La crisi del credito
Chi ha detto che la crisi americana del credito non possa ripetersi in Italia?
Gli italiani che in vacanza non hanno rinunciato alla lettura del quotidiano preferito o alla visione del solito TG, avranno sicuramente percepito i segnali di allarme lanciati dalle borse valori di tutto il mondo e riguardanti la salute dell’economia internazionale. Avranno anche successivamente letto o visto, rassicurandosi, il generale rientro dell’emergenza, a causa della risalita, dopo la caduta, degli indici delle stesse borse e soprattutto delle numerose affermazioni tranquillizzanti da parte di politici ed esperti. Questi hanno fatto a gara nel dire sostanzialmente tre cose: che la crisi americana del credito non potrà mai ripercuotersi in Italia, che lo scenario del nostro paese è completamente diverso da quello USA entrato in fibrillazione e, infine, che si è trattata di una turbolenza esclusivamente finanziaria in quanto la sottostante economia reale va bene e non risentirà della bufera borsistica. Si è fatto pertanto grande uso nelle dichiarazioni ufficiali e sui mezzi di comunicazione di termini come “marginale”, “contenuto”, “modesto” e “irrilevante” per definire il possibile impatto in Italia della crisi dei mutui americani.
Ma è davvero così? I presupposti pratici che hanno portato le grandi banche USA ad erogare prestiti “di serie B”, che adesso la clientela non riesce a rimborsare, sono poi così diversi da quelli sui quali si è basata negli ultimi anni la politica creditizia delle banche italiane? Il nostro paese è da ritenersi completamente estraneo ad una recessione potenzialmente innescabile dallo scoppio della bolla dei mutui bancari?
In realtà, nonostante tutte le voci contrarie, la situazione italiana non è proprio brillante come ci vogliono far credere. Il pericolo di una “ingessatura” del mercato del credito, di quello contiguo degli immobili abitativi e quindi di gran parte dell’economia italiana è molto concreto. Le borse valori si sono rivelate ancora una volta un valido “termometro” dell’economia reale.
Ma andiamo per ordine e spieghiamo cosa è successo questa estate all’economia americana, anche a vantaggio di quei vacanzieri di cui parlavamo in apertura, i quali hanno sentito prima i gridi di allarme e poi le decise rassicurazioni sullo stato dell’economia mondiale. Una situazione quindi ingarbugliata e difficile da comprendere, pure perchè i media hanno spesso riportato le notizie trascurando di definire le oscure espressioni tecniche utilizzate, come “subprime” e “hedge fund“.
Cominciamo subito col dire che l’economia americana è in fase di recessione. È questa una verità che si è cercato a lungo di nascondere, ma che adesso è sufficientemente evidente.
La cronaca di questa crisi occulta parte addirittura dal lontano 2001, quando il sistema d’oltreoceano fu costretto a fare i conti con la sanguinosa fine degli entusiasmi per la cosiddetta new economy fondata su Internet. Per contrastare le enormi difficoltà degli operatori della rete virtuale, seguite al crollo delle loro prospettive di reddito, l’amministrazione Bush mise in campo varie contromisure.
Innanzitutto manovrò sul tasso di cambio del dollaro in modo da lasciare che la moneta statunitense si deprezzasse nei confronti delle altre valute e ciò spiega, in parte, il livello odierno di quotazione (rispetto al $) raggiunto dal cosiddetto supereuro. L’intenzione era quella di aggiungere alla fiacca domanda interna di beni le richieste provenienti dall’Europa ed alimentare così l’export USA.
Poi il governo americano operò un forte sgravio fiscale, che però di fatto avvantaggiò solo le categorie più ricche, non riuscendo a risollevare l’economia americana dalla recessione in cui era caduta per l’infrangersi del sogno del denaro facile proveniente da Internet. Una recessione che, ricordiamo, avveniva proprio in un momento particolare per gli USA (l’11 settembre) e quindi in un periodo, quello successivo alle Torri Gemelle, caratterizzato da un’economia di guerra, la quale è per definizione un’economia di pieno impiego.
