Stop allo sfruttamento dei lavoratori a termine ed a progetto
Tra le principali novità contenute nella piattaforma di riforma del Welfare predisposta dai tecnici del governo Prodi ci sono senza dubbio, per la loro portata pratica, le disposizioni che fissano rigorosi paletti allo scopo di limitare l’abuso da parte dei datori di lavoro delle forme contrattuali del lavoro a termine e del lavoro a progetto.
Infatti, il rapporto di lavoro è, in base alla legislazione vigente, a tempo indeterminato, o almeno così dovrebbe essere, ma sono previste alcune fattispecie al verificarsi delle quali è possibile stipulare contratti a termine.
Oltre ai casi di rapporti di lavoro disciplinati dai nuovi contratti cosiddetti flessibili (a progetto, di inserimento, di somministrazione, etc…), il nostro ordinamento (D.Lgs. n. 368/2001), conformemente ad una direttiva UE, stabilisce la liceità dell’assunzione a termine dei lavoratori quando ragioni di carattere “tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” la rendano necessaria. Ragioni che vanno comunque ben specificate nell’atto di assunzione, cioè nel contratto individuale con il singolo dipendente, da non confondere con il contratto collettivo che disciplina invece l’intera categoria di lavoratori.
La scrittura privata che definisce il contratto individuale deve essere sempre stipulata in forma scritta, tranne nell’ipotesi, da considerarsi occasionale, di rapporti di durata inferiore o uguale ai dodici giorni. In ogni caso, dalla normativa in parola sfuggono le aziende di trasporto aereo o quelle esercenti servizi aeroportuali, che possono quindi inserire con molta più facilità un termine nei loro contratti di lavoro subordinato. Inoltre, non è ammessa la redazione del contratto a termine in tutti i casi di sostituzione di lavoratori in sciopero o di omessa valutazione dei rischi (classificati tali dalla legge 626/1994 sulla “sicurezza” in fabbrica) da parte dell’impresa, nonché quando presso le unità produttive interessate si sia fatto ricorso a licenziamenti collettivi, a sospensione dei rapporti o a riduzione dell’orario di lavoro che abbiano riguardato lavoratori addetti alle stesse mansioni oggetto del contratto a termine.
La fissazione di limiti quantitativi all’assunzione a tempo determinato, rispetto al totale dei dipendenti dell’azienda, è rimessa alla contrattazione collettiva nazionale, la quale però non può limitare il numero dei contratti a termine se questi ultimi sono stati conclusi per obiettivi o situazioni particolari come nel caso dell’avvio dell’attività d’impresa, della sostituzione di lavoratori assenti, dell’esecuzione di attività stagionali o aventi carattere straordinario, oppure quando l’impresa versa in difficoltà occupazionali.
Il termine del contratto a tempo determinato può essere prorogato, ovviamente con il consenso del lavoratore, soltanto nel caso di una sua durata originaria inferiore ai 3 anni. In questa eventualità la proroga è possibile, una sola volta, a condizione che sussistano condizioni oggettive che la rendano opportuna (la cui dimostrazione è a carico del datore di lavoro) e che riguardi le stesse mansioni per le quali l’iniziale contratto era stato stipulato. Comunque, anche con la proroga, la durata complessiva del rapporto di lavoro a termine, successivamente rinnovato, non può superare i 3 anni.
Ed è proprio con l’istituto della proroga che i committenti hanno aggirato la pur chiara e pacifica disciplina normativa, rinnovando di fatto il contratto a termine dei lavoratori anche oltre i 3 anni di limite legislativo.
L’elusione in questione avveniva mediante la condannabile abitudine di molti datori di lavoro di reiterare più volte durante l’anno l’atto di assunzione del dipendente, chiaramente sempre con l’utilizzo di contratti a tempo determinato. La tecnica prevedeva quindi che, trascorsi pochi giorni (il minimo contrattualmente indispensabile) dalla scadenza del precedente contratto, si procedesse alla riassunzione del medesimo soggetto attraverso un nuovo rapporto a termine, con il risultato che il lavoratore veniva privato di ogni certezza occupazionale ed era pure costretto ad alternare periodi contrattuali di lavoro subordinato a giorni di disoccupazione (durante i quali si trovava sprovvisto di retribuzione e copertura previdenziale).
Adesso, con il recepimento del “protocollo su previdenza, lavoro e competitività per l’equità e la crescita sostenibili”, questa pratica dovrebbe scomparire, perché nel capitolo sul mercato del lavoro si statuisce innanzitutto il principio fondamentale che vuole il contratto di lavoro a tempo indeterminato (non a termine) come “la forma comune dei rapporti di lavoro” e poi si stigmatizzano proprio “gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti a tempo determinato”.
