobilità delle persone attraverso i confini degli Stati. Tali migrazioni comportano una dilatazione trans-nazionale dello spazio del vissuto sociale di quanti vi siano coinvolti, poiché contemporaneamente immersi nella società di accoglienza e in quella di provenienza, entrambe connesse da una pluralità di relazioni di natura socio-economica, affettivo-identitaria e simbolica.

È dalla fine degli anni ‘80 che le migrazioni internazionali si globalizzano: lo stock dei migranti nel mondo dal 1960 ad oggi è rimasto invariato (2% della popolazione mondiale), però le migrazioni coinvolgono un numero crescente di Paesi e aumenta l’afflusso di immigrati nel mondo sviluppato.

Mentre la popolazione dei Paesi sviluppati ristagna e invecchia, quella dei Paesi meno sviluppati cresce rapidamente ed è molto giovane; tutto ciò va inscritto in un quadro socio-economico globale segnato dalla permanenza di ampi divari di ricchezza tra Nord e Sud del mondo, che possono offrire incentivi al trasferimento, anche se non c’è una relazione lineare tra reddito e propensione all’immigrazione (risulta pressoché nulla dove il reddito è bassissimo e il costo del trasferimento è, perciò, proibitivo).

L’emigrazione sale invece: con l’aumentare del reddito; con la consapevolezza del sottosviluppo del Paese di appartenenza; con la possibilità di promozione sociale all’estero.

Mentre diminuisce con il raggiungimento di un livello di vita sufficientemente dignitoso, anche quando il divario tra reddito interno ed esterno continua ad essere ampio.

Nei Paesi sviluppati gli squilibri qualitativi nel mercato del lavoro contribuiscono ad alimentare la domanda d’immigrazione; infatti, l’alta scolarizzazione e il livello di benessere familiare spingono un’ampia fascia della popolazione a rifiutare occupazioni in alcuni settori (ad esempio nell’agricoltura e nell’industria pesante) che vengono coperti da manodopera di immigrazione.

La dimensione sommersa dell’unità globale: la criminalità internazionale

Se diviene globale l’orizzonte delle opportunità, lo diventano anche le sfide alla convivenza civile; infatti, la nuova infrastruttura comunicativa, la capacità tecnologica di dominio della distanza e l’elevato grado di permeabilità dei confini politico-statali ai flussi trans-nazionali, servono l’economia illegale altrettanto bene di quanto servano l’economia legale. È proprio questa una delle dimensioni sommerse dell’interdipendenza e della globalizzazione.

Man mano che cresce il volume dei flussi trans-nazionali, risulta notevolmente limitata da parte delle agenzie statali la possibilità di effettuare dei controlli su tali flussi.

Qualcosa di analogo avviene anche sul piano finanziario, in ragione della deregolazione del mercato dei capitali che contrassegna la globalizzazione economica; infatti, è pressoché impossibile verificare l’esatta provenienza, il movimento e la destinazione di ogni singola somma trasferita (si può parlare di “ritirata dello Stato”).

Ma, la vera e propria crisi di sovranità che si è accompagnata alla riconfigurazione dell’ordine territoriale dopo la fine della Guerra Fredda, ha creato le condizioni socio-politiche tanto più favorevoli all’attività dei gruppi criminali, a cominciare dal vuoto di potere in Eurasia dall’implosione dell’Unione Sovietica. Infatti, i gruppi criminali non sono interessati a contestare il potere statale come tale, ma ad inserirsi nelle nicchie geografiche o nei domini settoriali entro i quali i governi non sono più in grado di estendere efficacemente la propria azione disciplinatrice.

Queste sono le diverse tipologie criminali inserite nel quadro internazionale, se non globale: il commercio della droga, che è considerato il primo caso di piena internazionalizzazione dell’attività criminale, e di compiuta internazionalizzazione delle organizzazioni criminali che la gestiscono; il traffico di armi; il contrabbando di sigarette, stimolato dal differenziale fiscale tra i diversi Paesi; il traffico di persone, con un numero crescente di clandestini, spesso destinati ad attività illegali; il traffico di auto rubate; forme di crimine ambientale, come lo smaltimento illegale di rifiuti tossici; la contraffazione e vendita di opere protette dai diritti di proprietà intellettuale; la pirateria, concentrata soprattutto in Asia Sud-orientale, in prossimità di Filippine e Indonesia, dove è incoraggiata dal fitto traffico marittimo e dalla debolezza del potere politico; il money laundering (lavaggio di denaro), che designa un’ampia gamma di operazioni finanziarie volte a masche

rare l’origine illecita dei proventi criminosi e ad integrarli nel sistema economico legale.