Anzi, i malpensanti hanno sostenuto che la stessa decisione di iniziare la guerra in Iraq, con buona parte del contingente militare impegnato su questo fronte bellico, sia da considerarsi una delle misure escogitate da George W. Bush per far uscire il sistema americano dalla crisi in cui versava. Pur non volendo arrivare a pensare che la guerra in Iraq sia stata il frutto della flessione dell’economia americana, è significativo che attualmente tale economia segni decisamente il passo nonostante le sostanziose commesse militari scaturenti da tutti i fronti bellici (non solo in Iraq, anche p.es. in Afghanistan, etc…).
Ma il provvedimento dell’amministrazione Bush che più di ogni altro avrebbe dovuto riportare il sistema produttivo americano a pieno regime è stato sicuramente quello, deciso di concerto con l’allora premier della Federal Reserve (la Banca centrale USA) Alan Greenspan, di attuare una rigida politica monetaria tesa ad ottenere la drastica riduzione dei tassi di interesse. Solo così era possibile sostenere l’occupazione e la crescita USA in affanno.
La decisione ha dato i suoi risultati, perchè gli americani hanno conosciuto tassi di interesse bassissimi (addirittura dell’1% nel 2003). Tuttavia questa politica ha solo rinviato l’inevitabile e qui arriviamo finalmente agli avvenimenti di questa estate, la responsabilità dei quali pertanto è da attribuirsi a colui che fino a poco tempo fa era considerato una delle massime autorità mondiali in fatto di politica monetaria: l’ex Presidente della Fed Alan Greenspan.
Come ha infatti giustamente osservato il premio Nobel e docente alla Columbia University Joseph E. Stiglitz, la politica monetaria messa in moto da Greenspan ha funzionato diversamente da quello che è il modello scolastico. I tassi di interesse in discesa anziché stimolare le aziende a prendere più prestiti per realizzare maggiori investimenti, hanno indotto le famiglie a indebitarsi massicciamente attraverso l’accensione di (o la ristrutturazione di vecchi debiti con) mutui a tasso variabile, con il conseguente aumento dei consumi ed il riavvio della crescita economica.
Inoltre, in una situazione caratterizzata da tassi di interesse decrescenti, le banche hanno avuto tutta la convenienza a spingere al massimo l’offerta di tali mutui, riducendo i parametri di solvibilità negli standard di affidamento ed arrivando ad erogare prestiti, anche mediante la creazione di nuovi prodotti, che riescono a finanziare percentuali molto vicine al 100% del valore della casa al cui acquisto sono destinati.
È chiaro che un mercato del genere ha provocato il boom dei mutui subprime, ovvero dei mutui cosiddetti di serie B, concessi alle categorie meno abbienti, privi di garanzie e quindi molto più rischiosi per gli istituti eroganti.
Sennonché il meccanismo ha funzionato solo fino al momento in cui tassi hanno toccato il fondo ed hanno cominciato a risalire, mentre il prezzo degli immobili è aumentato più che proporzionalmente rispetto all’ampliamento del costo dei mutui finalizzati al loro acquisto.
A questo punto i mutuatari che con troppa leggerezza (e con miopia temporale) avevano accettato la variabilità del tasso pur di spuntare condizioni di partenza ultrafavorevoli (non per niente tali finanziamenti sono in USA chiamati “teaser”, cioè stuzzicanti), si sono resi conto di non essere più in grado di pagare le rate del mutuo, perchè queste erano aumentate a dismisura rispetto all’importo iniziale, in corrispondenza appunto del nuovo andamento al rialzo dei tassi di interesse.
Ecco, in parole semplici, ciò che è accaduto nei mesi scorsi e perchè sui mercati finanziari gli operatori hanno tenuto a lungo il fiato sospeso. Ma l’aspetto sorprendente di questa vicenda è che essa era facilmente prevedibile, eppure niente è stato fatto per evitarla o prevenirla.
