Ancora una volta sta emergendo con disarmante evidenza quanto la cultura specifica che guida il sistema finanziario italiano sia oggettivamente non al passo con i tempi.
E ciò è acclarato dal fatto che quando emergono anomalie nell’utilizzo dei nuovi strumenti il meccanismo di difesa è semplicemente quello della inconsapevole sorpresa o della estremizzazione per eccesso o per difetto del problema.
La vicenda recente dei contratti su derivati ha infatti messo a nudo come il nostro paese continui ad essere importatore di soluzioni finanziarie costruite all’estero e come il legislatore nazionale non sia tempestivo e puntuale nel regolamentare tali strumenti.
Per inquadrare meglio la questione alcuni distinguo:
- si parla di contratti derivati poiché i contratti in questione fanno riferimento ad un “sottostante” ad esempio tassi di interesse o cambi di divise o commodity.
- Sono strumenti finanziari provenienti dal mondo anglosassone ove vengono identificati con la denominazione di contratti swap. Ove Swap sta per scambio; cioè il loro funzionamento base consiste proprio nello scambio tra due parti di prezzi relativi a dei sottostanti (il tasso di interesse infatti non è che il prezzo del denaro, il cambio non è che il prezzo di una divisa, il prezzo di una materia prima non è nient’altro che il prezzo di una commodity). Atteso che i regolamenti avvengono solo per differenziali.
- Sono normalmente caratterizzati da strutture base (es plain vanilla), ma possono contenere anche composizioni fantasiose di diverse opzioni.
In questo scenario, dopo una diffusione quasi decennale del loro utilizzo nel nostro paese, dopo casi eclatanti di cattivo uso che hanno portato alla rovina colossi aziendali (vd caso Enron), c’è voluta una trasmissione televisiva per far riflettere sul loro utilizzo.
Si scopre, quindi, che per diverso tempo sono stati utilizzati senza che qualcuno si preoccupasse di regolamentarli, che le normative anche quando varate si sono dimostrate incomplete, che sono stati collocati come un “prodotto da bancone“, cioè “cash and carry“, perché adatto a tutte le esigenze, che in alcuni casi sono stati considerati il rimedio per gli enti pubblici ad un taglio indiscriminato dei trasferimenti.
Ecco dunque la combinazione di fattori sui quali è proliferata l’attività in derivati.
I derivati quindi non sono assolutamente né truffe, né prodotti canaglia, né un’arma letale. Sono sicuramente strumenti sofisticati, ma legittimi, sono soluzioni finanziarie potenzialmente utili, ma da usare con appropriatezza.
L’uso improprio degli stessi piuttosto che obiettivi di vendita non consoni hanno fatto la differenza producendo effetti negativi a volte finanziariamente molto dolorosi.
La vendita di tali strumenti a pizzerie, artigiani, professionisti, cooperative come si vende normalmente un conto corrente piuttosto che una carta di credito sicuramente ha travisato più o meno intenzionalmente la filosofia del prodotto.
Ma nella miriade di normative varate bastava indicare quali erano i soggetti che per dimensioni o caratteristiche economico/giuridiche non potevano accedere a certi di contratti.
Più diretto invece il coinvolgimento dei collocatori nelle situazioni di trading ripetuto su tali strumenti.
I derivati non possono essere modificati 10 volte con l’utilizzo di strutture con una crescente numerosità di variabili e poi sperare di non trovarsi di fronte a costi di regolamento o di chiusura esorbitanti. Ma si sa, se i bisogni non ci sono bisogna crearli.
Ci sono poi gli enti pubblici. Qui la faccenda è ancora più emblematica. L’utilizzo dei derivati risale all’inizio anni duemila, ma per alcuni anni nessuno si preoccupa di regolamentarli. Viene poi varata una normativa che definisce alcuni criteri con l’obiettivo di limitare la rischiosità dello strumento, ma lascia completamente aperte altre questioni. Gli operatori nazionali adeguano i loro contratti alle nuove prescrizioni, ma ecco che compaiono gli operatori esteri che propongono strutture dagli elevati livelli di rischiosità e dalla inesistente filosofia di copertura.
Su tutto ciò si innesta il sacro fuoco della “finanza creativa” che viene introdotto nella gestione sia dei conti dello Stato Centrale che degli Enti Locali. Ecco dunque che per controbilanciare una reiterata riduzione delle risorse trasferite agli enti locali il ricorso ai contratti derivati con pesanti up front o con postergazione temporale dei flussi finanziari negativi assicurano le fonti necessarie per attuare gli ambiziosi programmi amministrativi.
Al di là quindi della molteplicità di controversie emerse sul collocamento dei derivati, ciascuna delle quali ha il diritto di venir gestita in maniera puntuale e personalizzata, resta il fatto che traspare una sensazione di approssimazione e pressappochismo nel mondo finanziario italiano che non è coerente con l’aspettativa di un paese moderno che voglia confrontarsi alla pari a livello internazionale.
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