In definitiva, possiamo dire che la criminalità internazionale è una delle tre maggiori minacce che incombono sulla convivenza internazionale. Ma la natura globale del problema esige rimedi di analogo respiro, sul terreno del coordinamento e della cooperazione delle attività repressive, nonché della convergenza della disciplina giuridica dei Paesi.

L’orizzonte globale della questione ambientale

Anche il deterioramento ambientale, accompagnatosi allo sviluppo industriale, disegna un altro spazio di vulnerabilità di estensione globale o comunque sovranazionale.

Così, con i flussi trans-nazionali che innervano il sistema globale dell’economia, anche la portata della sfida ambientale condanna gli sforzi compiuti dai singoli governi nella direzione della salvaguardia ambientale imponendo, invece, la compilazione di un’agenda di coordinamento e cooperazione multilaterale tra i protagonisti della globalizzazione. Infatti, mentre l’inquinamento dell’aria, una volta era un problema locale e localizzabile, oggi si inserisce a pieno nell’orizzonte globale dell’agenda ambientale.

Ciò non solo perché circa la metà della popolazione mondiale, concentrata in agglomerati urbani, si espone a dosi potenzialmente nocive di agenti tossici, ma anche perché le polveri acide generate dall’inquinamento urbano sono trasportate dalle correnti d’aria a lunghe distanze dal loro luogo di origine, alterando così gli equilibri ambientali nelle aree agricole e montane distanti dalle grandi concentrazioni urbane.

Questo vale anche per il fenomeno della deforestazione; infatti, oltre a funzionare a base locale come fattore di stimolo delle piogge e stabilizzazione del terreno, le foreste costituiscono anche la maggiore riserva di biodiversità del pianeta. Basti pensare che sotto la pressione demografica e per la necessità di trovare nuove terre coltivabili, vanno perdute foreste per un’estensione doppia rispetto a quella della Francia, e la loro combustione è responsabile di parte non marginale dell’emissione di carbonio, incidendo così anche sulle trasformazioni climatiche in atto.

I mutamenti climatici costituiscono la sfida globale per eccellenza, problema in cui è pesante l’incidenza dell’attività umana. Infatti, l’aumento dell’acqua nell’atmosfera (sotto forma di vapore), fattore di incremento di fenomeni climatici esterni, e la scarsità d’acqua al suolo causa desertificazione e declino di produttività della terra, sono fenomeni imputabili all’innalzamento termico, tra l’altro responsabile anche dello scioglimento dei ghiacciai, dell’assottigliamento delle calotte antartiche e dell’innalzamento del livello dei mari, che potrebbe, con l’aumentare, mettere a repentaglio aree ad altissima densità di popolazione (ad esempio il delta del Nilo).

Cruciale è il ruolo dell’attività umana in tale alterazione climatica, prodotta, soprattutto, dal mutamento della composizione chimica dell’atmosfera, legato all’aumento della quantità di gas a effetto serra, dovuti all’impiego di combustibili fossili (a uso domestico e industriale); alla combustione della biomassa (deforestazione); alle attività agricole e d’allevamento.

I FATTORI DI DIVISIONE

Guerra e conflitto nel sistema post-bipolare

Il conflitto bipolare dividendo il mondo lo unificava, ossia subordinava a sé ogni altra frattura politica-ideologica, inserendo in un unico orizzonte geopolitico ogni singola area regionale, come terreno potenziale di espansione degli schieramenti contrapposti.

La fine del conflitto bipolare non lascia il campo ad un mondo libero da conflitti; essa restituisce l’arena internazionale alla pluralità delle fonti di ostilità, e ciò nel quadro di una frammentazione dell’orizzonte internazionale in virtù della quale i quadri regionali rispondono più che in passato a logiche locali di allineamento e conflitto, o scoprono una marginalità diplomatico-strategica sconosciuta durante la Guerra Fredda.

Una crisi di coesione al centro del sistema internazionale?

Scomparendo il nemico comune si dilatano le distanze politiche nel cuore stesso della globalizzazione; infatti, sia l’Atlantico che il Pacifico, nel 2002, sono più larghi di quanto essi fossero nel 1991, al momento dello smantellamento dell’Unione Sovietica.

