Come tutti i governi, anche l’attuale ha adottato provvedimenti generali e misure di politica economica con l’intento di realizzare il bene pubblico, cioè di migliorate la vita della maggioranza degli italiani.
Dimostreremo come la suddetta finalità dell’azione di governo sia ben lontana dall’essere perseguita e come anzi le conseguenze sui conti pubblici delle attuali decisioni di politica economica saranno discretamente peggiorative, almeno nel breve e medio periodo (e quindi quanto meno per tutta la durata della legislatura).
Diciamo subito che la grandezza più rappresentativa del “benessere” economico rinveniente dalla situazione dei conti nazionali è sicuramente il debito pubblico, misurato generalmente non con un importo in euro ma in rapporto al PIL: debito/PIL. Il PIL (Prodotto Interno Lordo) esprime la ricchezza di un paese, determinata dalla somma del valore totale dei beni e servizi generati in un anno.
Il debito pubblico rappresenta, come dice il nome, l’indebitamento della collettività, ovvero di tutti gli italiani, ed esso, anche se non è avvertito dal singolo cittadino come un vero e proprio debito, è comunque un oneroso macigno che pesa proporzionalmente su ciascuno, al pari del mutuo contratto ad es. per l’acquisto della casa.
E’ importante dunque capire come si modifica il debito pubblico.
Vale infatti la seguente formula:
variazione debito/PIL =
La formula sopra riportata è solo apparentemente difficile. Essa invero non dice altro che la variazione del debito (in rapporto al PIL) dipende da 2 elementi:
- il debito stesso moltiplicato per la differenza tra tasso da pagare sul debito (cioè sui titoli pubblici emessi per finanziare il debito, ad es. BTP) e % di variazione del PIL; è evidente infatti che gli interessi pagati sui titoli del debito pubblico sono essi stessi un debito e, quando questi aumentano, l’effetto è quello di alimentare il debito pubblico cui gli interessi appartengono
- il deficit primario, ovvero le maggiori spese pubbliche correnti rispetto alle entrate correnti di bilancio; è chiaro infatti che il disavanzo corrente del bilancio statale richiede, per la sua “copertura”, finanziamenti addizionali mediante ulteriore debito pubblico
Pertanto il rapporto debito/PIL diminuisce se e solo se:
- il PIL cresce (in %) più del tasso di interesse sul debito pubblico (attribuendo così il segno meno al primo addendo della formula, cioè alla moltiplicazione)
- il deficit primario ha segno negativo, cioè non è un deficit bensì un “avanzo” primario (attribuendo così il segno meno al secondo addendo della formula)
Tutte condizioni che, purtroppo, in Italia sono ben lungi dal realizzarsi. Ne consegue che nell’immediato il debito pubblico è destinato a crescere.
Dalla formula sopra illustrata è possibile anche determinare il valore di crescita del PIL atto a ridurre il debito pubblico. E’ sufficiente isolare il tasso di crescita del PIL trasformando la formula in questo modo:
variazione positiva PIL >
Se sostituissimo ai termini della formula i corrispondenti dati reali, riscontreremmo che il valore numerico minimo di crescita del PIL, necessario a permettere la riduzione del debito pubblico, sarebbe una percentuale attualmente irrealizzabile come obiettivo di politica economica di medio termine, stante la contingente situazione prospettica di crescita zero del PIL (o, nella migliore delle stime, di quasi zero).
Tutto ciò in un contesto politico in cui le misure bandiera dell’esecutivo si chiamano reddito di cittadinanza, quota 100 (temporanea) sulle pensioni e flat tax per imprese e famiglie: provvedimenti destinati inevitabilmente a far crescere – e di molto – il debito pubblico.
E se qualcuno pensa che i citati interventi pubblici porteranno in futuro ad un miglioramento dei conti pubblici (e quindi del debito), perché le maggiori disponibilità finanziarie dei singoli si riverseranno su consumi e investimenti, si sbaglia di grosso.
La storia economica dei paesi occidentali ci insegna infatti che molto difficilmente l’aumento del PIL, generato da un maggior reddito disponibile pro capite, riesce a compensare il buco nel bilancio pubblico dovuto alla crescita delle spese (ad es. per il reddito di cittadinanza e quota 100 temporanea) ed alla diminuzione delle entrate (ad es. per le flat tax), quand’anche la ricchezza nazionale si accresca (c’è sempre la possibilità che il surplus reddituale vada tra i risparmi degli individui, anziché tra i loro consumi).
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