“Ma la vera sfida rimane la capacità di creare un clima di fiducia”
Il liberalismo indicava alle origini la necessità di una limitazione dei poteri dello Stato, a favore dei diritti cosiddetti naturali, innati degli individui, che storicamente coincidevano sia con quelli inerenti la sfera strettamente personale delle persone, come p.es. la libertà di espressione, d’opinione, di religione, etc…, sia con quelli prettamente economici: diritto di proprietà, libertà d’iniziativa economica, etc…
Attualmente, ritenuti ormai acquisiti dalle culture nazionali i primi, il liberalismo viene ad identificarsi, nel linguaggio parlato, quasi esclusivamente con il liberismo, ovvero con la sua dimensione economica, e pertanto quando si parla di liberalizzazione, facendo riferimento indistintamente ad entrambi i termini, s’intende l’eliminazione di vincoli e restrizioni al libero agire degli operatori e delle forze di mercato. Ci si riferisce cioè, almeno come modello, a quella specifica visione della politica economica, chiamata generalmente neoclassica, che non vuole un intervento invasivo dello Stato nell’economia, auspicando anzi l’adozione di un’efficace deregulation delle normative economiche, perché ritiene il sistema stesso in grado di funzionare meglio e con maggiore utilità per tutti quando non è condizionato dalla fissazione di regole e limiti dall’alto attraverso le coercitive decisioni dei poteri pubblici.
In genere l’ottica liberistica neoclassica è associata alla tradizione culturale dei gruppi politici di destra, mentre, viceversa, sono democratiche e quindi di sinistra le istanze volte a rafforzare l’intervento dello Stato in economia, soprattutto a salvaguardia dei diritti degli indigenti, dei lavoratori e di tutte le fasce più deboli della popolazione, in poche parole di coloro che sono i beneficiari tipici delle politiche del welfare.
Da questo punto di vista l’Italia presenta un’evidente anomalia, in quanto gli interventi di politica economica rientranti nell’alveo delle cosiddette liberalizzazioni sono stati lanciati e portati avanti da un governo, quello attuale, di sinistra, quando invece li avrebbe dovuti attuare il precedente esecutivo di centro-destra, maggiormente deputato, in quanto tale, a realizzare le deregulations in parola.
L’esecutivo della CdL, al contrario, si è guardato bene dal farle, ovviamente per non correre il rischio di intaccare gli interessi di particolari categorie economiche, come quella dei liberi professionisti, che, sappiamo bene, costituiscono la sua principale forza elettorale.
Le domande che adesso è legittimo porci sono due: se queste ventate di libertà economica (o “lenzuolate” come sono state chiamate), soffiate a vantaggio dell’interesse pubblico, hanno sortito l’effetto desiderato e se ne seguiranno altre.
Diciamo subito che il giudizio su di esse è sicuramente positivo, pur con i doverosi distinguo dovuti alle differenze sostanziali dei settori coinvolti, che hanno forse evidenziato la mancanza di un disegno organico di rivisitazione delle polverose e farraginose normative in essere. Ma anche se con effetti quantitativamente diversi, gli interventi di liberalizzazione hanno dato una forte accelerata alla concorrenzialità dell’azienda Italia, contribuendo pertanto alla ripresa dei consumi e degli investimenti. Due elementi questi ultimi che rappresentano le componenti più importanti del processo di ripresa e che guarda caso sono proprie quelle che il governatore di Bankitalia Mario Draghi ha indicato come prioritarie per la crescita, sulle quali occorre lavorare per riaccendere il motore economico, fermo da troppo tempo.
Come ha spiegato il Ministro per lo sviluppo economico Bersani, da luglio 2006 sono state aperte mille nuove parafarmacie, di cui solo il 15% nei supermercati, mentre le restanti sono nate ad iniziativa di giovani farmacisti, che quindi adesso non sono più disoccupati. Lo stesso dicasi per i giovani che hanno avuto la possibilità di accedere a nuove iniziative produttive prima inibite, grazie all’eliminazione degli ostacoli vigenti in alcuni settori, come è accaduto p.es. nel comparto dei barbieri, delle estetiste e delle guide turistiche.
E’ il caso di ricordare anche le modifiche alla normativa dei mutui bancari, che hanno permesso di non pagare più le gravose penali dovute per l’estinzione anticipata degli stessi e di trasferire facilmente il prestito da un istituto all’altro quando quest’ultimo riconosce condizioni finanziarie più favorevoli.
Per non parlare dell’indiscutibile vantaggio, nelle assicurazioni RC auto, di non vedersi peggiorare, da un anno all’altro, la propria classe bonus-malus. Va citata pure l’abolizione dei costi di ricarica dei cellulari, se non altro perché l’ISTAT ha riferito, nella sua relazione periodica sul costo della vita, che tale novità ha influito in modo positivo sul paniere che misura l’inflazione.
Tuttavia i pacchetti sulle liberalizzazioni finora perfezionati e divenuti legge dello Stato rappresentano solamente il 10% di quelli ancora in attesa in Parlamento per l’approvazione. Peraltro tra questi ultimi sono comprese anche manovre importanti, riguardanti settori essenziali.
Ci sono disegni di legge sull’energia, che in Italia è più costosa rispetto agli altri paesi, sui servizi pubblici locali, sulle ferrovie, che devono cessare di essere un peso per l’amministrazione dello Stato, sull’azione collettiva dei consumatori e, infine, sugli Ordini professionali.
Con riferimento proprio alle professioni intellettuali è chiaro il proposito dell’esecutivo di eliminare le posizione di privilegio acquisite da alcuni Ordini, diventati con il tempo delle vere caste corporative. Stando alle dichiarazioni degli esponenti della maggioranza di governo, la riforma delle professioni intende togliere agli Ordini l’esclusiva per una serie di prestazioni, allo scopo di renderle più concorrenziali ed economiche. Inoltre verrà rivista la durata dei tirocini, che saranno regolarmente remunerati. Sul tappeto c’è anche l’obiettivo di trasformare gli Ordini stessi in associazioni.
A tale proposito c’è da segnalare la battuta d’arresto registrata con lo stralcio, nei giorni scorsi, dell’emendamento al nuovo disegno di legge sulle liberalizzazioni, che prevedeva l’esclusione dell’intervento del notaio in tutte le cessioni di immobili di valore catastale inferiore ai centomila euro. L’emendamento, originariamente voluto dall’ulivista Andrea Lulli, avrebbe costituito una grande “lenzuolata” ai costi che sostiene chi si appresta a comprare una casa, ma evidentemente la lobbie dei notai, che fra l’altro ha provveduto a comprare intere pagine di quotidiani per rivendicare la propria esclusiva nelle compravendite, ha avuto la meglio e l’emendamento è stato, per ora, messo da parte.
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