In Europa la constatazione della dipendenza politico-strategica dagli USA in occasione della stabilizzazione della Bosnia (1995) e dell’intervento in Kosovo (1999), sollecitavano passi sulla via dell’estensione della logica comunitaria alla sfera della politica estera di sicurezza, nel segno del riequilibrio delle responsabilità tra le due sponde dell’Atlantico. Non a caso il vertice europeo di Helsinki (1999) fissava l’obiettivo della costituzione, entro il 2003, di una “forza di reazione rapida europea”, impegnata in operazioni di peace-keeping e peace-enforcing.

Inoltre, se l’attitudine unilateralista dell’amministrazione Bush (non da ultimo nella conduzione strategica della guerra in Afghanistan), sembra incoraggiare la coesione dell’Europa in ambito internazionale, il riorientamento dell’interesse politico-strategico americano verso l’Asia Centro-orientale (in funzione della lotta al radicalismo islamico e del contenimento della Cina), in effetti, spinge l’UE a estendere il proprio carico di responsabilità laddove si va già determinando il ridimensionamento della presenza americana in Europa, ossia nei Balcani.

Negli anni ‘90, si è registrato un allargamento della distanza politica anche tra le due sponde del Pacifico: in particolare, la crisi finanziaria che ha scosso le economie asiatiche nel 1997, ha offuscato il prestigio della leadership americana nell’intera regione dell’Asia-Pacifico, a partire dal Giappone, e rafforzando quello della Cina, capace di sottrarsi a questa crisi finanziaria e di proporsi come elemento di stabilizzazione dell’economia regionale.

Inoltre, la cooperazione tra Cina e Russia (Trattato di amicizia nel 2001), il graduale riavvicinamento sino-indiano, durante gli anni ’90 e la conferma della “relazione speciale” russo-indiana, possono essere inserite nel quadro dell’interesse condiviso dalle tre grandi potenze eurasiatiche a una ridefinizione in senso multipolare dell’arena internazionale.

Infine, nella primavera del 2002, la presenza delle forze americane in Asia Centrale (come ad esempio in Afghanistan), proprio a ridosso dei confini di Russia e Cina, promette di restringere i margini di cooperazione contro il radicalismo islamico comunque avviata da USA, Cina e Russia all’indomani dell’attentato dell’11 settembre.

L’arco di instabilità eurasiatico

Il venir meno della forza ordinatrice del colosso sovietico ha aperto un’ampia fascia geopolitica contrassegnata da instabilità e conflitto: è la fascia che collega le coste del Baltico, attraverso l’Europa danubiano-balcanica e il Caucaso, agli altipiani dell’Asia Centrale. Tale fascia è caratterizzata dalla presenza di entità politiche di recente formazione, con legittimità politica precaria, confini internazionali contestati e popolazioni non sempre omogenee sotto il profilo etno-culturale, e proprio su questo arco di instabilità che si sono stabiliti dei conflitti armati, interni o internazionali, che hanno costellato il decennio post-bipolare.

Il tempo lungo della decolonizzazione

Al ridosso dell’arco di instabilità, i raggruppamenti geopolitici del Medio Oriente e dell’Asia Centro-meridionale rimangono esposti a una duplice fonte di destabilizzazione.

Da una parte, per entrambi i casi, si tratta di sistemi internazionali di formazione recente, prodotto della decolonizzazione, realizzatasi a partire dalla metà del ‘900, e perciò non estranei ai fattori di instabilità che caratterizzano l’arco eurasiatico: scarsa istituzionalizzazione degli Stati e complessivo ordinamento territoriale.

Gli anni ‘90 si aprono in Medio Oriente con la più grossa contestazione della configurazione territoriale post-coloniale, ossia l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, e si chiudono con il conflitto territoriale più intrattabile lasciato in eredità dal sistema dei mandati delle potenze coloniali, quello tra Israeliani e Palestinesi. Ancora, in Asia Centro-meridionale l’elemento di maggiore peso geopolitico, resta la tradizionale rivalità indo-pakistana per il controllo del Kashmir.

D’altra parte, sia in Medio Oriente che in Asia Centro-meridionale, i risultati spesso deludenti registrati dalle classi politiche post-coloniali, in termini di sviluppo economico e prestigio internazionale, sfociano dopo la Guerra Fredda in un’ulteriore contestazione di legittimità, che investe le formule politico-ideologiche di matrice occidentale che hanno ispirato la lotta per l’indipendenza.

