Quello che colpisce leggendo il disegno di legge sul welfare, non sono tanto le singole disposizioni, con le quali si sta cercando di dare attuazione al Protocollo sottoscritto con le parti sociali il 23 luglio scorso, quanto lo spirito e la filosofia con cui il Consiglio dei Ministri ha messo mani al testo di riforma attualmente in discussione alle Camere.
Quest’ultimo infatti, lungi dall’apparire un profondo ripensamento di capitoli fondamentali dello stato sociale, come previdenza, ammortizzatori pubblici e mercato del lavoro, sembra piuttosto un mero elenco di ritocchi ed integrazioni ad un impianto normativo in qualche modo condiviso e, di conseguenza, sostanzialmente invariato.
Ritocchi ed integrazioni importanti e necessari, nessuno lo mette in dubbio, ma originati, più che dalla volontà di rifondare organicamente materie da tempo in attesa di sistemazione, dall’emergenza contingente, dettata, da una parte, dalle esigenze tecniche di bilancio e, dall’altra, dalle intransigenti richieste dei partiti di estrema sinistra, portatori, per tradizione e cultura, delle istanze democratiche proprie dello stato sociale.
Prendiamo la cosiddetta “riforma previdenziale”. Ci sono, è vero, modifiche interessanti ed in senso favorevole ai cittadini: per esempio sul riscatto delle lauree, sulla totalizzazione dei contributi versati in fondi diversi, sui lavoratori esposti all’amianto e sull’allargamento delle tipologie di lavoro considerate usuranti (la mappa delle quali è peraltro ancora oggetto di discussione tra le parti sociali e riguarda comunque, in ultima analisi, una percentuale bassissima di lavoratori).
Tuttavia, il cuore delle variazioni è senz’altro rappresentato dai nuovi (e astrusi) calcoli per determinare il momento in cui si raggiungono i requisiti per accedere al trattamento previdenziale, ai quali conseguono, a cascata, gli altri provvedimenti correlati, come la revisione (leggasi aumento) dei coefficienti di rendimento, utilizzati per trasformare in pensione il montante dei contributi versati dal lavoratore, e l’altro aumento, quello dei contributi a carico dei collaboratori, cioè dei famosi parasubordinati: un modo diverso per qualificare quei soggetti posizionati a metà strada fra l’inoccupazione ed il lavoro subordinato.
Ci si dimentica, leggendo le difficili disposizioni normative, che si è semplicemente sostituito il famigerato scalone di Maroni con una serie di scalini più bassi, lasciando però di fatto invariata l’altezza totale della scala, ovvero l’età pensionabile.
Anzi, secondo alcuni osservatori l’impatto algebrico derivante dal nuovo sistema pensionistico potrebbe addirittura essere di segno negativo, per i beneficiari, se confrontato con il precedente. Non che non ci fosse bisogno di tali cambiamenti, perché è la stessa sopravvivenza economica dell’Italia nell’Unione Europea ad imporli, ma non si vede il motivo per cui essi siano stati venduti come una grande conquista dei lavoratori e come una radicale inversione di rotta rispetto al passato, quando così non è.
È una delle tante contraddizioni di una comunicazione di governo errata o quantomeno inefficace, finalizzata più a soddisfare, con sottigliezze linguistiche, le frange estremistiche della coalizione, che a informare i cittadini della situazione reale.
Nulla cambia se si passa ad analizzare le variazioni apportate alle norme sul mercato del lavoro. Queste, come quelle sugli ammortizzatori sociali, sono affidate per lo più allo strumento delle deleghe, cioè ad uno o più decreti legislativi: atti di emanazione governativa su delega del Parlamento. Bisognerà quindi aspettare la concreta formazione di tali decreti delegati per valutare la maggiore o minore metamorfosi di un mercato ora fondato soprattutto sulla precarietà del posto di lavoro.
Tuttavia, già adesso chi si aspettava il completo abbandono della legge “Biagi” è rimasto deluso. Invero, il sottofondo normativo del disegno di legge è sempre quello ideato dallo statista ucciso dalle BR. Non ci sono particolari stravolgimenti nei precedenti meccanismi di assunzione e nei contratti di lavoro, facendo pensare (ed a ragione) che lo stato di precarietà della posizione lavorativa soprattutto dei giovani, sia, anche per l’esecutivo di Prodi, un male tutto sommato necessario e come tale cercato: è il prezzo da pagare per sostenere l’occupazione, altrimenti i lavoratori precari sarebbero del tutto inoccupati e/o disoccupati.
Per esempio, stabilire che i lavoratori con un contratto a termine debbano obbligatoriamente essere assunti a tempo indeterminato se hanno complessivamente superato 36 mesi di prestazione lavorativa, comprensivi di proroghe e rinnovi (a meno che il successivo rinnovo non venga stipulato presso la Dpl competente), è il minimo sindacale da chiedere ad un governo al quale partecipano attivamente forze di “sinistra”.
Anche qui una comunicazione non adeguata: o si aderisce per intero alla tesi di chi non vuole un mercato del lavoro flessibile (in uscita), basato sulla precarietà, oppure si dice apertamente che una quota di flessibilità è ineliminabile dal moderno sistema produttivo e si modificano di conseguenza mentalità e regole (p.es. prevedendo forme di finanziamento a favore dei giovani con contratti di lavoro a progetto, diverse dalla elementare istituzione di fondi di rotazione prevista nel programma di welfare). I compromessi, soprattutto in queste fondamentali tematiche, non fanno bene a nessuno e meno che mai ad un paese che sta faticosamente percorrendo la strada della ripresa economica.
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