Capitalismo senza lavoro
Indice
Capitolo 1 – Il punto di Ulrich Beck
Ulrich Beck affronta la questione di un possibile capitalismo senza lavoro nel suo libro “Che cos’è la globalizzazione – Rischi e prospettive della società planetaria” (Beck 1997).
Per capire come l’autore giunga a formulare questo scenario futuro in cui il capitalismo non avrà più bisogno dell’apporto di fattore umano, occorre partire dalla tesi di Zygmunt Bauman della ricchezza globalizzata e povertà localizzata.
Bauman sostiene che globalizzazione e localizzazione non sono solo due facce della stessa medaglia, ma forme d’espressione di una nuova polarizzazione e stratificazione della popolazione mondiale in ricchi globalizzati e poveri localizzati.
La globalizzazione spacca la popolazione mondiale tra:
- ricchi globalizzati, che superano lo spazio e non hanno tempo
- poveri localizzati, che sono incatenati al loro posto e devono ammazzare il tempo, con il quale non sanno che fare
Tra questi vincenti e questi perdenti della globalizzazione non esisterà in futuro né unità, né dipendenza e quindi cessa la secolare dialettica servo-padrone ed il conseguente vincolo di solidarietà verso i poveri.
Due critiche sono possibili alla tesi di Bauman:
- non si può escludere a priori la formazione di una “solidarietà cosmopolitica”, magari con meno forza rispetto alla secolare solidarietà europea, ma pur sempre attivabile;
- non si può neanche affermare con sicurezza che la produzione culturale di “vite possibili”, la quale comprende ricchi e poveri, permetta di escludere interi gruppi.
Bauman quindi esclude un possibile punto di contatto tra ricchi e poveri globali e questo ci porta alla domanda essenziale: si arriverà ad un capitalismo senza lavoro?
Tutto sembra profetizzarlo. La produttività cresce in maniera tale da fare sempre più a meno di lavoro. Per mantenere gli attuali livelli occupazionali le imprese devono espandersi. Il capitalismo si sbarazza del lavoro, la disoccupazione ormai riguarda tutti ed annienta la democrazia come forma di vita.
Il rimedio della flessibilità del lavoro salariato, lungi dall’essere un rimedio, ha solo nascosto e ritardato una verità ineludibile: la disoccupazione cresce. E non solo essa, cresce anche la nuova opacità del lavoro a tempo parziale e le forme non assicurate di lavoro, nonché il lavoro irregolare (c.d. “in nero”).
Nei dibattiti politici ci sono tre miti che non permettono di analizzare a fondo il problema:
- Mito della difficoltà. L’impossibilità dell’indagine. E’ vero che la peculiarità del fattore lavoro rispetto ad altri fattori di produzione e la disomogeneità di questo tra i diversi Paesi pongono non pochi problemi alla ricerca, ma il trend di lungo periodo è comunque distinguibile. Fino alla metà degli anni ’70 il lavoro è stato sempre rivalutato, da allora si può osservare ovunque un calo del lavoro salariato, sia nella forma diretta di disoccupazione, sia nelle varie forme di occupazione precaria (lavoro irregolare, lavoro flessibile, a tempo determinato, a tempo parziale. etc…).Non si deve più ragionare, da un punto di vista economico, avendo come punto di riferimento la piena occupazione, perché esso è ormai un criterio fittizio. Anche le Banche lo stanno capendo e non postulano più la costanza reddituale delle persone stipendiate.
- Mito dei servizi. Il crescente sviluppo del comparto servizi salverà la società dalla disoccupazione. Purtroppo non è così. E’ vero che il settore dei servizi sta creando sempre più posti di lavoro, ma questi nascono, da una parte, sacrificando i lavori tradizionali in altri comparti (è il caso della telebanking, che fa chiudere le filiali delle banche), dall’altra, sull’onda di forme contrattuali che non garantiscono la stabilità del posto di lavoro.Inoltre, i posti di lavoro nei servizi sono quelli più legati all’informatizzazione e pertanto maggiormente soggetti all’esternalizzazione (outsourcing) verso Paesi con bassi salari.
- Mito dei costi. Il crollo del costo del lavoro permetterebbe la diminuzione della disoccupazione. Gli esperimenti praticati in questo senso non hanno dato i frutti sperati. E’ vero che si stanno creando nuovi posti di lavoro, ma si tratta sempre di lavori non sicuri (precari), che a loro volta originano altri problemi, dando luogo a quelli che vengono chiamati i nuovi poveri.
Si va verso una società in cui poche persone, dotate di grande professionalità, guadagneranno altissimi stipendi, a dispetto della spiccata tendenza generale alla riduzione dei posti di lavoro ed alla conseguente povertà globale, che accentuerà ulteriormente la piramide della ridistribuzione della ricchezza tra ricchi e poveri.
Un altro aspetto consequenziale è altrettanto degno di nota. Si rompe in questo modo la secolare alleanza tra capitalismo, Stato sociale e democrazia. La democrazia è sempre stata una democrazia del lavoro, perché solo chi ha un posto sicuro ed una casa gode dei diritti civili e politici. I cittadini privi di lavoro smettono di rendere la democrazia viva e forte, mettendola in balia di nuovi e vecchi regimi totalitari.
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