Inoltre, negli anni ‘90 si approfondisce la crisi del nazionalismo arabo, sfidato sul terreno della legittimità dal radicalismo islamico a partire dalla sconfitta del fronte pan-arabo a opera di Israele, nel 1967, e del rafforzamento del prestigio internazionale dell’Arabia Saudita dopo il successo politico dell’embargo petrolifero del 1973.

Il radicalismo islamico, non a caso, è uno dei principali fattori di destabilizzazione regionale nel decennio post-bipolare e un esempio su tutti è dato dall’Intifada in Palestina, ad opera del Movimento per la Resistenza Islamica (Hamas) contro l’esercito israeliano.

Tale processo di “islamizzazione” ha poi interessato, e continua ad interessare, anche zone dell’Asia Centro-meridionale (come ad esempio nel conflitto indo-pakistano per il controllo del Kashmir) e dell’Asia Sud-orientale (particolarmente in Indonesia).

Frammentazione e marginalizzazione: il caso Africa

Anche l’Africa Sub-sahariana rientra nello scompaginamento del quadro territoriale post-coloniale.

Non a caso essa è l’unica area geopolitica, insieme all’Asia Orientale in cui il tasso di militarizzazione (% della spesa militare sul PIL) negli anni ‘90 è stato superiore a quello registrato negli ultimi anni di Guerra Fredda.

Qui il processo di riconfigurazione politica è avvenuto nell’indifferenza delle cancellerie e dell’opinione pubblica del mondo sviluppato.

La ridefinizione delle gerarchie militari

La globalizzazione non produce la neutralizzazione dei conflitti politici, né si accompagna alla smilitarizzazione delle relazioni internazionali, al contrario, le gerarchie politiche nel sistema post-bipolare continuano a reggersi sulla capacità strategica degli attori. In particolare, è stata disattesa l’aspettativa dell’imminente denuclearizzazione del quadro strategico post-bipolare. Anzi, lo sviluppo della capacità nucleare sembra rimanere il terreno privilegiato sui cui le grandi potenze a completa vocazione globale perseguono il riconoscimento politico dello status di interlocutori obbligati del “centro unipolare”, ossia gli USA.

La fine della non-proliferazione nucleare

La politica di non–proliferazione nucleare ha conseguito risultati tra la fine degli anni ‘80 e la metà dei ‘90. Infatti, alcuni Paesi rinunciavano all’opzione nucleare (ad esempio la Bielorussia) o accantonavano i programmi di sviluppo atomico già avviati (ad esempio in Brasile e Argentina).

Nel 1996 inizia un’inversione di tendenza, che avrebbe poi contrassegnato la seconda metà del decennio. Si assisteva un riorientamento delle politiche di sicurezza delle grandi potenze sotto il segno comune della rivalutazione nucleare.

In Iraq è rimasto operativo, almeno fino alla guerra ultima intentata dall’amministrazione Bush, il pool di scienziati che prima della Guerra del Golfo sviluppò il programma nucleare iracheno; in Pakistan i test nucleari, nel 1998, sono stati visti di buon occhio nel mondo arabo-islamico, come contrappeso efficace alla potenza di Israele, nuclearizzato sin dalla fine degli anni ‘60; in Iran sono stati continuamente rinnovati gli sforzi per acquisire tecnologia e materiale nucleare.

Per quanto riguarda gli USA, unica superpotenza sopravvissuta alla Guerra Fredda, appaiono decisi a riaffermare l’unicità della propria posizione di predominio, avviandosi in una direzione che nessuna altro attore è ancora in grado di seguire: lo sviluppo della difesa anti-missile.

Una rivoluzione degli affari militari?

La superiorità strategica degli USA non si regge solo sulla capacità di offesa o difesa militare; infatti, attraverso un’analisi delle spese militari mostra come il divario strategico a favore degli USA sul terreno convenzionale, anche all’interno del mondo sviluppato, si vada dilatando di anno in anno.

Inoltre, gli USA si distinguono per il maggior budget destinato nei settori della ricerca e dello sviluppo rispetto a tutti gli altri Paesi. Ciò significa che gli USA hanno conservato, e continuano ad accrescere un vantaggio sul terreno cruciale della capacità di innovazione e dell’applicazione delle nuove tecnologie al settore militare, in particolare per quanto riguarda il potente avanzamento nel campo dell’informazione. Infatti, già dalla Guerra del Golfo si è riflettuto sul vantaggio competitivo offerto da chi possedesse una superiore “capacità informativa”, perciò l’informazione nella guerra ha assunto, sempre più, il ruolo di fattore strategico preponderante.