L’applicazione pratica dei suddetti precetti è affidata a dei correttivi specifici. E’ stabilito infatti che qualora la successione dei contratti per lo svolgimento di mansioni equivalenti abbia comportato fra le stesse parti (datore di lavoro e dipendente) un rapporto di lavoro di durata superiore a 36 mesi, comprensivi di proroghe e rinnovi, ogni eventuale ulteriore contratto a termine dovrà essere stipulato presso la Direzione provinciale del lavoro competente, con l’assistenza di un rappresentante del sindacato cui il lavoratore sia iscritto o conferisca mandato. Se tale procedura non viene rispettata il nuovo contratto è a tempo indeterminato. Sono esclusi dalla norma i rapporti di lavoro con i dirigenti e con il personale da somministrare ai sensi degli artt. 20 e ss. del D.Lgs. n. 276/2003.
Sono inoltre escluse dai limiti quantitativi percentuali, eventualmente indicati dai contratti collettivi nazionali, le assunzioni a termine per attività stagionali, per motivi di sostituzione e quelle connesse alla fase di avvio dell’impresa.
Infine, ai lavoratori a termine che abbiano prestato servizio per almeno 6 mesi presso la stessa impresa (anche se assunti per attività stagionali), è attribuito, per il periodo di un anno, un diritto di prelazione nelle assunzioni a tempo indeterminato decise dall’impresa e riferite alle medesime mansioni svolte dai dipendenti a tempo determinato.
Il protocollo di riforma del welfare si preoccupa anche di prevenire abusi ai danni di una particolare categoria di dipendenti, quella dei lavoratori a progetto. Questa forma di lavoro, o meglio di collaborazione tra impresa e parasubordinati, riscosse agli esordi, cioè ai tempi in cui veniva ancora chiamata co.co.co. (collaborazione coordinata e continuativa), un elevato successo tra i datori di lavoro, o più precisamente tra i committenti della collaborazione.
Il successo era dovuto alla circostanza che essa richiedeva pochi adempimenti burocratici per l’assunzione del collaboratore e per lo svolgimento della sua attività, ma soprattutto perché era poco costosa per l’azienda committente, in termini di contributi previdenziali ed assicurativi da versare.
Purtroppo, come spesso accade nel nostro paese, di questa tipologia di lavoro è stato fatto subito un evidente abuso da parte di molte aziende, che l’hanno utilizzata impropriamente per assumere lavoratori da inserire nel proprio organico come normali dipendenti, anziché come collaboratori autonomi, occultando così, sotto il velo del contratto di co.co.co, gli ordinari e più gravosi rapporti di lavoro subordinato. Tant’è che per ovviare all’uso improprio del nuovo istituto contrattuale, la legge Biagi trasformò gran parte delle co.co.co in contratti di “lavoro a progetto”, i cui principali elementi costitutivi sono i seguenti:
- la fissazione di un termine finale;
- l’aumento degli adempimenti e del costo dei collaboratori a progetto;
- l’esistenza di un progetto.
La fissazione del termine finale nel contratto a progetto è servita a dare ulteriore valenza alla durata di una specifica attività (progetto) del committente e quindi ad uno specifico risultato che con il contratto stesso s’intende raggiungere.
Il passaggio dalle semplici co.co.co ai lavori a progetto ha però comportato anche un forte aumento degli oneri a carico dei committenti per lo svolgimento dell’incarico di collaborazione, nonché una notevole crescita del costo dei relativi contributi previdenziali, togliendo di fatto a questo istituto lavorativo il forte appeal che esso aveva in precedenza.
Per quanto riguarda invece l’ultimo aspetto, la redazione del progetto, essa avrebbe dovuto garantire, nelle intenzioni del legislatore, la sussistenza delle caratteristiche tipiche del lavoro autonomo, incompatibili con la subordinazione, perché nel progetto devono essere sempre indicati l’oggetto dell’attività del collaboratore e le modalità di esecuzione dell’opera o del servizio.
Rimaste disattese queste finalità della legge Biagi, attraverso le quali si voleva assicurare ai lavoratori coinvolti il rispetto del loro profilo, che non doveva affatto coincidere con quello tipico dei lavoratori dipendenti soggetti ad un orario e ad un rapporto gerarchico, il protocollo che Prodi sta cercando di far accettare alle parti sociali torna a salvaguardare i lavoratori a progetto mediante disposizioni ad hoc .
Si afferma infatti nel documento che la tipologia contrattuale del lavoro a progetto, oltre ad essere destinataria di un aumento ulteriore dell’aliquota contributiva, per rafforzare la posizione pensionistica dei giovani parasubordinati, sarà oggetto di “azioni rivolte a contrastare l’elusione della normativa di tutela del lavoro subordinato, ponendo particolare attenzione alle collaborazioni svolte dai lavoratori, anche titolari di partita IVA, che esercitino la propria attività per un solo committente e con un orario di lavoro predeterminato”.
Arriva quindi, nel quadro normativo di questa spinosa materia, una disposizione chiara e concisa che getta finalmente le basi per la realizzazione di successivi interventi ispettivi e sanzionatori a carico dei datori di lavoro inadempienti.
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