Capitalismo senza lavoro
Capitalismo senza lavoro: considerazioni e riflessioni sui temi dell'occupazione e del mercato del lavoro

da | 23 Dic 2005 | Società | 0 commenti

Occupazione

Capitolo 2 – Mito dell’impossibilità d’indagine

In realtà il settore dell’occupazione è uno dei campi più studiati dall’indagine statistica. Sia gli studi economici, sia quelli sulle scienze sociali, hanno portato all’acquisizione, per le più svariate ricerche, di numerosissimi dati.

Per quanto riguarda l’Italia le informazioni sull’andamento dell’occupazione non sembrano mostrare quel crollo che Beck teorizza. Nel nostro Paese i problemi riguardanti le forze di lavoro sono peraltro complessi e se si vuol continuare a parlare d’impossibilità dell’indagine forse si deve far riferimento proprio a questi peculiari problemi, i quali impediscono la precisa definizione della situazione e, soprattutto, la predisposizione di misure adeguate di politica economica.

I punti nevralgici del sistema occupazionale italiano possono ricondursi ai seguenti:

  • scarsa flessibilità, in entrata, dei lavoratori;
  • rigidità dei costi e delle modalità contrattuali del lavoro dipendente;
  • ricorso, conseguente, al lavoro irregolare (cosiddetto lavoro “in nero”);
  • ritardo culturale rispetto alle forme di lavoro temporanee;
  • eccessivo costo del lavoro (v. cap. 4)

Approfondiamo nei paragrafi successivi alcuni di questi aspetti.

2.1 – Le tendenze dell’occupazione

L’occupazione in Italia mostra andamenti altalenanti, ma niente che possa far pensare ad un trend di lungo periodo di evidente crescita della disoccupazione.

Il seguente grafico mostra il numero di unità di lavoro dipendenti regolari, nel periodo 1980-2002, per tutti i settori produttivi:

disoccupazione

(fonte ISTAT, elaborazioni proprie)

L’inesistenza di un trend irreversibile di declino occupazionale è visibile anche nel successivo grafico, che evidenzia l’andamento del tasso di disoccupazione in Italia nel decennio 1993-2003.

tasso-disoccupazione

(fonte ISTAT, elaborazioni proprie)

I dati sopra indicati devono essere letti, ad onor del vero, tenendo presente una premessa non di lieve conto e cioè che una grossa percentuale di diminuzione della disoccupazione, derivante dal cessato status di disoccupato di buona parte del campione, è d’attribuirsi esclusivamente alla tendenza, soprattutto dei giovani, di “ripiegare” sull’attività autonoma (anziché dipendente), come conseguenza appunto della mancanza di lavoro. Tale scelta da parte dei componenti della forza lavoro comporta la modifica (diminuzione) del numeratore del rapporto del tasso di disoccupazione e, quindi, l’apparente calo della disoccupazione. Queste iniziative di lavoro autonomo, spesso di breve e fallimentare durata, costituiscono una via di fuga dalla disoccupazione molto praticata, ma, pur non rappresentando certo un segnale positivo, non dovrebbero essere quantitativamente tali da incidere sul trend sostanzialmente stabile del tasso analizzato.

Non è tuttavia sufficiente allontanare il pericolo, almeno in Italia, di un incontrollabile crollo di lungo periodo dei livelli occupazionali. Nel nostro Paese il mercato del lavoro è affetto da anni da una grave crisi strutturale, la quale, dopo le riforme degli ultimi anni, anziché attenuarsi ha solo cambiato veste. In particolare, le nuove forme contrattuali di lavoro temporaneo, di cui si parlerà più diffusamente nei prossimi paragrafi, hanno sicuramente creato una maggiore flessibilità in uscita, riguardo cioè la possibilità d’assumere lavoratori a tempo determinato così come accade negli altri Paesi occidentali, ma hanno anche inciso profondamente sulla nostra società, con dei cambiamenti che la stessa società non è riuscita ancora ad “interiorizzare”. Il riferimento è alla flessibilità in entrata, che avrebbe dovuto compensare quella in uscita, e che in Italia, invece, non si è mai realizzata per una serie di motivi. Uno di questi, forse il più importante, al di là dell’elevato costo del lavoro di cui pure parleremo, è rappresentato dalla complessa normativa che regola il settore del lavoro ed da tutti i conseguenti adempimenti burocratici, di carattere contabile, previdenziale e fiscale, che impediscono di fatto un agevole e veloce processo di costituzione di nuovi posti di lavoro. Un effetto di quest’intricata rete di leggi e regolamenti è quello di dar vita al fenomeno del lavoro irregolare, ossia del lavoro privo dell’obbligatoria regolamentazione.