Era evidente che i tassi di interesse una volta raggiunto il minimo sarebbero ricresciuti ed era altrettanto evidente che le famiglie nel frattempo indebitatesi con mutui indicizzati avrebbero avuto serie difficoltà a trovare i soldi per pagare rate sempre più elevate. Ed è questa la grande colpa di Greenspan, il quale fino all’ultimo ha esortato le famiglie americane a sottoscrivere mutui “a tasso regolabile invece che fisso”, come se si aspettasse che i tassi sarebbero rimasti per sempre all’1%.
Tuttavia la “debacle” dei mutui subprime americani non spiega per intero il motivo per cui nelle borse di tutto il mondo si è temuto il peggio, tanto d’arrivare a parlare di una crisi generale del credito.
Infatti, secondo un’attendibile stima, i subprime valgono solo il 10% del mercato americano dei prestiti ed anche se la sensazione è che le difficoltà del credito non si limitino al settore dei subprime, occorre fare ulteriori considerazioni per spiegare perchè la crisi innescata dai mutui abbia attraversato orizzontalmente tutto il panorama della finanza mondiale. In altre parole bisogna chiedersi perchè tutti parlano dell’attuale momento di crisi nel settore dei finanziamenti, quando questo invece avrebbe dovuto limitarsi ai mutuatari impossibilitati a rimborsare il prestito ottenuto ed agli istituti creditori che, per superficialità nell’affidamento, non hanno patrimoni da aggredire per recuperare i loro crediti.
Il collegamento tra il mercato americano dei mutui ai nuclei familiari più poveri e le grandi società finanziarie internazionali è da ricercare nel tipico funzionamento della finanza derivata, che tende a trasformare in titolo di credito qualsiasi strumento entri nella sua disponibilità.
Così numerosi istituti di credito che avevano nel loro portafoglio i subprime hanno provveduto alla cartolarizzazione di questi ultimi, cioè alla loro trasformazione in titoli, che hanno poi collocato (venduto) sul mercato.
Tali nuovi strumenti finanziari, che prendono il nome di “asset locked securities”, sono di fatto titoli a garanzia patrimoniale, liberamente ceduti sul mercato, ma senza alcuna garanzia di rimborso visto che essa dipende in sostanza dal regolare pagamento dell’originario subprime da cui derivano (ecco perchè si chiamano “derivati”).
Ma non finisce qui, perchè questi titoli derivati subiscono un ulteriore raggruppamento con altri titoli a garanzia patrimoniale, provenienti da ordinarie transazioni commerciali e da obbligazioni vere e proprie, diventando CDO (Collateralized Debt Obbligations), ovvero in gergo tecnico “titoli salsiccia”.
Essi vivono (come tutti i derivati) di vita propria e sono quindi acquistati come tali non solo dagli hedge funds (fondi speculativi) riservati agli investitori istituzionali, ma anche da multinazionali e istituzioni varie allo scopo di diversificare i loro investimenti finanziari.
Il problema è che dopo tutti i passaggi descritti, di questi titoli salsiccia non si conosce più né il contenuto, né, di conseguenza, il loro grado di rischiosità ed anzi essi sono spesso rivestiti di una patina di credibilità e di sicurezza, quando invece il loro debitore di ultima istanza rimane il cliente bancario non abbiente che ha comprato la sua casa indebitandosi fino al collo perchè privo della necessaria disponibilità monetaria.
È questo il passaggio dai subprime americani ai mercati finanziari internazionali che ha fatto tremare le principali borse mondiali. Inoltre, a turbare ancora di più gli equilibri finanziari ci si sono messe anche la Fed e la BCE (la Banca centrale Europea), le quali hanno pensato bene di pompare ossigeno nei sistemi bancari attraverso l’immissione di liquidità.
L’obiettivo evidente è stato quello di tenere giù i tassi di interesse in un momento economico particolare, ma, se le intenzioni erano buone, di fatto tali manovre espansive hanno solo contribuito a creare maggiore panico tra gli operatori, avallando ulteriormente l’ipotesi di una crisi del credito su scala mondiale. Anche perchè cosi facendo i due istituti monetari sono andati esattamente in direzione opposta rispetto a quanto precedentemente annunciato e cioè la volontà di alzare i tassi (BCE) e di tenerli bloccati (Fed). Addirittura la BCE ha fatto capire che non procederà al rialzo del saggio di interesse già programmato per il prossimo autunno.
