Il Trattamento di Fine Rapporto (TFR)
Si parla molto in questo periodo del Trattamento di Fine Rapporto. Il motivo è semplice: entro il prossimo 30 giugno i lavoratori privati dovranno decidere (e se non lo fanno vale il silenzio-assenso a favore dei fondi pensione) se mantenere in azienda i futuri accantonamenti del TFR o destinarli alla previdenza integrativa, allo scopo di ricevere, in tale ultima eventualità, una seconda pensione quale premio per il raggiungimento dei limiti d’età lavorativa.
Le discussioni sull’argomento, sicuramente d’attualità, partono però dalla convinzione che tutti i diretti interessati (i lavoratori) sappiano perfettamente cos’è il TFR, come si liquida e soprattutto di quanto si rivaluta. In realtà, per capire bene il cambiamento e fare i giusti confronti con il rendimento dell’investimento alternativo rappresentato dai fondi pensione, è opportuno disegnare un accurato quadro, sintetico e chiaro, del vecchio istituto del Trattamento di Fine Rapporto, che permetta d’affrontare con maggiore consapevolezza l’imminente scelta personale fra trattamento e fondi pensione.
Il TFR nasce esattamente 25 anni fa, con la legge n. 297 del 29 maggio 1982. L’articolo uno di tale normativa, che è andato a sostituire l’art. 2120 del Codice civile, pone infatti fine al precedente istituto delle “indennità di liquidazione”, per creare nelle contabilità aziendali un nuovo fondo, più moderno, da erogare ai dipendenti del settore privato (e solo a questi) alla cessazione, per qualsiasi motivo, del loro rapporto di lavoro. Si tratta quindi di un debito che l’impresa privata contrae verso il lavoratore assunto in organico e che gli pagherà materialmente al momento della sua fuoriuscita dall’azienda, tranne nel caso di versamenti anticipati di quote del trattamento, eventualità prevista al verificarsi di determinate condizioni e necessità (per le esigenze derivanti dall’acquisto dell’abitazione principale, per il sostenimento di spese mediche straordinarie, etc…).
In particolare, il primo comma del novellato art. 2120 afferma che “in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato, il prestatore di lavoro ha diritto a un trattamento di fine rapporto. Tale trattamento si calcola sommando per ciascun anno di servizio una quota pari e comunque non superiore all’importo della retribuzione dovuta per l’anno stesso divisa per 13,5 (…)“. La disposizione in parola è pertanto sufficientemente esplicativa di come vada calcolato il quantum spettante al personale che va via dall’impresa: per ciascun anno di lavoro la quota da accantonare in apposito fondo (il TFR appunto) è data dalla divisione della retribuzione lorda annua per 13,5, dove la cifra del divisore non esprime altro che il numero medio delle mensilità (intera tredicesima e metà della quattordicesima) cui la generalità dei lavoratori, disciplinati da diversi contratti collettivi, ha diritto. In sostanza, quindi, l’accantonamento annuale effettivo di TFR è pari a circa il 7,41% (100/13,5) dell’ammontare complessivo degli emolumenti percepiti nell’anno dal personale dipendente. Inoltre, la retribuzione lorda annua di riferimento è da intendersi quantitativamente in forma estesa, perché il secondo comma dell’art. 2120 stabilisce che essa include ” … tutte le somme (…) corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto corrisposto a titolo di rimborso spese” e, se è prevista una diversa disciplina nei contratti collettivi nazionali di lavoro, questa deve essere tale da assicurare comunque un risultato globale più favorevole al lavoratore (Cassazione, sentenza n. 5235/1987).
Venendo alla rivalutazione del TFR, che è l’aspetto attualmente più interessante, in quanto parametro essenziale di paragone con i fondi pensione, la normativa dell’istituto fissa un meccanismo di automatico adeguamento al costo della vita, per garantire la stabilità nel tempo del potere d’acquisto del Trattamento di Fine Rapporto. Nello specifico, la salvaguardia dai processi inflattivi è assicurata dall’incremento del trattamento, alla fine di ciascun anno, mediante l’applicazione di un moltiplicatore, costituito dall’1,5% in misura fissa e dal 75% dell’aumento dell’indice dei prezzi al consumo determinato dall’ISTAT (rispetto al mese di dicembre dell’anno precedente). Anche qui il computo non è difficile, perché la rivalutazione annua percentuale del TFR può essere esemplificata con la formula: 1,5 + 75% del tasso d’inflazione (p.es. con un tasso d’inflazione del 2,5% la rivalutazione del TFR è 3,375%, pari a 1,5 + 1,875 per cento).
Questa rivalutazione è calcolata il 31 dicembre di ogni anno (tranne il caso di cessazione del rapporto di lavoro) su base composta, ovvero ciascun incremento del trattamento è operato anche sugli incrementi precedenti, perché facenti ormai parte del TFR accantonato.
Volendo pertanto ricapitolare, il trattamento di fine rapporto spettante al lavoratore è dato dalla quota capitale, derivante dagli accantonamenti annui del 7,41% delle retribuzioni di quegli anni, e dalla “quota interessi”, cioè dal rendimento finanziario del fondo maturato alla data del 31 dicembre dell’anno precedente (1,5 + 75% del tasso d’inflazione ISTAT).
Le considerazioni esposte consentono peraltro a quei dipendenti subordinati vicini alla pensione di valutare con maggiore ponderazione l’alternativa sulla destinazione del loro TFR. Infatti è del tutto evidente come, nell’attuale congiuntura economica che vede il costo della vita aggirarsi sul punto e mezzo percentuale, un tasso di rivalutazione della “liquidazione” intorno al 2,6 o 2,7% possa considerarsi, nel breve termine, sicuramente più vantaggioso dei rendimenti, molto contenuti, degli spesso decantati fondi di pensione integrativa.
0 commenti