Quindi, la schiacciante superiorità generata dalla rivoluzione tecnologica individua il punto in cui la guerra convenzionale cessa di essere un efficace strumento di rinegoziazione politica nell’arena internazionale. È il paradosso della superiorità conseguita sul terreno convenzionale: essa non elimina la minaccia bellica dall’orizzonte politico, ma semmai spinge la guerra al di fuori della tradizionale cornice politica statalizzata.

Si allenta perciò il rapporto consolidato tra radicamento territoriale, sovranità statale e monopolio della violenza, mentre si ridimensiona la possibilità di delimitazione di un quadro strategico-diplomatico stabilizzato, in cui anche la guerra sia passibile di regolazione giuridica.

Indurre il nemico a negoziare alle proprie condizioni (obiettivo politico) è un obiettivo perseguito nell’unico punto in cui la superpotenza può essere colpita: fuori dal campo di battaglia, o in un campo di battaglia esteso alla sfera civile ed economica, secondo una dinamica totalizzante del conflitto, che riduce tuttavia al minimo lo spazio di gestione diplomatica della guerra.

Geopolitica delle risorse

La salvaguardia dell’accesso alle risorse resta un imperativo politico prioritario degli Stati, anche per la loro sicurezza, che non può essere delegato alle forze di mercato. In particolare nell’agenda politica delle potenze si fissano l’approvvigionamento energetico ed idrico: se l’insicurezza energetica è data dall’instabilità delle aree in cui tali risorse sono collocate e dalle linee di trasporto, i mutamenti demografici e climatici in atto sottopongono vaste aree del pianeta ad uno stress idrico destinato a fare dell’acqua, bene rinnovabile, una risorsa scarsa e fattore di conflitto.

Energia

Due tendenze fondamentali per il futuro dell’energia: la crescita di oltre il 50% della domanda globale; sostanziale stabilità del “paniere energetico” (predominanza di petrolio e di carbone, crescita sostenuta del consumo di gas naturale).

Per quanto riguarda il lato del consumo è attendibile un’impennata dei Paesi in via di sviluppo (in particolare India, Asia Orientale-Pacifico), mentre il consumo dei Paesi OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), dovrebbe scendere a 1/3 dell’offerta mondiale del petrolio.

Un aumento dei consumi è previsto anche negli USA e in UE, ad un ritmo più contenuto; dopo il 2010 la diffusione di nuove tecnologie di produzione-consumo e l’attuazione di accordi sulla limitazione delle emissioni di gas a effetto serra dovrebbe arrestare l’incremento.

Gli USA presentano una struttura energetica abbastanza diversa: sono il secondo produttore di petrolio al mondo e il primo importatore (la diversificazione geografica li rende meno dipendenti dal Golfo Persico). La metà dell’import americano origina nell’emisfero occidentale (Canada, Venezuela, Messico e Colombia) e in piccola parte nell’Africa Sub-sahriana.

Le riserve esistenti, comunque, sono sufficienti a soddisfare la domanda crescente ben oltre il 2020.

Ma quali sono le implicazioni macropolitiche?

Da una parte si ravvisa la concentrazione di energia in aree segnate da notevole instabilità, dall’altra va registrato il coinvolgimento dei Paesi in via di sviluppo (soprattutto della Cina) nelle aree da cui dipende in misura crescente l’approvvigionamento energetico, all’insegna di un’inedita connessione geopolitica dei tre contesti asiatici: Medio Oriente, Asia Centrale e Asia-Pacifico.

Un’altra tendenza geopolitica di respiro globale è la crescente presenza cinese nell’area del Caspio e nel Golfo Persico, mentre la partnership sino-russa ha trovato nella dimensione energetica uno dei suoi “motori”. Nel Golfo Persico, la Cina è già coinvolta in attività di partenership nel settore energetico con Iran e Iraq. Infine, bisogna ricordare che la recente presenza della Cina nel Mare Cinese Meridionale e il programma di potenziamento navale, ne riflettono l’interesse geoeconomico al controllo delle rotte commerciali che collegano la Cina al Golfo Persico.

