Questo apparir di spine d’agave
o le biancoverdi macchie
dei gelsomini bagnati e profumati,
ti presenta, come nel lontano addio,
le riposate coste dei pomeriggi estivi.
Quest’alito di brezza rinfrescata
che penetra e inumidisce i volti
ti riporta ancora tra i costieri lidi,
tra gli anfratti grigi e i cento nascondigli
dove cercavano i giovinetti scarni,
nella loro innocenza abbandonare,
a turno di scambiarsi filastrocche
e prime tenerezze.
Questo accendersi d’un grande sole
come allora acceca i litorali bianchi
e negli acquerelli delle cale azzurre
le schiene d’uomo illumina di mare.
Ancor da queste terre antiche
ti fai prendere per mano e timido,
tornando sui sentieri già percorsi,
ti fai rapire da un oleandro d’oro
che al tiepido del ventoso aprile
la sua fronda festante t’agitava.
Dentro un magico dialogar di voci,
negli zufolar di fresche musiche,
negli eterni fraseggi dei fruscii estivi
ed in tutti i suoni e gli echi di quel mondo
ti sorprendevi ancor più piccolo mentre,
dall’assolate spiagge ai faraglioni eterni,
grandiose e consolanti t’apparivano le coste.
Queste folli folle d’arenili
che amanti nudi e allegri celavan
per potere urlare meglio
e, tra i disegni delle ombre lunghe
del tardo ed umido meriggio,
il loro amore, anonimi, celebrare.
Ma tu li spiavi dalle feritoie
della torre vecchia, più felice
di loro per non essere scoperto.
E questi violenti odor di temporali
che veloci s’avvicinano
e lampeggiando sulle coste quasi buie
s’uniscono ai pesanti sentori di salsedine
mentre la risacca s’accheta,
mentre s’accende questo litorale
all’approssimar d’un’altra lunga notte.
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