2.2 – Il lavoro irregolare

Quello del lavoro cosiddetto “in nero” è un aspetto della realtà italiana che negli ultimi anni è molto cresciuto, come dimostra il seguente grafico:

evoluzione delle unità di lavoro irregolari

lavoro-irregolare

(fonte ISTAT)

Il lavoro irregolare rappresenta nell’economia italiana una realtà indiscutibile, indice evidente di anomalie e debolezze del mercato produttivo e del lavoro, di cui la politica pubblica dovrà necessariamente farsi carico.

Le cause dell’esteso fenomeno possono individuarsi nelle seguenti:

  • eccessivo costo economico del lavoratore regolare in alcuni settori produttivi;
  • numerosità e difficoltà delle pratiche burocratiche per l’assunzione regolare;
  • elevata quota del costo previdenziale ed assistenziale a carico del datore di lavoro;
  • scarsa possibilità, in alcuni casi, di assunzioni temporanee o stagionali;
  • lunghezza delle pratiche d’assunzione, che non permettono la necessaria celerità per la sostituzione dei lavoratori cessati;
  • impossibilità per alcuni comparti di assunzioni “nominative”;
  • numerosità degli enti che intervengono nel processo di lavoro (INPS/INPDAP, INAIL, Ispettorato provinciale, Sindacati, Centri per l’impiego, Agenzie di somministrazione);
  • presenza del TFR (trattamento di fine rapporto) aziendale.

Vale la pena d’accennare al fatto che la situazione testé descritta rappresenta, in alcuni comparti economici come per es. quello dell’edilizia, la norma generale, perché l’alternativa della regolarizzazione è spesso un’opzione economicamente impraticabile.

E’ sempre per gli stessi motivi di cui sopra che si sono sviluppati, da parte delle aziende, alcuni accorgimenti, al limite della legalità, che possono ricondursi a forme irregolari di contrattazione del lavoro. Ci si riferisce all’utilizzo dei contratti di lavoro parasubordinato (v. par. successivo) in sostituzione di quelli tradizionali e più appropriati di lavoro subordinato, allo scopo di aggirare deliberatamente, a danno del lavoratore, la stringente disciplina del lavoro dipendente. Altra forma di lavoro formalmente regolare, ma sostanzialmente in difetto, è quella di costituire cooperative di lavoro e servizi che celano normali rapporti di lavoro dipendente sotto le mentite spoglie di rapporti con “soci-lavoratori”. Questa possibilità ha una variante, frequentemente praticata dalle medie e grandi società, consistente nell’operazione di costituire una cooperativa, formata da ex dipendenti della società, appositamente estromessi, allo scopo di fornire all’impresa madre (e solo ad essa) gli stessi servizi lavorativi prima offerti dai lavoratori nell’ambito del contratto di lavoro dipendente, ma con modalità di costo migliori (per l’azienda) e chiaramente peggiorative per gli ex lavoratori, ora soci della nuova cooperativa.

Infine, si vuole citare l’abitudine di molte aziende di remunerare gli individui sotto forma di corrispettivo per l’attività svolta come lavoratori autonomi (consulenti), occultando fraudolentemente in questo modo veri e propri rapporti di lavoro dipendente. Su questo argomento, dato il suo utilizzo soprattutto nell’area dei servizi, torneremo nel cap. 3.

2.3 – Le nuove forme di lavoro

Si è accennato alla riforma del diritto del lavoro, la quale ha portato alla creazione di nuove forme di collaborazione tra datore di lavoro e lavoratore. Si è anche detto come questi nuovi contratti di lavoro abbiano complicato più che “aggiustare” la peculiare situazione italiana nel mercato delle risorse umane. Infatti, se da una parte è senz’altro vero che questi nuovi contratti sono stati accolti positivamente dalle imprese, per la possibilità loro concessa d’assumere personale a tempo determinato o per particolari periodi, dall’altra, quella dell’offerta di braccia di lavoro, ha rappresentato un deciso peggioramento. L’obiezione che simili contratti di lavoro flessibili sono da tempo già operanti in altri Paesi cosiddetti moderni è facilmente contestabile dall’osservazione del mancato successo in Italia di questi strumenti quali portatori di una migliore flessibilità in entrata, ossia di un più facile accesso occupazionale, accesso che, come abbiamo già osservato (v. par. 2.1), è rimasto sostanzialmente rigido. I lavoratori italiani e soprattutto i giovani sono in questi anni affetti da una grave precarietà della loro occupazione, delle condizioni di lavoro e conseguentemente anche delle condizioni di vita. Una situazione che genera effetti negativi a catena sulla società, indesiderati e spesso neanche percepiti. Contratti che si rinnovano di anno in anno comportano l’impossibilità di costruire e programmare il futuro: una famiglia, una casa, uno stile di vita. La mancata sicurezza economica, anzi la prolungata insicurezza, provoca la perdita di quei valori sui quali si fondano le certezze e le decisioni improrogabili che ciascun soggetto è chiamato a prendere, mentre il rinviare sempre al futuro queste scelte danneggia inevitabilmente l’intera società.