Acqua

Lo stress idrico inserisce un elemento di novità nel quadro geopolitico: secondo alcune ricerche entro il 2015 quasi il 40% della popolazione mondiale vivrà in Paesi dotati di risorse idriche insufficienti.

La pressione demografica e la crescita economica sono due dei fattori principali dell’incremento del consumo idrico, dovuto in parte cospicua ai Paesi in via di sviluppo.

Infatti, la crescita demografica è più elevata proprio nei Paesi strutturalmente poveri di risorse idriche, dove inoltre l’estensione delle superfici coltivate si affida a sistemi di canalizzazione e impianti idrici inefficienti che accrescono il dispendio d’acqua per ettaro rispetto ai Paesi sviluppati. Bisogna aggiungere che l’uso di fertilizzanti e l’erosione dei suoli a causa di pratiche agricole improprie, sono tra le cause di inquinamento idrico, che ulteriormente limita tale risorsa.

Le fratture sociali: Nord e Sud del mondo

Con il graduale annientamento delle distanze attraverso lo sviluppo tecnologico, la globalizzazione ricostruisce uno spazio geografico che smette di essere limite e si configura come maglia di reti e relazioni trans-nazionali che si attuano in tempo reale. Anche se bisogna sottolineare che l’infrastruttura tecnologica, attraverso cui la corrente della globalizzazione disegna un circuito comunicativo, taglia tuttora fuori una parte cospicua delle aree geopolitiche e dei Paesi.

Il digital divide

Il costo dei computer, canale di accesso allo spazio elettronico della rete, rimane al di là delle disponibilità economiche di ampi segmenti della popolazione dei Paesi in via di sviluppo, e Internet richiede un livello di istruzione che non sempre è alla loro portata. Non a caso nel 2000, il 79% degli utenti Internet apparteneva ai Paesi OCSE (14% della popolazione mondiale).

Inoltre la maggior parte dei contenuti Internet è fisicamente “immagazzinata”negli Usa e il 95% delle connessioni a banda larga delle rete di telecomunicazioni internazionali ha come punto di partenza e di destinazione il territorio americano. Ecco che la rivoluzione digitale sembra avere rafforzato i legami trans-nazionali nella parte del mondo che già condivideva un elevato grado di integrazione. In particolare la ristrutturazione del sistema delle telecomunicazioni per il trasporto dati, esibisce un aspetto paradossale della rivoluzione digitale: la contrazione delle distanze nell’orizzonte globale può andare di pari passo con l’accrescimento delle barriere comunicative al livello locale, e le due cose possono essere due facce della stessa medaglia.

Spesso la diminuzione delle tariffe delle chiamate internazionali, favorita dalle grandi aziende trans-nazionali e funzionale alla delocalizzazione dell’attività produttiva, è stata bilanciata da parte delle compagnie di telecomunicazioni con l’aumento dei costi delle chiamate locali a uso delle famiglie Ancora più marcato è il divario in fatto di capacità di innovazione tecnologica, che saldamente legata alla disponibilità di investimenti sistematici nella ricerca e sviluppo, e perciò circoscritta ai Paesi OCSE e ad un numero assai limitato di Paesi in via di sviluppo. Quindi chi è già competitivo investe in competitività e tutto ciò quando l’acceso delle economie dei Paesi in via di sviluppo alle innovazioni tecnologiche conseguite dai Paesi sviluppati, è resa più costosa dai nuovi standard legali che regolano il commercio internazionale (mentre il miracolo asiatico durante la Guerra Fredda ha avuto luogo in un contesto regolativo più permissivo, perché i brevetti delle imprese am

ericane si ispiravano all’imperativo di non lasciare scivolare l’Asia verso il blocco sovietico).

Una nuova questione sociale

Che sia dovuto alle conseguenze di una carenza di globalizzazione, o alle conseguenze di un eccesso di globalizzazione, comunque nel quadro di una strutturale propensione della globalizzazione di segno neoliberale a concentrare ricchezza distribuendo sottosviluppo, rimane il fatto oggettivo che il mondo globalizzato continua ad essere segnato da profonde disparità nella distribuzione della ricchezza e nella aspettative di vita. Ciò chiaramente avviene con livelli di crescita differenti da regione a regione per chiudere il gap rispetto ai Paesi a reddito più elevato. Comunque bisogna sempre tener presente che sussistono ineguaglianze di reddito anche all’interno di ogni singolo Paese (ad esempio sono minori i divari sub-nazionali in Asia Meridionale, mentre sono maggiori per le ex repubbliche sovietiche).

