Già nel 1956 il geologo M. King Hubbert aveva previsto, con riferimento al sistema energetico americano, che la produzione di petrolio dai pozzi petroliferi avrebbe avuto un andamento a campana, con un apice (meglio conosciuto come “picco di Hubbert“) intorno all’anno 1971. Il picco sarebbe stato cioè il livello massimo della produzione americana di greggio, dopo di cui la quantità prodotta avrebbe conosciuto una graduale riduzione, entrando così nella fase che in marketing si chiama “della maturità”, per poi passare inesorabilmente in quella detta “del declino”.
Purtroppo, la previsione di Hubbert circa il trend della produzione americana di petrolio si è puntualmente avverata. Infatti, mentre nei primi anni ’70 gli Stati Uniti producevano quasi 3 miliardi e mezzo di barili l’anno, attualmente la quantità di Gb (barili, 159 litri) immessa sul mercato è circa la metà ed il resto della domanda interna è soddisfatto con l’importazione da oltre confine.
La teoria di Hubbert, storicamente validata, offre pertanto un modello con cui costruire uno scenario relativamente attendibile per la previsione della produzione mondiale di oro nero. Gli studiosi hanno dimostrato che l’applicazione di questo strumento alla realtà energetica degli ultimi tempi determina un grafico in cui il famigerato picco di Hubbert si verifica proprio nel 2007, anche se la produzione di altri tipi di petrolio più innovativi, come il “pesante”, è in grado di spostare il tetto produttivo di qualche anno in avanti. Il meccanismo che sottende il descritto percorso di utilizzo dei pozzi petroliferi (da un massimo ad una progressiva diminuzione) è molto verosimile ed anche facilmente giustificabile, se solo si riflette su come, una volta che i pozzi grandi si esauriscono, si proceda allo sfruttamento (e quindi al depauperamento) di quelli più piccoli, che richiedono maggiori investimenti, fino al punto in cui gli elevati costi costringono la produzione a scendere.
A prescindere da qualsiasi altra considerazione, tale conclusione riguardo l’attuale presunto raggiungimento della fase di maturità nell’estrazione di petrolio comporta che, dal punto di vista economico, all’eccesso di offerta rispetto alla quantità domandata si sostituisce un eccesso di domanda, che, in quanto tale, i paesi esportatori di petrolio non riescono più a soddisfare o soddisfano a costi evidentemente più alti. Il risultato è un’inevitabile pressione sui prezzi dei carburanti, che tendono a crescere senza freni, con conseguenti ricadute sui sistemi economici (come la stagflazione, ovvero il contemporaneo verificarsi di recessione ed inflazione) e politici (come, p.es., lo scoppio di guerre per l’accaparramento di risorse divenute scarse e costose). Il problema è che già adesso stiamo assistendo alle avvisaglie di questo quadro apocalittico ed il riferimento è sicuramente all’aumento, apparentemente incontrollabile, del prezzo dei combustibili per autotrazione e per riscaldamento.
Il dato certo di partenza, che non va mai dimenticato, è che il petrolio è e sarà sempre una risorsa energetica “esauribile”, che finirà necessariamente prima del genere umano, e pertanto si ritorna ancora una volta a quella che è la domanda cruciale: quanto durerà il petrolio?
Diciamo subito che a questa domanda nessuno può dare una risposta, perché sono troppi i fattori da valutare e per alcuni di essi non si hanno neanche sufficienti elementi di analisi.
In particolare bisognerebbe conoscere, con discreta cognizione, la quantità di petrolio ancora da estrarre e la velocità, economicamente accettabile, con la quale la si può estrarre. C’è però almeno un fatto che può ritenersi sicuro: dal 1985 il consumo mondiale di prodotti derivanti dal petrolio è superiore alla quantità di greggio che si scopre nei giacimenti e quindi, da allora, la forbice tra consumo e nuovi pozzi scoperti si allarga sempre più.
Pertanto la vera domanda che ci si deve porre è la seguente: quando si affronterà seriamente (e si risolverà) il problema della crisi petrolifera, indirizzando con forza la politica energetica verso fonti energetiche alternative e rinnovabili (ovvero non esauribili)? Continuando a lasciare questo arduo compito alle future generazioni si potrebbe correre il rischio di ritrovarsi da un momento all’altro, per quanto detto sopra, in condizioni insostenibili, non solo sotto l’aspetto economico, ma soprattutto per il deterioramento della qualità della vita.
In questo contesto, per quanto riguarda più da vicino il nostro paese, non dovrebbero passare inosservati i suggerimenti dell’ENEA, indicati nel suo rapporto annuale. Il piano che quest’ente di ricerca propone è concreto e fattibile. Esso prevede la fissazione di un realistico obiettivo quantitativo in termini di risparmio energetico, da realizzare mediante un massiccio ricorso all’efficienza energetica negli usi finali, con un diffuso impiego di tecnologie a basso consumo nel civile, nell’industria e nei trasporti. Prevede, inoltre, un’incisiva promozione delle fonti rinnovabili per la produzione di energia elettrica e per gli usi termici nel settore civile, nonché il ricorso ai biocarburanti nel settore dei trasporti. L’intervento sarebbe caratterizzato da una prima fase in cui la politica energetica del paese dovrebbe cercare di dare un forte impulso alla diffusione delle tecnologie già disponibili sul mercato e da una successiva fase in cui si dovrebbe tendere all’utilizzo generalizzato ed economico di una seconda ondata di fonti rinnovabili, frutto della ricerca e dello sviluppo tecnologico. Corollario a ciò sarebbe dunque l’ampliamento della spesa pubblica per la ricerca, che dovrebbe crescere, nel bilancio statale, come percentuale del PIL, in armonia peraltro con i livelli raggiunti da tale spesa negli altri paesi europei.
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