La domanda che a questo punto è importante porsi è se lo sconvolgimento finanziario (ma anche economico, come abbiamo detto) descritto, originatosi negli States ma con il coinvolgimento altresì di grandi imprese al di fuori dei confini americani, possa in qualche modo allargarsi in Italia. Riteniamo che la risposta a tale interrogativo sia la seguente: allargarsi no, riprodursi o ripetersi sì.
Il rischio di avere nel paese ripercussioni dai mutui subprime americani è in effetti molto basso. Come sostenuto da più parti (Unicredit, Intesa-San Paolo, Generali, Bankitalia, esponenti di governo) la presenza nel portafoglio delle imprese italiane di prodotti derivati dai subprime è praticamente inconsistente e comunque insufficiente a creare qualsiasi forma di turbamento del mercato.
Diverso però è il discorso se ci si riferisce alla possibilità che la crisi dei mutui avvenuta in USA possa verificarsi o, per meglio dire, avere un suo clone nel nostro paese.
In questo caso la conclusione è senz’altro affermativa, perchè non dimentichiamo che il problema è esploso per la sopravvenuta incapacità di rimborsare i mutui a tasso variabile da parte dei debitori, a causa del rialzo dei tassi di interesse.
E ciò è proprio quello che sta accadendo ora in Italia ed a nulla valgono le dichiarazioni contrarie (p.es. di alcuni opinionisti e della stessa Bankitalia) basate sul fatto che il mercato italiano del credito bancario è molto meno elastico ed “avventuroso” di quello statunitense.
Vediamo perchè tali affermazioni sono inesatte.
Cominciamo dall’analisi della situazione dei prestiti erogati dal sistema bancario nazionale ed in particolare di quelli garantiti da ipoteca e finalizzati all’acquisto di immobili. Le famiglie italiane, nelle loro scelte di indebitamento per l’acquisto della casa, hanno prevalentemente optato a favore dei mutui immobiliari a rata variabile e indicizzati ad un particolare parametro (generalmente l’euribor). Lo hanno fatto per lo stesso motivo delle famiglie americane, ossia per l’appetibilità del tasso di interesse di partenza, che era (ed è ancora) relativamente più basso rispetto a quello che le banche attribuiscono, laddove possibile, nel caso di mutui a tasso fisso. Anche nel nostro paese gli istituti di credito hanno quindi spinto per i mutui a tasso variabile, perchè sapevano bene che, attraverso il meccanismo dello spread ed in periodi, come l’attuale, di tassi crescenti, le rate si sarebbero presto e facilmente ingrossate.
Si sono guardate bene dall’assistere realmente i clienti, consigliando loro i più sicuri mutui a tasso fisso di durata decennale o ventennale. Anzi le banche hanno stuzzicato i futuri mutuatari mediante prestiti che avevano, oltre un tasso variabile di partenza particolarmente attraente, uno spread (la formuletta che permette il passaggio dal parametro di riferimento al nuovo tasso) molto spesso maggiore di uno, con la conseguenza che il tasso effettivo del mutuo raggiungeva, già nel giro di un anno, il livello del tasso fisso cui il cliente aveva rinunciato in sede di scelta del finanziamento.
Il sistema bancario italiano è pure divenuto in questi ultimi anni molto spregiudicato in tema di concessione di fidi. Per esempio è arrivato a finanziare (come ci diceva una nota pubblicità televisiva) sino al 95% del valore dell’abitazione che con il mutuo si vuole per l’appunto comprare. Fino a pochi anni fa era impossibile ottenere un prestito superiore, nel migliore dei casi, all’80% del valore commerciale della casa.
Pure gli stessi canoni di sicurezza e di affidabilità nella concessione dei prestiti sono stati rivisti al ribasso. Certo non si è arrivati a quell’elasticità nell’erogazione dei finanziamenti cui si è giunti negli USA, dove gli istituti di credito hanno accettato di assumere rischi altissimi pur di prestare la maggiore quantità possibile di denaro. In Italia le banche non hanno rinunciato a chiedere garanzie reali ed in particolar modo, per quanto riguarda i mutui per la casa, l’iscrizione ipotecaria sugli immobili.
