La riforma previdenziale
Com’era facile prevedere, dopo l’opportuno stralcio dell’argomento dalla finanziaria, la maggioranza di governo torna a litigare sulla questione della riforma previdenziale. Ancora una volta la contrapposizione mette di fronte, da una parte, i prodiani e, dall’altra, la sinistra radicale ed i sindacati.
I primi vogliono ritoccare la disciplina delle pensioni, proponendo incentivi per chi ritarda l’uscita dal mondo del lavoro e disincentivi per chi al contrario intende approfittare subito dell’occasione offerta dalle cosiddette “finestre” di pensionamento. I secondi non gradiscono affatto l’annunciato innalzamento dell’età pensionabile, ritenuto invece indispensabile dai suoi proponenti per il risanamento dei conti pubblici ed il rispetto degli accordi europei sul rientro del deficit.
In realtà la diatriba non ha motivo d’essere, perché i dati sociografici della popolazione italiana e quelli derivanti dall’analisi della finanza pubblica non lasciano dubbi: considerata la piramide dell’età in Italia, le percentuali attuali di pensionati e di forza lavoro, la crescita tendenziale di queste variabili e la spesa pubblica nel settore previdenziale, è del tutto evidente l’impellente necessità di riformare in modo organico la disciplina del sistema pensionistico, con l’obiettivo di raggiungere, in tempi ragionevoli, un’accettabile equilibrio tra il versamento dei contributi da parte degli assicurati e l’erogazione dei trattamenti di sostegno al reddito ad opera degli istituti di previdenza.
Si deve in altre parole cercare di arrivare ad una situazione in cui i contributi di oggi non vadano a pagare le pensioni di oggi, ma quelle di domani, cioè quelle degli stessi assicurati che li stanno versando. In questo modo sarebbe possibile creare un circolo monetario virtuoso che, non solo si alimenterebbe da solo, ma permetterebbe (e non è poco) l’erogazione al pensionato di un trattamento finanziario equo ed ineccepibile, in quanto esattamente corrispondente al montante dei “premi” periodici corrisposti durante tutta la sua vita lavorativa.
L’interesse pubblico in questo spinoso comparto è pertanto costituito dall’esigenza di garantire alle future generazioni sia un livello adeguato di pensione, ovviamente nel rispetto di verosimili requisiti di età ed anzianità, sia tutte le altre misure di assistenza imposte da una visione Welfare dello Stato.
L’attuale normativa prevede il diritto al pensionamento a fronte di un’anzianità contributiva non inferiore a 40 anni (indipendentemente dall’età anagrafica), oppure, in alternativa, al raggiungimento del doppio requisito di età ed anzianità. Più in dettaglio, in quest’ultima eventualità e solo per gli anni 2008 e 2009, i lavoratori dipendenti pubblici e privati, con 35 annualità di contributi, possono andare in pensione al compimento dei 60 anni d’età, mentre quelli autonomi acquisiscono lo stesso diritto al raggiungimento dei 61 anni. L’età anagrafica minima cresce per gli anni dal 2010 al 2013, perché si passa, sempre con 35 anni di contributi, a 61 anni per i dipendenti ed a 62 per gli autonomi. Da 2014 c’è un’ulteriore innalzamento dell’età richiesta: occorrono rispettivamente 62 (dipendenti) e 63 anni (lavoratori autonomi) per maturare i requisiti che danno diritto al trattamento previdenziale.
La manovra del governo, ancora in fase di definizione, dovrebbe correggere il suddetto “scalone” del 2008 con un sistema a “scalini”, che, partendo per quell’anno da un’età pensionabile di 58 anni (più i soliti 35 anni di contributi), arrivi a 62 anni nel 2014.
In alternativa potrebbe ritornare in ballo la vecchia ipotesi di agganciare la maturazione dei requisiti di pensionamento ad una quota (95 o forse 96) rappresentativa della somma fra età anagrafica ed anzianità contributiva. Allo studio anche misure complementari riguardanti la previdenza, come l’allargamento delle attività lavorative classificate usuranti, per le quali resterebbe garantita l’uscita a 57 anni, e la revisione al ribasso dei coefficienti applicati per la determinazione degli importi di alcune pensioni di grande entità. Sempre in quest’ottica verrebbero eliminati, all’interno di una più generale armonizzazione dei fondi speciali dell’INPS, i settori cosiddetti privilegiati, quelli cioè che godono ora di grandi vantaggi previdenziali. Interessante anche il previsto accorpamento degli enti previdenziali, che porterebbe alla fusione dei due principali istituti: l’INPS e l’INPDAP.
E’ da segnalare infine la possibilità che vengano inserite facilitazioni per il riscatto delle lauree e bonus contributivi atti a favorire il rinvio del pensionamento. Non è esclusa neppure la previsione di nuove forme di totalizzazione contributiva.
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