Infine, se il campo di osservazione si allarga anche all’Indice di sviluppo umano, calcolato sulla base del reddito (PIL reale pro-capite a parità di potere di acquisto), della speranza di vita alla nascita, del tasso di mortalità infantile e del livello di istruzione (rappresentato da tasso di alfabetizzazione della popolazione adulta e dalla scolarizzazione media), si delinea nel periodo 1975-2000 una tendenza generale della popolazione mondiale a spostarsi da valori bassi a valori medi, e da questi ultimi a valori medio-alti, anche qui in presenza di ampi divari.

La maggiore distanza dall’Indice registrato per i Paesi OCSE (assumendo questo come valore più alto) è rappresentata dall’Africa sub-sahariana (caratterizzata quest’ultima da una bassa speranza di vita alla nascita, causa anche della larga diffusione del virus Hiv-Aids).

EUROPA E MEDITERRANEO

Lo spazio del cambiamento

Europa e Mediterraneo sono due entità geografiche con una forte valenza politica e simbolica, ma prive di confini precisi. Geograficamente costituiscono l’appendice occidentale e meridionale dell’Eurasia, mentre politicamente indicano due regioni dai confini mobili, ciascuna composta da sub-regioni, che a seconda delle circostanze storiche (relazioni politiche, economiche e sociali e l’identità culturale), possono essere attribuite a una delle due aree o ad entrambe. La disintegrazione dell’Unione Sovietica, dopo il collasso dell’ordine bipolare, ha portato a ridefinire i concetti di Europa e Mediterraneo, mettendone in discussione i confini e aprendo un nuovo spazio di instabilità. Alcune ragioni di questa instabilità:

  • Politiche (innanzitutto): l’esplosione di nuovi conflitti inter-etnici (come nell’ex Iugoslavia) o conflitti interni a seguito dei processi di liberalizzazione politica (come in Algeria), oltre alle vecchie linee di tensione, come il conflitto israelo-palestinese.
  • Politico-culturali: il rafforzamento del radicalismo islamico, in opposizione ai principi occidentali.
  • Socio-economiche: sottosviluppo e arretratezza dei processi di industrializzazione, che alimentano fenomeni migratori.

Per fronteggiare tale instabilità USA e UE hanno messo in atto una serie di iniziative politiche, ridisegnando la mappa geopolitica di Europa e Mediterraneo:

  • Verso est è iniziato il processo di allargamento della UE (a 10 Stati dell’Europa Centro Orientale) e della Nato (con l’adesione di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca). Per i Paesi candidati, l’ingresso nella UE e nella Nato, rappresenta un’opportunità di “ritorno in Europa” e di ancoraggio ad un sistema che garantisca il funzionamento della democrazia e dell’economia di mercato, oltre ad una garanzia di maggiore sicurezza regionale.
  • Verso sud sono state create diverse strutture di cooperazione politica, economica e di sicurezza tra le organizzazioni occidentali e i Paesi della sponda sud del Mediterraneo. La Nato, nel 1995, ha avviato un Dialogo per il mediterraneo, con lo scopo di scambiare informazioni relative alle politiche di sicurezza nazionali e multilaterali. Anche l’UE, nel 1995, a Barcellona ha inaugurato un processo politico ispirato ad una visione integrata della sicurezza e della stabilità euro-mediterranea, per contrastare le cause di instabilità attraverso una cooperazione multidimensionale, politica, economica e di sicurezza. Da tale strategia sono rimasti esclusi il Sud dei Balcani e la regione caucasica attorno al Mar Nero. Comunque i conflitti nei Balcani e nel Caucaso, e i crescenti interessi per la produzione e il transito di risorse energetiche in quest’ultimo, hanno rese necessarie misure di stabilizzazione delle due sub-regioni.

Per quanto riguarda la strategia dell’UE nei Balcani, questa è rappresentata dal Patto di stabilità per l’Europa Sud-orientale (Colonia 1999), per promuovere la diffusione della democrazia, dei diritti umani e il funzionamento dell’economia di mercato, come fondamenti della stabilità della regione, attraverso il coinvolgimento del maggior numero possibile di attori regionali e internazionali.