Tuttavia, a ben vedere, la presenza di queste garanzie non ha assolutamente alcuna rilevanza nell’ottica di una possibile crisi del settore. Dal punto di vista dei mutuatari l’accessoria garanzia ipotecaria non incide minimamente sulla situazione: le famiglie, sia pur inizialmente solvibili, ora non hanno comunque i soldi per pagare rate cresciute del 30-40% dall’inizio del piano d’ammortamento del prestito (e che continuano a crescere).
Ma pure dal punto di vista degli istituti bancari le garanzie reali a supporto del credito non hanno grande rilevanza, perché ad una banca che vede sempre più debitori non rispettare le scadenze pattuite per i pagamenti cosa importa sapere che tra 7-10 anni potrà, forse, recuperare con l’esecuzione coattiva l’intero prestito concesso?
Sono infatti questi i tempi tecnici delle procedure giudiziarie in Italia, mentre le conseguenze economiche connesse al mancato pagamento delle rate sono per le banche problemi da affrontare subito. Esse non possono permettersi di attendere la lunghezza biblica delle esecuzioni forzate, anche perché nel frattempo sono costrette ad anticipare le onerose spese legali richieste dalle procedure avviate. Così molto frequentemente preferiscono optare per le più celeri transazioni oppure per l’alternativa costituita dalla cessione ad apposite società di factoring del credito non in bonis, contabilizzando però in bilancio, nell’un caso o nell’altro, la percentuale di perdita derivante dall’operazione transattiva o di vendita.
Chi ha detto che le banche italiane possono dormire sonni tranquilli in relazione all’impossibilità per i debitori di pagare rate sempre più gravose, in quanto collegate a prestiti ampiamente garantiti, si è dimenticato di dire che è più facile (e veloce) procedere in USA contro un debitore sprovvisto di garanzie reali che escutere in Italia una garanzia ipotecaria.
Ed a questo proposito ha fatto bene il Governatore di Bankitalia Mario Draghi a lanciare l’allarme sull’elevato livello raggiunto, soprattutto nel Sud, dalle sofferenze bancarie, che sono appunto i prestiti erogati dagli istituti di credito successivamente classificati insoluti e per i quali quindi sono da attivare le procedure giudiziarie ed extragiudiziarie ai fini del loro recupero.
Se all’interno di questo non certo positivo scenario aggiungiamo pure l’andamento del prezzo degli immobili in Italia il quadro è completo.
Si può allora affermare, senza paura di essere smentiti e a dispetto delle voci tranquillizzanti, che è significativo nel paese il rischio di un prossimo irrigidimento del mercato dei prestiti e conseguentemente del mercato immobiliare, il quale peraltro già sta dando segni evidenti di irrequietezza.
Dopo anni infatti in cui il prezzo delle abitazioni è cresciuto senza freni, tanto che in alcune località esso si è più che raddoppiato in soli cinque anni (basta prendere il prezzo in lire del 2001 e togliere le ultime tre cifre per avere l’attuale prezzo in euro), adesso il valore di scambio degli immobili si è bloccato. Si è bloccato cioè il processo per il quale l’alto e inavvicinabile costo delle abitazioni veniva finanziato quasi per intero con l’accensione di mutui bancari di durata sempre più lunga (gli istituti hanno infatti concepito nuovi prodotti, dilatando oltre misura il tempo di rimborso dei prestiti). E l’inceppamento del processo è stato causato proprio dall’impossibilità finanziaria delle famiglie italiane di indebitarsi agli attuali tassi di mercato, non più contenuti come quelli di qualche anno addietro (vedi grafico).
Pertanto, alla luce di quanto detto, in una situazione ormai caratterizzata da un trend in salita dei tassi di interesse, la sostenibilità della crescita economica nel nostro paese è da mettere seriamente in discussione.
La situazione illustrata però non è irrimediabile, il futuro descritto non è ineluttabile. Esistono fortunatamente le politiche economiche, quella monetaria e quella fiscale, con le quali è certamente possibile indirizzare il sistema verso risultati diversi e migliori.
