Il sistema produttivo italiano
Una produzione senza innovazione, in strutture di piccole dimensioni e con prevalente insediamento nel nord Italia
Il rapporto annuale 2006 dell’ISTAT, recentemente diffuso, dedica un’ampia parte delle sue rilevazioni alle problematiche del sistema produttivo italiano.
L’analisi compiuta dall’Istituto centrale di Statistica prende in considerazione due importanti indicatori per dipingere un quadro della situazione il più possibile descrittivo della realtà italiana: la redditività e la produttività. Il primo esprime il rendimento del capitale investito nell’impresa ed è pertanto il risultato del rapporto tra profitto e patrimonio aziendale; il secondo indicatore, la produttività, è invece il termometro che indica la quantità prodotta a parità di fattori produttivi impiegati (in particolare del lavoro), ottenuto quindi rapportando la produzione ai mezzi utilizzati.
Stando ai dati statistici, la percentuale più rilevante di imprese (ben il 35%) produce ai limiti della sussistenza, perché è formata da aziende che presentano ambedue gli indici descritti al di sotto della media. Sono generalmente imprese individuali e società di persone con sede nel Mezzogiorno, esercenti attività commerciali, alberghiere e di ristorazione, ma non mancano imprese alimentari, tessili, di lavorazione del legno e di produzione di materiali edilizi.
Le imprese con buoni livelli di redditività ma con una produttività del lavoro molto al di sotto della media sono il 29% delle nostre 4,2 milioni di imprese attive. Sono aziende in cui spicca l’elemento personale, in quanto nella stragrande maggioranza dei casi sono costituite da imprese individuali, professionisti e lavoratori autonomi, mentre è scarsa la presenza di forme societarie. Sono ubicate geograficamente nel centro-sud ed operano nei comparti del “made in Italy” in ambito manifatturiero, nelle costruzioni e nei servizi di mercato.
Viceversa, le imprese con bassa redditività ed elevata produttività costituiscono il 16% del totale. Esse sono in linea di massima società di capitali di media/grande dimensione, che sfruttano l’esistenza delle economie di scala, cioè dei vantaggi derivanti dalla diminuzione dei costi all’aumentare della quantità prodotta. I loro mercati di riferimento sono quelli della raffinazione del petrolio, della chimica e dei mezzi di trasporto.
Solo il 21% delle imprese attive ha entrambi gli indicatori sopra la media. Si tratta prevalentemente di aziende del nord operative nel settore dei servizi alle imprese, la cui virtuosità è probabilmente conseguenza della loro ridotta dimensione e della forte presenza di professionisti e lavoratori autonomi.
Da quanto detto emerge quindi che le regioni maggiormente “attraenti” dal punto di vista dei lavoratori sono quelle del centro nord, in particolare Toscana, Lombardia ed Emilia-Romagna. I principali punti di partenza del flusso migratorio sono invece identificabili con le aree interne delle regioni meridionali.
Il rapporto ISTAT si interessa anche (e giustamente) delle motivazioni che spingono i nuovi imprenditori a intraprendere la loro attività. Sicuramente fra di esse ha un ruolo importante il desiderio di mettersi in proprio, magari per migliorare sensibilmente le proprie condizioni economiche, ma non manca però la volontà di evitare la disoccupazione, elemento che in alcune zone geografiche meridionali rappresenta l’unica vera spiegazione dell’entrata nel mondo imprenditoriale.
In fase di avvio della nuova iniziativa (durante il c.d. start up ) i problemi più frequentemente riscontrati sono quelli relativi alla difficoltà di stabilire contatti con la clientela, alla necessità di reperire finanziamenti adeguati per ammontare e costo ed anche quelli legati agli aspetti giuridici ed amministrativi dell’impresa. A questo proposito ben vengano le liberalizzazioni, per le quali l’esecutivo si è impegnato sin dall’inizio del suo mandato. Non sorprende inoltre che, successivamente alla costituzione dell’azienda, il maggior ostacolo allo sviluppo imprenditoriale è individuato (sempre dal rapporto ISTAT) nell’eccessivo peso degli oneri fiscali ed amministrativi, il quale “frena” fortemente la naturale espansione dell’organizzazione.
In conclusione, il modello produttivo del nostro paese è sostanzialmente basato su aziende di piccole dimensioni ed a conduzione familiare, che, in quanto tali, non favoriscono certo la crescita della competitività. La loro specializzazione è verso settori a basso valore aggiunto e più precisamente verso quei comparti delle attività manifatturiere, meglio conosciuti come “made in Italy”, che sono spesso a basso contenuto d’innovazione e di ricerca e sviluppo.
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