Il Caucaso, invece, è rimasto escluso dai processi di integrazione e cooperazione europei e mediterranei, data l’accresciuta influenza turca nell’area (la Turchia ha promosso la definizione di un Patto di stabilità per il Caucaso) e dei progetti di gasdotti che, provenendo dal Caspio termineranno nel Mediterraneo. Al momento le relazioni tra UE e gli Stati del Caucaso sono basate su accordi di cooperazione e di partenariato bilaterale con Armenia e Georgia.

Anche il Golfo è escluso dai processi iniziati a Barcellona, anche se le relazioni, soprattutto di natura economica, tra UE e Golfo furono istituzionalizzati già nel 1988 (allora l’UE era ancora denominata Comunità Economica Europea-CEE). Dal 1991 tra le due aree si sta negoziando un accordo di libero scambio, la cui realizzazione sarà agevolata dalla decisione, nel 2001, del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) per anticipare l’unione doganale fra gli Stati membri.

Le relazioni con l’Iran sono, invece, strutturate in un dialogo comprensivo nel 1998, incentrato soprattutto sulle relazioni energetiche, sul commercio e sugli investimenti.

Il partenariato euro-mediterraneo

Il Partenariato Euro-Mediterraneo (PEM) è nato alla Conferenza di Barcellona del 1995, con la Dichiarazione sottoscritta dai 15 Paesi della UE, dagli 11 Paesi della sponda Sud del Mediterraneo e dall’Autorità Nazionale Palestinese (venne inclusa la Giordania, ma esclusa la Libia, sottoposta alle sanzioni delle Nazioni Unite, ammessa poi per iniziativa italiana, come membro osservatore alla Conferenza di Stoccarda del 1999, ma ancora non ammessa al Partenariato).

La Dichiarazione di Barcellona delinea una politica comune di ridefinizione delle relazioni euro-mediterranee per creare una zona condivisa di stabilità, pace e prosperità nel bacino del Mediterraneo. Si articola in 3 capitoli:

  • Capitolo politico e di sicurezza che contempla la creazione di un meccanismo istituzionale per la sicurezza, con una cooperazione in tema di good governance e diritti umani;
  • Capitolo economico, che prevede la creazione, entro il 2010, di un’area di libero scambio e un’accresciuta cooperazione economica e finanziaria;
  • Capitolo sociale e culturale, focalizzato sullo sviluppo della società civile.Tali accordi sono stati ratificati da tutti i Paesi che ne hanno preso parte, tranne dalla Siria.

Comunque il bilancio del PEM è modesto:

  • A livello istituzionale la sua gestione dipende dall’Unione;
  • I capitoli della cooperazione politica hanno avuto esiti minimi:
    • La cooperazione politica è di più difficile attuazione, data la scarsa coordinazione tra i membri europei su tematiche quali il terrorismo e dalla mancata applicazione delle misure di condizionalità politica, come la sospensione dei finanziamenti: sono quindi mancate le pressioni europee a favore dell’attuazione dei processi democratici e del rispetto dei diritti umani. Infatti, solo i tre Stati mediterranei candidati all’UE, Cipro, Malta e Turchia, sono vincolati ai criteri di Copenaghen che includono il rispetto dei diritti umani e l’attuazione dei processi di transizione democratica, nel resto dei partner mediterranei il rispetto di ciò è legato al sistema politico interno.
    • La cooperazione di sicurezza si è rivelata al momento inattuabile, data la frammentazione politica della sponda Sud e, soprattutto, il conflitto arabo-israeliano, la cui risoluzione è pre-condizione al successo di schemi cooperativi mediterranei di sicurezza di matrice sia europea (il Partenariato) sia euro-atlantica (la Nato).

Oggi il Partenariato si è ridimensionato a strumento di assistenza finanziaria e di cooperazione economica, l’unica dimensione in cui si sono registrati progressi; perciò il Partenariato è lungi da quella zona di pace e stabilità che avrebbe voluto creare. In ciò, il conflitto israelo-palestinese ha rafforzato il senso di fallimento dell’iniziativa: un suo rilancio richiederà un maggiore coinvolgimento dei partner della sponda Sud del Mediterraneo, e una revisione del suo ruolo. Infatti, in materia di sicurezza si profila una divisione delle responsabilità con la Nato, la quale potrebbe occuparsi di sicurezza militare, mentre il Partenariato della soft security, ossia delle questioni di sicurezza legate alle migrazioni, alla criminalità e ai traffici illeciti.

1 commento

  1. Sara Omegna

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