L’esecutivo è infatti già al lavoro per trovare delle soluzioni (magari da inserire nella prossima finanziaria), soprattutto per il problema della casa, che è diventato impellente per molte famiglie, e per una politica creditizia più sicura e meno abbandonata ai capricci di un mercato dei capitali che nei prossimi anni vedrà molto probabilmente la crescita dei tassi di interesse, nonostante gli artificiosi interventi di segno contrario posti in atto dalle autorità monetarie.
Tra i provvedimenti statali già in vigore è da ricordare quello sulla “portabilità” dei mutui. Esso consente di “stoppare” l’inarrestabile aumento dell’entità della rata da pagare sul mutuo sottoscritto attraverso lo spostamento (o se vogliamo la rinegoziazione) di quest’ultimo a favore di un altro istituto di credito, anche se l’operazione non è senza costi per il debitore.
In conclusione è utile ed interessante vedere cosa succederebbe sul mercato italiano degli immobili se nessuna misura fosse adottata dai pubblici poteri (cioè in assenza di interventi pubblici nel sistema economico).
Preso atto che, una volta esauriti gli effetti delle attuali politiche monetarie restrittive tese a tenere sotto controllo i tassi fino alla normalizzazione dei mercati borsistici, il saggio generale di interesse dovrebbe comunque crescere, il futuro quadro economico del mercato immobiliare dipenderà da quale tra due ipotesi alternative si verificherà.
L’ipotesi che i tassi continueranno a salire per lungo tempo, arrivando alle due cifre come negli anni ’80, e l’ipotesi, più verosimile, che essi cresceranno fino ad un determinato livello, sufficiente alla copertura dell’inflazione ed alla determinazione di un discreto tasso reale, per poi stabilizzarsi. Nel primo caso la curva di domanda degli immobili da parte delle famiglie si modificherà come in figura.
La domanda tenderà a ridursi (a parità di quantità) perché gli acquirenti di immobili non saranno più disposti ad accettare tassi eccessivamente elevati sui mutui da sottoscrivere per finanziare il costo dell’operazione.
Ci sarà conseguentemente un ritorno all’affitto dell’abitazione in cui vivere, ritenuto relativamente più vantaggioso del mutuo immobiliare necessario all’acquisto della casa.
In particolare la nuova curva di domanda presenta un angolo per il prezzo (che abbiamo chiamato di break) corrispondente al saggio di interesse che la maggioranza delle persone componenti la domanda considera spropositato in funzione della decisione di prendere denaro in prestito. Esso costituisce quindi la soglia oltre la quale i potenziali acquirenti di immobili preferiscono non indebitarsi (e non comprare casa).
L’angolo della curva definisce pertanto due diverse domande di immobili (una al di sopra ed una al di sotto di esso) contraddistinte da due differenti gradi di elasticità: una domanda con normale elasticità per prezzi minori del prezzo di break ed una domanda invece molto elastica per prezzi superiori al break, quest’ultima ad esprimere una forte caduta della quantità domandata nell’eventualità di ulteriori aumenti del prezzo degli immobili (oltre la soglia di break).
Nel caso più realistico di un aumento dei tassi di interesse fino ad un certo livello cui faccia seguito la loro stabilizzazione, la domanda degli italiani di case diminuirà fino a creare un nuovo equilibrio, caratterizzato da un minor prezzo ed una minore quantità scambiata.
È doveroso però osservare che, a differenza di altri beni, il valore commerciale degli immobili (generato appunto dalla loro domanda ed offerta) ha la peculiarità di salire facilmente, ma pure di essere oltremodo vischioso quando si tratta di scendere. Per cui verosimilmente non dobbiamo aspettarci grandi cadute del prezzo delle case nell’immediato futuro.
Infine, è opportuno notare che qualunque scenario si verifichi, ivi compreso quello risultante da un intervento pubblico finalizzato ad agevolare le famiglie nell’acquisto della propria abitazione, il mercato immobiliare si raffredderà e questa informazione è, in una scienza non esatta come l’economia, un’importante notizia.
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