Perché l’Italia è sull’orlo di una nuova recessione?
Ormai anche i più ottimisti hanno dovuto prenderne atto: la situazione economica italiana è tutt’altro che confortante.
Oggi non sono solo le intuizioni degli economisti lungimiranti ad affermarlo, ci sono i crudi e realistici dati. Il picco produttivo dell’industria è sicuramente passato ed i segnali di un rallentamento della domanda, e quindi della crescita, sono del tutto evidenti. Una flessione, iniziata a fine estate, che si protrarrà per l’intero scorcio dell’anno, per poi manifestare maggiore intensità nel corso del 2008.
Caduta del ciclo congiunturale che si verifica peraltro proprio nel momento di crisi internazionale del credito, con i conseguenti riflessi negativi, non tanto per le perdite originate dal possesso dei famosi derivati, quanto soprattutto per il pericolo di un aumento, insostenibile per le famiglie italiane, dei tassi di interesse.
Qual è dunque lo scenario economico del nostro paese che si trova di fronte un osservatore anche distratto?
Cerchiamo di delinearlo guardando le singole componenti. Quelle in grado di fare il bello ed il cattivo tempo di qualsiasi sistema economico: i consumi delle famiglie, gli investimenti delle imprese, l’estero con le esportazioni ed il settore pubblico.
I consumi dei privati costituiscono l’elemento più incisivo sul PIL, ma anche il più incerto ed articolato, avendo il potere di influenzare notevolmente gli altri ed essendone a sua volta influenzato.
Diciamo subito che le prospettive future di crescita della spesa degli italiani non sono affatto buone. Ciò a causa di vari fattori socio-economici, i quali, instaurando aspettative negative ed un clima di forte sfiducia, frenano le decisioni di consumo e danno luogo anzi all’aumento della domanda di moneta per fini precauzionali, ovvero alle varie forme di risparmio (alimentate pure dai tassi di interesse in crescita).
I principali fattori di riduzione della spesa sono, in questo particolare momento congiunturale, quelli derivanti dall’inestricabile intreccio tra i mercati dei beni di consumo, immobiliare e finanziario.
Infatti, con il rialzo dei tassi di interesse e la percepita tendenza degli stessi a continuare a crescere, è salito, oltre il margine di accettabilità, l’indebitamento delle famiglie con le banche e con gli altri istituti finanziari, soprattutto se tale indebitamento è stato precedentemente contratto attraverso prestiti a tasso variabile.
A sua volta l’affidamento sul mercato finanziario viaggia in parallelo con l’andamento del mercato immobiliare, caratterizzato da prezzi delle abitazioni più che raddoppiati negli ultimi anni, almeno nelle maggiori città. L’attuale raffreddamento della dinamica delle compravendite immobiliari è pertanto solo il primo sintomo di un latente malessere, il quale molto probabilmente porterà con sé i mercati del credito e dei consumi, con effetti tanto più devastanti quanto più i tassi di interesse proseguiranno nella loro graduale crescita.
Se il panorama che si apre alla spesa privata è quantomeno preoccupante, quello degli investimenti imprenditoriali è, per certi versi, anche peggiore.
Essi risentono chiaramente del rallentamento dei consumi, in una viziosa spirale reciprocamente dannosa, che non fa altro che ricordarci l’ovvio circuito del reddito: consumi-profitti-investimenti-stipendi-consumi. Ma ad aggravare la situazione della spesa per investimenti delle aziende c’è ora pure il difficile momento internazionale, contraddistinto dalla vistosa turbolenza del prezzo delle materie prime energetiche e, soprattutto, dall’apprezzamento del super euro.
Variabili che da sole spiegano ampiamente la tendenziale decelerazione dell’attività manifatturiera registrata dagli analisti. Senza contare la crisi già iniziata nel settore edilizio e quella, in procinto di verificarsi, nel comparto del credito: due mercati sicuramente trainanti i programmi di investimento delle imprese.
L’apprezzamento del super euro rispetto al dollaro USA definisce la chiave di lettura anche dell’altro grande motivo di frenata dell’economia italiana: l’apporto del commercio estero. Non può sottovalutarsi, infatti, la minore consistenza della domanda proveniente dai paesi extraeuropei nella diminuzione della produzione e, conseguentemente, del PIL.
Il tasso di cambio “pesa” sulle esportazioni extra UE. Esso impedisce a queste ultime di svolgere il loro ruolo di sostegno dell’economia interna, mediante una richiesta addizionale (oltre quella nazionale) di beni di consumo.
Infine, il settore pubblico.
Nel contesto descritto s’inserisce la manovra di bilancio, la quale è ormai lontana dal rappresentare uno strumento decisivo per la politica economica.
Imbavagliate le spese dalle esigenze di contenimento del deficit e del debito pubblico (nonché dagli impegni comunitari assunti), l’unico spazio operativo è oggi fornito dalle entrate, ovvero dalla politica fiscale.
Uno spazio peraltro ben navigabile, perché potenzialmente in grado di indirizzare l’economia verso la ripresa, sia direttamente, attraverso la crescita dei consumi originata dall’aumento del reddito disponibile, sia indirettamente, mediante la possibilità di migliorare la fiducia dei contribuenti riguardo le variabili future.
Tuttavia, mentre è pressante la necessità di maggiori ed ulteriori spese pubbliche, per l’improrogabile investimento in nuove infrastrutture, nella ricerca, nell’istruzione, nonché (e non per ultima) nella sicurezza degli italiani, la riduzione delle tasse appare un’area di manovra troppo limitata e sostanzialmente priva degli effetti sperati.
E ciò in quanto l’efficacia della politica fiscale è strettamente legata ad una diminuzione della pressione tributaria, percepita dalla collettività come permanente e consistente: due elementi che purtroppo non sembrano sussistere all’interno delle misure economiche recentemente proposte.
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