Su uno di questi effetti (quello relativo al circolo vizioso che si costituisce tra la società ed il sistema bancario) si ritornerà nel par. successivo, adesso, a titolo meramente informativo, si vogliono elencare per sommi capi i punti critici dei principali contratti di lavoro che, per qualche verso, sono da considerarsi “precari”.

TIROCINIO FORMATIVO (Stage)

La sua conclusione è ostacolata dalla presenza di un terzo ente con mansioni di “promotore” dell’iniziativa, nonché dalla ponderosa documentazione di valutazione a carico di un tutor aziendale.

Non è prevista una remunerazione perché il fine dovrebbe essere la sola formazione del tirocinante.

Tranne casi specifici in cui il tirocinio formativo è svolto presso enti pubblici o Università, in genere questa forma contrattuale dà luogo a vere e proprie forme di lavoro subordinato, senza peraltro la corresponsione della dovuta retribuzione.

APPRENDISTATO

Anche qui la natura di “percorso formativo finalizzato al mercato del lavoro” è spesso ignorata, a favore del semplice utilizzo dell’apprendista per le normali esigenze di lavoro dell’impresa.

Inoltre, il contratto ha dato luogo a qualche problema d’applicazione, a causa dei rimandi normativi alla contrattazione collettiva, spesso lacunosa, e degli stringenti vincoli e requisiti da rispettare per la materiale osservanza del contratto.

SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO

Avrebbe dovuto costituire la spina dorsale della recente riforma del lavoro, invece si è rivelata un sostanziale fiasco, nonostante il senso contrario che potrebbe desumersi dal numero di annunci pubblicitari, spesso con funzioni di “civetta”, editi dalle Agenzie che svolgono questo servizio.

In realtà non si è fatto altro che istituzionalizzare il precariato nel mondo del lavoro. Incontrando anche diversi problemi d’ordine pratico, come la difficoltà a praticare i parametri retributivi previsti dal contratto di lavoro in essere nell’azienda cui i lavoratori sono somministrati e l’inconciliabilità dei diritti e dei doveri fra i lavoratori dell’azienda e quelli ivi provenienti dalla somministrazione.

Addirittura nella sua versione di contratto a tempo indeterminato, meglio chiamata dello staff leasing, non si vede come essa possa essere materialmente praticata, data la mancanza di convenienza economica per la fornitura di un servizio che, oltre la retribuzione del personale interessato, deve comprendere, nel suo corrispettivo, anche il margine di profitto dell’agenzia di somministrazione.

LAVORO A PROGETTO

Si tratta della forma di lavoro, detto in questo caso parasubordinato, più frequentemente utilizzata per l’occultamento (illecito) di forme tradizionali di lavoro dipendente. Godendo di un minor peso previdenziale (anche se attualmente questo vantaggio è fortemente rientrato, perché, a titolo informativo, l’aliquota INPS da versare è, nella generalità dei casi, attualmente pari al 19%), il lavoro a progetto è spesso usato in alternativa al lavoro subordinato, di cui non ha affatto le caratteristiche. La sostituzione è possibile perché la distinzione pratica tra le condizioni d’applicazione del lavoro a progetto (ex collaborazione coordinata e continuativa) e quelle del lavoro dipendente è per molti versi labile e comunque lasciata alla discrezionalità soggettiva del datore di lavoro.

Il risultato di tutto questo è la condizione di precarietà in cui versano molti lavoratori, soprattutto giovani alla prima occupazione.

LAVORO ACCESSORIO ED INTERMITTENTE

Sono due contratti di fatto inutilizzati.

2.4 – Lavoro e sistema bancario

La precarietà di cui si è parlato nei paragrafi precedenti sta avendo in Italia una particolare conseguenza per quel che riguarda le banche e di riflesso le condizioni di vita degli individui.

Il nostro sistema bancario non sembra si sia ancora accorto di questa nuova realtà rappresentata da lavori temporanei e comunque a tempo determinato, che possono di fatto durare anche molti anni in virtù del meccanismo dei rinnovi (utilizzato in primis dalla pubblica amministrazione). Le nostra banche rifiutano credito ai giovani che vi si recano a chiedere prestiti, portando in garanzia la busta paga del contratto periodico. Le banche italiane non concedono credito a chi non ha la stabilità del posto di lavoro, nella convinzione (errata) che stabilità sia uguale ad adempimento degli impegni finanziari.

Chiaramente questa situazione di mancata concessione di finanziamenti ha ripercussioni negative, perché crea un circolo vizioso inopportuno nel sistema sociale ed in quello economico. Per maggior chiarimento si prenda l’esempio di un giovane con un lavoro temporaneo che gli viene rinnovato di scadenza in scadenza. Questi non sarà certamente soddisfatto della sua situazione e ovviamente cercherà nel suo tempo libero altre occupazioni più stabili o prenderà in considerazione lo sfruttamento di qualche idea imprenditoriale che gli appaia verosimilmente buona (abbiamo visto come questo obiettivo può essere il “ripiego” di molti disoccupati, ma anche di tanti lavoratori occasionali). Per realizzare questa idea o anche solo per comprare la casa di abitazione dove vive in affitto o quella dove vuole andare a vivere una volta sposato, si rivolgerà ad una banca per ottenere un prestito, che utilizzerà per crearsi una sua attività privata oppure per non pagare l’affitto mensile e quindi per risparmiare parte del suo stipendio. In entrambi i casi dunque quello che cerca è una condizione di stabilità, prerequisito necessario per le più importanti scelte di vita. Se la banca non eroga il finanziamento richiesto, perché reputa il giovane non meritevole di credito, si innesca un meccanismo perverso che implica:

  • il rinvio di decisioni di matrimonio e/o di iniziative imprenditoriali;
  • l’obbligo di continuare a pagare l’affitto della casa d’abitazione;
  • la limitazione della spesa per consumi, data la condizione di ristrettezza;
  • il perpetuarsi, in definitiva, dello stato di precarietà.

Conseguenza finale è il mancato verificarsi di quelle condizioni che avrebbero portato, in qualche misura, stabilità nella vita dell’individuo ed anche, di riflesso, nell’ambito sociale ed economico, poiché la sicurezza di poter contare per es. sullo stipendio del coniuge o sul risparmio generato dell’affitto non più dovuto, avrebbe dato slancio all’adozione di decisioni importanti, con una maggiore propensione al consumo. Così come la prevista nuova attività economica posta in essere dal nostro soggetto avrebbe, non solo incrementato il suo reddito familiare, ma anche messo in moto il meccanismo virtuoso della crescita economica (sia pur locale) spinta dagli investimenti. Tutte conseguenze che il mancato accesso al credito del sistema bancario ha bruscamente negato.

Questo stato di cose è colpa certamente di quella mancanza di flessibilità in entrata di cui si è già parlato, che non permette di sostituire facilmente e rapidamente il posto di lavoro perduto per scadenza dei termini. Tuttavia grossa parte di responsabilità è attribuibile al sistema bancario italiano, che finora non ha mai voluto prendere in considerazione, nell’istruttoria degli affidamenti, le potenzialità future del richiedente, limitandosi esclusivamente a valutare il passato, come se la migliore garanzia di pagamento futuro dei debiti sia il comportamento passato e non proprio quello futuro. E’ questa una grave pecca dell’organizzazione bancaria italiana, che non ha corrispondenti negli altri Paesi ad economia forte. In tali Paesi già da tempo le banche ivi operanti utilizzano strumenti di valutazione preventiva, finalizzati a classificare i richiedenti fido sulla base delle loro capacità future di mantenere gli impegni presi. Le metodologie a tal fine applicate sono spesso molto raffinate e forniscono ottimi risultati, laddove in Italia ancora non si chiede agli imprenditori il business plan della loro attività.

Le banche italiane dovranno comunque acquisire presto e senza ritardi questa mentalità “prospettica” di valutazione degli affidamenti, perché diverranno operative fra non molto le regole di Basilea 2, che stabiliscono appunto l’attribuzione di un rating (valutazione) “globale” alle aziende richiedenti finanziamenti.

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